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imprese in crisi: vanno gestite da nuove figure professionali capaci di affrontare la realtà

LUCIO GHIA

Come ogni anno la World Bank ha organizzato la settimana dedicata alla «Law & Justice and Development» nella propria sede centrale di Washington D.C. Nell’ambito dei lavori si è riunita la task force sull’insolvenza e sulla finanza garantita, della quale chi scrive fa parte da quasi un lustro. I lavori che hanno occupato le giornate del 23 e 24 ottobre scorso sono risultati particolarmente interessanti per il gran numero e la qualità dei delegati presenti, ed hanno riguardato due aspetti centrali per qualsiasi riorganizzazione di imprese in crisi.
Infatti l’attenzione degli addetti ai lavori, così come anche in questa prestigiosa sede internazionale, è concentrata da qualche anno sulla protezione del valore dell’impresa in crisi, ovvero delle sue residue capacità di stare sul mercato, considerando la liquidazione fallimentare come la soluzione estrema quando è stato fatto il possibile per riorganizzare l’impresa, ma la sua crisi si è rivelata irreversibile.
Una parte della discussione ha riguardato l’aspetto della discontinuità nella riorganizzazione, rispetto alla gestione precedente. La governance dell’impresa in crisi dovrebbe giovarsi di figure professionali, di manager «nuovi» rispetto a coloro che avevano gestito l’impresa nel periodo grigio culminato poi nella sua crisi. Discontinuità, quindi, nel senso di poter realizzare un cambio di passo, con l’aiuto di amministratori, di sindaci, di direttori generali, capaci di affrontare la mutata realtà dell’impresa.
L’attenzione a numerosi nuovi riferimenti e problemi, del tutto più complessi e diversi rispetto all’ongoing concern, cioè quando le cose vanno bene, si rivela vincente. Ad esempio è essenziale l’informazione nei confronti dei dipendenti, in modo da ristabilire la necessaria fiducia affinché, conosciuto il piano industriale sul quale si basa la riorganizzazione, le migliori risorse dell’impresa restino al loro posto. In caso contrario i migliori trovano facilmente altre collocazioni; la corretta comunicazione sui programmi e sui risultati del cambiamento nella continuità delle attività, assicura i fornitori e i clienti; il dialogo con gli azionisti deve essere continuo ed aperto sia per rendere possibili i necessari aumenti di capitale, sia per chiarire che la tutela del valore dell’impresa comprende il loro interesse, quello dei creditori, ma anche delle entità pubbliche collegate al territorio e dei cosiddetti stakeholders.
Infatti coinvolgere nella ristrutturazione anche pubbliche autorità, comitati locali, movimenti d’opinione, spesso produce effetti positivi. Lo skill di questi manager chiamati al capezzale dell’impresa malata è quindi complesso. Non solo giuristi d’impresa o economisti, aziendalisti, ma professionisti capaci di razionalizzare i costi di produzione, di potenziare le realizzazioni più redditizie, di tagliare produzioni in perdita o comunque non strategiche per la sopravvivenza dell’impresa ma, nello stesso tempo, capaci di essere «indipendenti» dagli interessi degli azionisti e dei grandi creditori, di rassicurare mercati e banche specie quando l’impresa ha bisogno di nuova finanza per riorganizzarsi e i soci non sono disponibili ad aumenti o a finanziamenti in conto capitale. Come si vede, qualità professionali molteplici, elevate e non comuni che la normativa dovrebbe proteggere proprio per avvicinare alle imprese in crisi, nel loro momento più difficile, i professionisti più adatti ed attrezzati.
In realtà l’assetto normativo attuale in molti Paesi, compresa l’Italia, non è molto protettivo, né si mostra particolarmente consapevole delle gravi difficoltà che gli amministratori, sindaci, direttori generali dovranno affrontare accettando il timone di imprese in crisi. I rischi che assumono gli amministratori in tale ipotesi, allorquando l’impresa affronta mari tempestosi, sono notevoli e le protezioni sono deficitarie. Infatti se il piano di ristrutturazione non riesce e non per loro colpa, ma perché il filo rosso tra il successo e l’insuccesso in questi casi è estremamente sottile, la valutazione a priori della gravità degli ostacoli da superare è comunque assai complessa, e spesso impossibile per fattori non solo micro economici quali il reperimento di nuova finanza, la reazione dei fornitori, il comportamento della concorrenza, ma anche macro. Quanti prodotti, infatti, sono stati vittima delle mode, della pubblicità del salto tecnologico e sono improvvisamente usciti dal mercato?
Ebbene nel caso in cui la ristrutturazione dell’impresa vada male e si giunga alla dichiarazione di fallimento, e quindi alla liquidazione dell’impresa da parte del curatore sotto la supervisione del tribunale territorialmente competente, le ricadute delle scelte fatte ancorché razionali, in buona fede e correttamente e l’operato degli amministratori vengono esaminate sotto la lente del disastro finale. La responsabilità degli amministratori si collega alla dichiarazione di fallimento; c’è una specie di sintesi, meglio di corto circuito, molto spesso irrazionale ed illegittimo, tra conseguenze del fallimento e responsabilità degli amministratori.
È davvero forte il rischio di essere considerati come un bene qualsiasi da aggredire, da liquidare come un asset facente parte dell’attivo del fallimento. Le professionalità migliori sovente non accettano un tale rischio, non si avvicinano all’impresa in crisi. L’analisi compiuta ha riguardato anche i profili assicurativi: non è facile, infatti, trovare adeguate coperture di fronte alle somme che potrebbero essere richieste dai curatori dei fallimenti quale risarcimento dei danni agli amministratori.
In alcuni casi la somma loro richiesta è pari all’intero passivo del fallimento. Per questo, ove si trovasse una compagnia assicurativa disponibile, il «premio» ovvero il costo della polizza sarebbe proibitivo. Si è tentato, perciò, di restringere l’area di pericolo, raccomandando l’introduzione nei vari sistemi giuridici quanto meno di una presunzione di non colpevolezza che assista l’operato degli amministratori che si occupino di imprese in crisi. Ovvero la prova della colpevolezza dovrà essere fornita da colui che accusa, quindi dal curatore, dopo la dichiarazione di fallimento.
Una tale presunzione a favore degli amministratori dovrebbe costituire un primo gradino di tutela che attenui la presunzione opposta che oggi di fatto viene fatta valere in questo genere di giudizi, per il solo fatto che il fallimento è stato dichiarato quando gli amministratori, presunti colpevoli di «mala gestio», erano in carica. Altro tema di particolare interesse esaminato, ha riguardato la tutela della finanza, già «imprigionata», o di quella che invece viene concessa durante la riorganizzazione. Eppure senza nuova finanza è impossibile che si possa realizzare una ristrutturazione seria, tale da far superare la crisi all’impresa sofferente.
La linea di tendenza che è emersa è molto pragmatica e non è dovuta solo agli interessi delle grandi lobby bancarie internazionali. Non solo nei Paesi anglosassoni specifiche previsioni contrattuali consentono a talune categorie di creditori di incassare direttamente, o di vendere sui mercati le garanzie concesse per finanziamenti erogati, allorquando si verifichi il «default» del debitore e ciò anche in caso di suo fallimento.
Solo nel caso di lesione dei diritti del debitore quest’ultimo potrà ricorrere al giudice. In Italia, ad esempio, una tale procedura esecutiva svolta al di fuori del Tribunale non è consentita. In caso di fallimento il tribunale competente, attraverso il curatore, vigilerà sulla vendita degli asset costituenti l’attivo della procedura e sulla corretta distribuzione del ricavato nelle percentuali dovute in base al rango dei creditori: privilegiati e chirografari ovvero senza garanzie, nel rispetto dei principi dell’universalità della procedura che riguarda tutti i beni del fallimento e tutti i creditori; della par conditio dei creditori nell’ambito della categoria o rango.
Ora nel contesto specifico della World Bank è emerso un confronto tra valori: da un lato la sicurezza dei finanziamenti, l’eliminazione o perlomeno la riduzione del rischio per il creditore finanziario si traduce in una maggiore facilità di ottenere credito, se assistito da garanzie, anche per l’impresa in crisi che affronti un serio piano di risanamento; dall’altro l’antico valore dell’uguaglianza dei creditori, indebolito anche in Italia, dal 2006 in poi, dalla libertà di pattuizioni introdotte nella procedura di concordato preventivo e dalla formazione delle classi di creditori. Ma qui il discorso diverrebbe troppo tecnico, quindi mi limito ad osservare la necessità della vecchia «par conditio creditorum», avviata sul viale del tramonto, e che è opportuno poter discutere delle soluzioni più concrete che potranno emergere.
Trovandomi a Washington ho avuto modo anche di partecipare ad un pomeriggio organizzato dall’ambasciatore d’Italia negli Stati Uniti Claudio Bisogniero, nella sede della nostra ambasciata. Nell’atrio coperto che rappresenta una splendida sala per conferenze, concerti, e presentazioni, l’occasione dell’incontro è stata la presenza a Washington del ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi e del presidente della Regione Lombardia Roberto Maroni, per la presentazione dell’Expo Milano 2015. Dopo il saluto e a prescindere dal discorso lombardo-centrico del presidente Maroni, l’uditorio formato dai rappresentanti di imprese americane e da imprenditori italiani e italo-americani ha assistito alla proiezione di un filmato che, sulla base di progetti e di disegni, illustrava la progressione delle realizzazioni in corso nella grande superficie destinata ad ospitare l’Expo Milano 2015.
Dopo i simpatici auguri che i due ambasciatori americani in Italia - l’ambasciatore David Thorne, uscente e l’ambasciatore John Phillips entrante -, hanno rivolto all’iniziativa, i presenti hanno apprezzato un ulteriore filmato sull’avanzamento dei lavori per la realizzazione del padiglione americano. È un buon «incipit», un passo importante di un «road show» che dovrà dare i propri frutti specie in Usa. Infatti l’export alimentare totale italiano ammonta oggi a circa 4 miliardi di dollari, di cui meno della metà è rappresentato dal vino. C’è molto da fare e questa è un’occasione da non perdere.  

Tags: Dicembre 2014 Lucio Ghia fallimento

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