giustizia amministrativa: ecco chi, quando, dove e come ottempera
Lo scorso mese di settembre la CNA, Confederazione Nazionale dell’Artigianato di Roma, ha pubblicato on line un annuncio diretto alle piccole e medie imprese ad essa iscritte, dal contenuto: «Raccontaci la tua storia di burocrazia. Il carico di burocrazia toglie tempo e denaro alle medie, piccole e micro imprese. Serve semplificare: una riforma a costo zero per lo Stato. Per indirizzare l’azione di lobby della CNA nazionale, di Lazio e Roma, ti invitiamo a compilare un breve questionario. Raccoglieremo i dati e presenteremo i risultati alla prima occasione di incontro con le istituzioni e con i rappresentanti delle amministrazioni, locali e nazionali».
Anziché rispondere al questionario proposto, pubblichiamo direttamente, e mettiamo a disposizione della CNA e di chi altro voglia, un caso clamoroso di mala-burocrazia che, nel suo comportamento illecito, viene soccorsa addirittura dalla giustizia amministrativa, alla quale cittadini e imprese dovrebbero invece ricorrere per avere giustizia e per far funzionare effettivamente la burocrazia a servizio di cittadini ed imprese, e non invece a favore di se stessa. Il caso evidenziato mostra, inoltre, che non esistono discontinuità e differenze tra la burocrazia e la giustizia amministrativa, perché i componenti di quest’ultima ottengono continuamente incarichi di dirigenti amministrativi ai massimi livelli, ad esempio negli uffici legislativi dei ministeri, nei gabinetti dei ministri, nelle autorità garanti, nelle commissioni ministeriali ecc., insomma ai sommi vertici della pubblica amministrazione, centrale e locale, ovviamente pagati molto meglio, anzi pluriretribuiti.
La storia che raccontiamo comincia nel 1997 in un comune della provincia di Roma a confine con la capitale, nel quale gli amministratori attendono spasmodicamente di apportare una variante al piano regolatore generale che, approvato nel dicembre 1980 dalla Regione Lazio, sta per esaurire il decennio prescritto prima di poter essere modificato.
Speranze e delusioni per il giubileo 2000
In tale amministrazione comunale, pur non essendosi ancora verificate le necessarie condizioni previste dalla legge, si stanno pertanto già elaborando giganteschi piani di edificazione di nuova cubatura per milioni di metri cubi, quando l’avvicinarsi del Giubileo 2000 induce la giunta regionale del Lazio a varare una legge, la n. 20 del 3 giugno 1997, la quale, apparentemente per favorire l’afflusso e il soggiorno di turisti e pellegrini da tutto il mondo a Roma per un’occasione così altamente spirituale e religiosa, concede la possibilità di ampliare le strutture ricettive esistenti, cioè alberghi, pensioni, locande, agriturismi ecc., anche concedendo ad essi consistenti contributi finanziari.
Intravista così la possibilità di realizzare in tal modo operazioni urbanistiche, finanziarie e speculative enormi, 7 massimi tra amministratori e dirigenti di quel Comune si associano per un’impresa senza precedenti. Ideano una Variante urbanistica per la trasformazione di terreni prevalentemente agricoli in zone di espansione, sulle quali costruire ben un milione 200 mila metri cubi, da localizzare in varie zone del territorio comunale, secondo l’ubicazione degli interessi finanziari e politici prevalenti e più influenti sull’Amministrazione.
Viene creato di fatto un «circolo anonimo» dei loro rappresentanti: un giorno alla settimana, in coincidenza con l’apertura pomeridiana al pubblico dell’ufficio tecnico, costoro si ritrovavano a pranzo in un ristorante frequentato anche dai dirigenti di tale ufficio e del competente assessorato, talvolta con la partecipazione del sindaco. Pranzo immancabilmente offerto, cioè pagato, dai rappresentanti dei maggiori interessi urbanistico-imprenditoriali che, in quelle occasioni, suggeriscono soluzioni, sollecitavano pratiche, ne ottengono l’immediata definizione.
Bucatini, baccalà, lepri e cinghiali
Tra bucatini all’amatriciana, baccalà alla livornese, lepri delle valli, cinghiali dei monti attigui, vini delle cantine locali, si lavora per creare il futuro, nuovo abitato. Un tempo nelle cantine si giocava a morra e nelle grotte alla passatella. Giochi pericolosi che potevano procurare una denuncia, un arresto o una coltellata; prima della guerra, ma anche dopo, quasi ogni domenica pomeriggio dalle cantine di quei paesi, come pure di Roma, usciva sempre qualche accoltellato spesso addirittura qualche accoppato.
Venuto in auge negli anni 90, il gioco della Variante poteva, invece, non solo appassionare ma anche arricchire i giocatori. Bisognava però organizzare bene l’operazione, altrimenti sarebbe successo come per le adozioni dei primi Piani regolatori generali, quando anche chi possedeva solo le classiche «quattro conocchie», ossia pochi metri quadrati di vigna coltivati con sistemi primordiali, pretendeva che diventassero edificabili.
I Sette dell’Ave Maria
Il progetto di Variante generale ideato da quegli amministratori non teneva conto però delle numerosissime costruzioni abusive realizzate né di qualche centinaio di migliaia di metri cubi edificabili previsti dal Piano Regolatore Generale ma non ancora utilizzati. Resisi conto di questi insuperabili ostacoli, che cosa fanno i «Sette dell’Ave Maria» - come chiamo io i principali protagonisti della vita amministrativa di quel Comune, paradossalmente paragonandoli quanto a fantasia ai sette grandi registi cinematografici dell’epoca Pedro Almodóvar, Roberto Rossellini, Alfred Hitchcock, Frank Capra, Kevin Smith, Giuseppe Tornatore, Luc Besson?
Fanno firmare ai proprietari dei più cospicui appezzamenti di terreno agricolo opzioni a vendere, dopo l’adozione della variante, a una società formata dagli stessi Sette, i loro terreni al prezzo doppio di quello vigente all’epoca, ma che, dopo la suddetta adozione sarebbe aumentato di una decina di volte, creando così un ingentissimo supervalore da ripartire appunto tra i Sette.
In tale ricerca puntano la loro attenzione su una collina olivata, panoramicamente e abitativamente più qualificata di tutto il territorio comunale, ove esisteva una situazione particolare che si prestava meglio delle altre ad una gigantesca operazione urbanistica. finanziaria, speculativa. In base alla legge 241 del 7 agosto 1990 che, anche per l’apertura di agriturismi, aveva abolito il sistema delle autorizzazioni del sindaco prescrivendo una semplice comunicazione al Comune di inizio attività, nel 1997 il proprietario di una tenuta agricola con sovrastanti edifici esistente in quella collina olivata aveva avviato questa attività. Per circa due anni l’Amministrazione comunale non aveva verificato neppure se possedesse i requisiti necessari, ma si svegliò nel 1999 quando, proprio in base alla legge regionale 20 del 1997, il proprietario chiese il cambio di destinazione della tenuta, da agricola a servizi recettivi, quindi da agriturismo ad albergo, cambio consentito da tale legge.
I «Sette dell’Ave Maria» elaborarono un piano cripto-mafioso di appropriazione forzata, illegittima e illecita, secondo una tecnica che aveva loro fruttato, in un caso simile, 300 milioni di lire, e c’è chi dice anche un miliardo, in tangenti. «Perché dobbiamo consentire gratis che sulla collina olivata sorga un grande albergo, una struttura per ospitare congressi internazionali nella quale converranno convegnisti e turisti da tutto il mondo? Non possiamo farlo direttamente noi?». Inviarono al proprietario un costruttore locale con questa proposta: «Tu ci rilasci un’opzione notarile ad acquistare entro due o tre anni tutta la tua proprietà; noi adotteremo una Variante destinando il tuo terreno a zona turistica. Quando tutto sarà pronto ti inviteremo dal notaio per la vendita definitiva». Prima offrirono 15 miliardi di lire, poi calarono a 12 e infine a 7 miliardi e mezzo.
166 ville, un hotel e un eliporto
Il costruttore spiegò: «Vi costruiremo 166 ville con piano terra e piano interrato abitabile, più mansarda, garage e giardino. Sul cucuzzolo costruiremo un grande albergo, un grande centro commerciale e un grande parcheggio. Esibì il «rendering» di tutto il complesso e il piano finanziario. Era previsto anche un eliporto per gli spostamenti, tra la zona e Roma, di personaggi politici importanti.
Il proprietario fece presente che il prezzo offertogli costituiva il valore reale della tenuta, al che l’inviato dei «Sette dell’Ave Maria» aggiunse: «Non appena approvata la variante e acquistato il tuo terreno, dovremo chiedere alle banche mutui e finanziamenti per cominciare costruzioni ed opere di urbanizzazione. Se vuoi guadagnare di più non devi incassare i 7 miliardi e mezzo dalla società, ma entrare in questa e lasciarveli per le spese da fare. Avresti il 49 per cento delle azioni, gli altri 7 soci avrebbero il 50 per cento ed io l’uno per cento, con il ruolo di garante per tutti. Poiché il valore del terreno è da noi calcolato in 7 miliardi e mezzo di lire, e per costruire 166 ville, albergo, centro commerciale e opere di urbanizzazione primaria e secondaria, occorreranno altri 48 miliardi circa, ammontando l’investimento complessivo ad oltre 55 miliardi, se entri in società non dovremo pagare alle banche interessi per finanziamenti e mutui».
Quanto ai ricavi, il costruttore spiegò che avrebbero adottato una Variante per costruire 80 metri cubi per metro quadrato di terreno, ma che, d’accordo con personaggi influenti della Regione Lazio, avrebbero portato il rapporto a 110 metri cubi per metro quadrato. A conti fatti a tavolino, dinanzi a una spesa complessiva di 55 miliardi di lire la società avrebbe incassato, dalla vendita degli immobili, almeno 110 miliardi, con un guadagno netto di oltre 50 miliardi di lire. «Se tu farai questo prestito alla società, ad operazione conclusa, avrai diritto, oltre ai 7 miliardi e mezzo per la vendita della tua proprietà, al 49 per cento del guadagno netto, quindi a circa altri 25 miliardi di lire. Complessivamente 32 miliardi e mezzo di lire».
Non si giunse alla variante perché i «Sette dell’Ave Maria» si misero a litigare sulla ripartizione fra loro degli utili. Scettico sulla reale fattibilità dell’operazione, il proprietario rispose che, per principio, mai avrebbe rilasciato una semplice opzione di acquisto alla costituenda società, ma solo un vero e proprio compromesso notarile. Ma gli aspiranti soci non ebbero il coraggio di assumersi le loro responsabilità. Decisero però di ostacolare ad ogni costo l’applicazione della legge regionale del Giubileo e la trasformazione dell’agriturismo in albergo, temendo di non poter più ritentare, in futuro, l’operazione fallita.
E usarono un sistema illegittimo: negarono che esistesse quell’agriturismo in quanto per esso non era stato mai chiesta, e di conseguenza rilasciata, un’apposita autorizzazione del sindaco. Questo avveniva a ben 9 anni di distanza dall’entrata in vigore della legge nazionale 241 del 1990, che aveva sostituito tali autorizzazioni con la semplice comunicazione al Comune di inizio attività. Cominciò un’offensiva che coinvolse tutti gli altri amministratori e dirigenti nel respingere ingiustificatamente e nell’ostacolare l’attività dell’agriturismo, attività che dava diritto all’applicazione della legge regionale n. 20 del 1997 relativa al mutamento di destinazione d’uso del complesso da agricolo a turistico.
Furono addotti vari pretesti, ad esempio che l’edificio non aveva ancora ottenuto una sanatoria edilizia, richiesta da 8 anni, per la chiusura a vetri di una veranda. E questo nonostante l’esistenza nella legge 20 di una norma che imponeva ai Comuni di smaltire prioritariamente, entro il 30 novembre 1999, tutte le domande di condono per gli edifici interessati.
La pagliacciata provinciale
Essendo uno dei «Sette dell’Ave Maria» impiegato nel dipartimento per l’Agriturismo della Provincia di Roma, i Sette fecero chiedere a tale struttura un parere: se occorresse o no l’autorizzazione del sindaco. La dirigente di quel dipartimento, Giovanna Primavera, rispose per iscritto di sì, ignorando, colpevolmente o dolosamente, l’esistenza della legge nazionale 241 del 1990 e successive integrazioni.
L’illegittimo e scandaloso comportamento di quel Dipartimento della Provincia di Roma fu ancora peggiore perché nel dicembre 2000 esso pubblicò una guida per aspiranti agrituristi realizzata a cura dei suoi dipendenti Massimo Miozzi e Agnese Ingegno, ribadendo in essa la necessità dell’autorizzazione del sindaco e ignorando sfacciatamente la legge 241 in vigore ormai da 9 anni. Ed oltre allo spreco di pubblico denaro e alla diffusione di notizie false o incomplete, la sceneggiata della Provincia di Roma andò oltre: con grande pompa la guida fu presentata a Palazzo Valentini, sede della stessa, in un pubblico convegno, esponendo al ridicolo perfino l’ignaro e imbarazzato assessore provinciale del settore on. Cesare Cursi, invitato ad illustrare la farsesca e truffaldina iniziativa.
In scena l’ingiustizia amministrativa
A questo punto comincia l’assurdo ruolo svolto, a favore di tali illegalità, anche dalla Giustizia amministrativa. Il proprietario fece infatti ricorso al Tar del Lazio affidandosi a quello che aveva ritenuto l’avvocato amministrativista numero uno d’Italia, che pretese una parcella anticipata di 15 milioni di lire in contanti. Ma tardando l’avvio del procedimento, il proprietario ne chiese il «prelievo», ossia la fissazione dell’udienza. Ma due mesi prima della data fissata, il presidente della Sezione competente fu promosso al Consiglio di Stato; e il successore morì un mese prima del giorno dell’udienza. Ma fino a tre giorni prima di questa non era stato ancora nominato il nuovo presidente il quale, comunque, in udienza fornì un’ampia dimostrazione di non conoscere affatto la causa.
Alle 9 infatti divise il numero delle cause del giorno in due stock, cominciando l’esame del primo e rinviando di quattro ore l’esame del secondo. Per cui il grande amministrativista, infastidito per il mini-rinvio, se ne tornò nel proprio studio e, all’ora stabilita, non si presentò e non intervenne nel dibattimento; l’esito della causa, affidata ad ignari operatori della giustizia amministrativa, era scontato, il ricorso fu rigettato.
Contro questa decisione il proprietario si rivolse allora al Consiglio di Stato, che brillò per il proprio «attivismo». Erano trascorsi infatti ben 10 anni dalla presentazione del ricorso al Tar e 13 anni dall’inizio della vicenda quando il Consiglio di Stato, nel 2010, dette finalmente ragione al ricorrente. Si erano nel frattempo succeduti in quel Comune varie Amministrazioni di diverso colore politico, vari dirigenti, ma sempre gli stessi, ed anche varie inchieste giudiziarie su irregolarità ed illeciti collezionati.
Un nuovo avvocato del ricorrente chiese al sindaco se intendeva concludere con una transazione bonaria la vicenda; il sindaco si rifiutò e il legale fu costretto a ricorrere nuovamente al Consiglio di Stato per ottenere la cosiddetta «ottemperanza». Questo perché da poco tempo i poteri del Consiglio di Stato erano stati ampliati; il supremo organo della giustizia amministrativa, dopo aver emesso un’ordinanza a favore di un cittadino, o di un dipendente pubblico, o di un’impresa, può, in caso di inadempimento della pubblica amministrazione, imporre a questa di attuare la decisione, e può nominare esso stesso un Commissario ad acta per sostituire l’amministrazione inadempiente.
Ma il sindaco in oggetto si è rifiutato per la seconda volta di eseguire la pronuncia del Consiglio di Stato; accampando una serie di pretesti ed eccezioni che non erano stati da esso rilevati ed eccepiti oltre una dozzina di anni prima, nella causa di primo grado, cioè dinanzi al Tar del Lazio. Addirittura tale sindaco, che ha fatto parte di tutte le amministrazioni interessate alla vicenda, ha ordinato ai dirigenti dei due settori interessati - Agriturismo e Urbanistica - di trovare qualsiasi pretesto da fornire agli avvocati del Comune per presentarlo, in memorie aggiunte, al Consiglio di Stato.
I dirigenti incaricati sono stati così solerti da trovare cavilli pretestuosi e falsi, e addirittura da formulare a carico del ricorrente l’accusa di aver falsificato un certificato di abitabilità rilasciato dal Comune nel 1976, 23 anni prima dell’inizio della vicenda. Agli avvocati del Comune i dirigenti hanno fornito addirittura tre versioni di tale certificato, datate tutte lo stesso giorno del 1976 e presentanti una decina di particolari grafici che ne smentiscono la falsificazione e la contraffazione: i timbri del Comune sono, ad esempio, posti in spazi diversi. Certificati, insomma, prodotti tutti dallo stesso Comune.
Inoltre è stato sostenuto, da parte del Comune, che l’edificio destinato ad agriturismo era stato notevolmente modificato rispetto alle licenze originarie; circostanza totalmente smentita da una perizia tecnica di parte. Ed inoltre: che per svolgere attività di agriturismo il proprietario avrebbe dovuto compiere ingenti lavori consistenti anche in movimenti di terra ed altro; che avrebbe avuto bisogno di pareri sui vincoli esistenti; che questi iter avrebbero richiesto un notevole tempo non consentendo, quindi, all’agriturismo di ottenere l’applicazione della legge regionale 20 del 1997 cosiddetta del Giubileo. In sostanza una serie di illazioni, eventualità, ipotesi non rispondenti al vero in quanto né richieste né occorrenti per l’esercizio dell’agriturismo e per la sua trasformazione da struttura agricola in struttura alberghiera.
Giudici: maestri o complici
L’avvocato del ricorrente era pertanto costretto a presentare un altro ricorso al Consiglio di Stato - cioè il terzo della vicenda - per ottenere l’ottemperanza rispetto a quanto lo stesso Consiglio aveva stabilito in ben due ordinanze. Ma anche in questo caso il sindaco, per la terza volta, rifiutava l’ottemperanza. E contro questo rifiuto, malgrado le falsità addotte dai dirigenti comunali, il ricorrente non poteva fare più nulla.
Ma questo anche perché il Consiglio di Stato, mentre apparentemente imponeva al Comune l’ottemperanza, gli impartiva soprattutto lezioni di comportamento. Gli indicava cioè modi, strade e strategie per sconfiggere definitivamente il suo avversario, rinnovando, a distanza di ben 15 anni, il rifiuto dell’applicazione della legge regionale 20 basato sull’inesistenza di un agriturismo.
Rigetto questa seconda volta basato su una serie di motivi che non erano stati considerati dal Comune 15 anni prima ma che, seguendo la «lezione di diritto» contenuta nelle sentenze emesse dal Consiglio di Stato e non ottemperate, dovranno indurre nuovamente il Tar del Lazio, cui l’interessato ha presentato un nuovo ricorso, a rigettare una seconda volta le ragioni del proprietario ricorrente. E questo potrebbe avvenire, non escludendo poi anche un quarto ricorso al Consiglio di Stato, tra una quindicina di anni.
Una vicenda quindi amministrativa e giurisdizionale che, avviata dalla volontà di sette amministratori e dirigenti di un piccolo Comune nei pressi di Roma di spartirsi 50 miliardi dell’epoca, cioè di 15 anni fa, e da essi alimentata in sede giurisdizionale con falsità e metodi di mala-politica, pare destinata a concludersi, se tutto andrà bene, non prima del successivo Anno Santo 2025. Un iter durato ad oggi 18 anni con un danno gigantesco non solo per il proprietario ma per lo stesso Comune e per la sua popolazione, che l’ingordigia e la disonestà di alcuni amministratori hanno privato di un grande sviluppo in ambito recettivo e congressuale, date anche le caratteristiche naturali della collina olivata, la specifica competenza imprenditoriale della proprietà nei settori dell’editoria, dell’informazione, del giornalismo, della comunicazione, delle relazioni sociali e istituzionali, dell’attività convegnistica e congressistica.
Una vicenda allucinante, portata avanti da giudici amministrativi che non hanno il coraggio di imporre le loro stesse decisioni, di far rispettare le leggi che loro stessi, spesso, in qualità di capi degli Uffici legislativi, propongono al Governo e al Parlamento. Una vicenda che fa sorgere numerosi dubbi e quesiti sui motivi dell’attribuzione a loro di questa ulteriore competenza a svolgere procedimenti di ottemperanza a carico di amministrazioni pubbliche fuorilegge. Visto che queste possono e di fatto non ottemperano agli «ordini» del Consiglio di Stato, perché è stato creato questo ulteriore lavoro a loro carico? Che guadagnano il cittadino, la giustizia amministrativa, i singoli magistrati, da questa presa in giro di cittadini, di pubblici dipendenti e di imprese penalizzate da atti amministrativi illegittimi?
Tutti costoro come possono non pensare che amministratori pubblici convenuti in giudizio e magistrati giudicanti siano solidali nel negare la giustizia ai cittadini, nel coprire illeciti e malamministrazione, nel voler percepire maggiori compensi dalla loro attività? E nel conseguire maggiore riconoscenza presso i padrini politici di disonesti e non ottemperanti amministratori? Tra poche settimane si conosceranno le brillanti relazioni annuali dei supremi organi giudiziari e giurisdizionali. Ma chi gli dà ormai più credito?
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