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Il Fisco tartassa le Casse previdenziali aggravando le difficoltà in cui versano i professionisti

maurizio de tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

Gli appetiti dello Stato sul risparmio previdenziale delle Casse private professionali sono in fase crescente. Ritornano i tempi dei prelievi forzosi, stavolta a fondo perduto. Le Casse vengono individuate tra i soggetti privati quando si tratta di tassarle. Ma vengono, invece, considerate enti pubblici quando si tratta di assoggettarle a prelievi forzosi. È un atteggiamento dello Stato scandaloso, predatorio ed espropriativo. Le Casse private sono tenute a risparmiare sui costi di gestione come gli enti previdenziali pubblici. Di questi ultimi, i risparmi sulle spese vengono incamerati dallo Stato che, per tradizione, ne appiana i deficit.
Lo stesso prelievo avviene inspiegabilmente per i risparmi di spesa della previdenza privata dei professionisti che non riceve, per espressa esclusione fatta dalla legge, alcun contributo da parte dello Stato. A questa iniquità verso le Casse professionali si aggiunge l’applicazione di un’illegittima doppia tassazione sulla gestione dei contributi e sulle pensioni, che non esiste in nessun’altra parte del mondo.
I professionisti versano i contributi obbligatori alle rispettive Casse, che vengono impegnati nell’acquisto e gestione di beni immobili, obbligazioni, azioni ecc., e che producono proventi e dividendi sui quali il Fisco applica una tassazione che supera in media il 18 per cento. La palese illegittimità si sostanzia nel fatto che, quando maturano la pensione, i professionisti pagano le imposte sull’intero trattamento pensionistico, senza detrarre quelle pagate dalle Casse.
Con la doppia tassazione l’imposizione fiscale supera in taluni casi il 60-65 per cento, con un sistema esoso e incostituzionale che si denomina E.T.T. mentre in altri Paesi si applica il sistema E.E.T. Di recente, dopo una strenua opposizione dell’Adepp e delle Casse professionali, il prelievo sui dividendi è stato diminuito, per le Casse, dal previsto 26 per cento al 20 per cento. Ma l’assurdo è che tale diminuzione è stata compensata con un aumento delle imposte a carico dei Fondi pensioni.
Una compensazione tra «tartassati» è la logica perversa dell’agire della politica in questo Paese. Di fronte ad uno Stato predatore bisogna adottare giuste cautele negli investimenti delle Casse professionali. Nell’assise promossa dall’Ente privato di previdenza dei commercialisti si è parlato di «Casse in aiuto alla ripresa». Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Maurizio Lupi ha parlato di «project financing che ci avvicina all’Europa». Ha precisato che «la collaborazione tra pubblico e privato, soprattutto in periodi di scarsità di risorse come questi, è più che utile, è necessaria per dotare il Paese di infrastrutture adeguate che ci facciano recuperare il gap in logistica rispetto agli altri Paesi europei».
L’idea dei commercialisti, accolta con favore dal ministro Lupi, è buona soltanto in teoria. Bisogna, infatti, prestare una certa cautela e molta attenzione. I recenti eventi devono far riflettere sull’incidenza della corruzione e sulla spregiudicatezza di alcuni comportamenti nelle operazioni relative agli investimenti nel settore privato e nelle infrastrutture pubbliche. Non pensiamo che sia una buona soluzione il fatto che le Casse, per gli incauti investimenti compiuti, debbano poi costituirsi parte civile nei processi che potranno aprirsi per le tipologie di illeciti di cui si parla in questi ultimi tempi.
Ma vi è ancora di più. Alla pressione, anzi all’oppressione dello Stato sulle Casse si accompagna la crisi economica che investe l’attività di gran parte dei professionisti italiani. Più della metà di essi sono al di sotto della soglia del reddito minimo. E non sono evasori, ma soggetti che operano in una situazione di sovraffollamento degli albi professionali, di decurtazione illegittima dei compensi, di selvaggia abolizione dei minimi tariffari. E le Casse di previdenza devono intervenire al più presto con misure integrative. Di ciò dovrebbe dibattersi nei congressi professionali.
Secondo il Dipartimento delle Finanze, i redditi dei professionisti sono andati a picco; lo stesso ha reso pubblici i dati relativi al 2012 sui redditi dei professionisti: riduzione del 37 per cento per i notai, del 18 per cento per gli avvocati, del 13 per cento dei farmacisti. Le percentuali sono ancora maggiori per altre professioni. Nel 2013, e in questo scorcio del 2014, i redditi sono ulteriormente diminuiti di un altro 30-40 per cento.
Le spese sono rimaste inalterate e in alcuni casi una possibile riduzione è stata realizzata solo con il licenziamento dei dipendenti e la revoca delle collaborazioni. Il fenomeno negativo non si è arrestato ed è cresciuto il ridimensionamento degli studi professionali. Ma, cosa ancor più grave, è che il reddito dei giovani si è quasi azzerato, e che più del 50 per cento dei professionisti si trova in una situazione di grande difficoltà.
Di ciò nessuno parla. Il Fisco, anzi, intende ulteriormente «ingrassarsi» e la politica tace. La situazione è aggravata dal fatto che esistono scarse deduzioni fiscali per gli studi professionali. I professionisti sono, tra i percettori di reddito, quelli che usufruiscono delle minori detrazioni e deduzioni fiscali, e sui quali gravano ingiustificate limitazioni delle esigenze di formazione e delle spese di rappresentanza. Non mancano, poi, le contraddizioni e le complicazioni interpretative.
L’ultima legge di stabilità, la n. 147 del 2013, ha riaperto, a partire dal 1 gennaio 2014, la possibilità di dedurre l’acquisto di immobili strumentali compiuto attraverso il ricorso al leasing. Ma non è stato abrogato l’articolo 1 comma 335 della legge 296 dl 2006, per cui esistono regimi diversificati. L’acquisto dello studio in leasing consente la deduzione dei canoni in un periodo non inferiore a 12 anni, a prescindere dalla durata effettiva del contratto. Resta, invece, preclusa la possibilità di dedurre gli ammortamenti se l’immobile strumentale è acquistato direttamente.
Nel frattempo aumentano gli oneri a carico dei professionisti. La categoria ha contestato l’imposizione, agli studi professionali, del POS per consentire ai clienti di pagare il corrispettivo usando la carta di credito. Tale possibilità è meramente facoltativa. Ed infatti l’obbligo di uso del POS da parte dei professionisti nulla ha a che vedere con i principi di tracciabilità dei movimenti di denaro, realizzabili più facilmente con il bonifico bancario che costa la metà del pagamento via POS. D’altra parte, l’obbligo di rilasciare la fattura di pagamento è di per sé garanzia di trasparenza nei rapporti economici tra professionista e cliente.   

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