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riforma della pubblica amministrazione: 20 anni di super tangentopoli

Roma. Palazzo Vidoni, sede del Ministero per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione

A cavallo degli anni 90 del secolo passato, in occasione del crollo della cosiddetta prima repubblica italiana provocato dalle inchieste giudiziarie avviate dalla Procura della Repubblica di Milano contro politici e amministratori pubblici di primo piano, protagonisti di reati in danno della finanza pubblica, del patrimonio dello Stato e degli enti locali, di corruzione ed altro, la massa ancora sana della popolazione fu scossa da due sentimenti contrapposti: da una parte il rimpianto per la fine di un sistema che, nell’immediato dopoguerra, era nato sotto i migliori auspici e principi di libertà, democrazia, uguaglianza dei cittadini, diritto al lavoro, solidarietà, affermazione della persona umana, riconoscimento del merito. Dall’altra parte la soddisfazione per vedere finalmente alla sbarra, ossia sul banco degli imputati, dinanzi alle Procure e ai Tribunali penali, personaggi che, nei precedenti decenni, avevano non solo rubato, ma distrutto la sanità morale di larghi strati della società, e comunque approfittato della politica e della pubblica amministrazione per arricchirsi e sperperare le ricchezze nazionali accumulate in tanti anni di sacrifici e di duro lavoro delle masse. Soddisfazione condivisa, ovviamente, da ogni strato sociale, in particolare dal proletariato, ormai in via di estinzione e, soprattutto, dal ceto medio. Ma ovviamente anche dalla fascia dotata di redditi più alti, tradizionalmente lavoratrice, risparmiatrice, oculata, prudente e previdente nelle spese, timorata, rispettosa dei valori sia materiali sia morali di uno Stato di diritto, come apparentemente era quello uscito dalla seconda guerra mondiale.
Dinanzi al ciclone politico e mediatico che travolse, a cavallo degli anni 90 appunto, la prima Repubblica, dinanzi alle inchieste giudiziarie, alla scoperta ufficiale di quel fenomeno ormai generalizzato e pressoché legittimato denominato Tangentopoli, consistente nel versamento di tangenti a politici e pubblici amministratori per il compimento di qualunque loro atto e dovere istituzionale, in Italia si trasse un sospiro di sollievo e si diffuse un’ondata di soddisfazione. Le cronache giornalistiche e televisive ampliarono la risonanza delle inchieste, la notorietà ed anzi la fama dei protagonisti gonfiò a dismisura l’attenzione della gente, le requisitorie dei Pubblici Ministeri distrussero miti politici ultradecennali.
La massa, tutto sommato, che aveva subito e continuava a subire taglieggiamenti, furti, corruzione, estorsioni, dopo un paio di anni allentò l’attenzione, per cui a poco a poco Tangentopoli passò in secondo piano e, ufficialmente per gestire la crisi economica intervenuta, i cervelli della gente furono frastornati da nuovi discorsi di altri politici e di pseudo economisti sulla necessità di privatizzare ricchezze e beni pubblici. E cominciò una delle due più funeste conseguenze dell’apparentemente salutare fenomeno di Mani Pulite.

Le conseguenze di Mani Pulite
Conseguenze consistenti, la prima, nella svendita di tutto il patrimonio economico e finanziario pubblico, accumulato dagli italiani non solo nel corso del secondo dopoguerra, ma almeno sin dagli anni 30, quando proprio in pieno regime fascista Benito Mussolini aveva creato il sistema delle partecipazioni statali, cioè di aziende di proprietà dello Stato, per fronteggiare la crisi economica in arrivo, annunciata da chiusure di aziende private, licenziamenti, disoccupazione, scomparsa di necessarie attività industriali e manifatturiere; fattori negativi cui si aggiungevano sul piano internazionale le sanzioni economiche contro l’Italia per la sua conquista dell’Etiopia, sfociate poi nelle distruzioni a tappeto prodotte dalla guerra del 1940-1945.
La seconda conseguenza fu ben più profonda, distruttiva, illegittima e disonesta della prima. Fu esattamente questa: non paghi di svendere a prezzi inadeguati i beni e le aziende pubbliche, alcuni politici si misero ad escogitare un sistema politico-amministrativo che non li ponesse più al rischio di cadere una seconda volta, in occasione di un futura Tangentopoli, nel rischio di una nuova Mani Pulite, cioè in una nuova stagione di inchieste giudiziarie. Ed esperti come erano, sia della pratica delle tangenti sia nelle pratiche amministrative, nel 1990 avviarono la costruzione di un sistema a prova di fuoco. Presentarono in Parlamento una pseudo-riforma del Testo unico delle leggi comunali e provinciali risalente al 1934, e ritoccato nel frattempo lievemente, nonostante i terribili eventi trascorsi dal Paese: cioè il regime fascista, la sua caduta, la guerra, la liberazione, il ritorno alla democrazia ovvero al sistema dei partiti.
La discussione in Parlamento fu ampia e articolata, ma il principio-cardine del nuovo sistema, poco capito e nient’affatto spiegato al popolo, prevalse su ogni altro e in maniera surrettizia, subdola, ingannevole. Era il cosiddetto principio dell’«indirizzo e controllo». In pratica i politici e i pubblici amministratori di Comuni, Province e Regioni rinunciavano al potere di gestione diretta delle attività fino ad allora svolte, e che li aveva portati in bocca ai Procuratori, per assumere solo i poteri di indirizzo e di controllo. Detto in parole semplici, loro avrebbero dettato agli organi da loro dipendenti gli indirizzi, ossia le decisioni da adottare, e ne avrebbero controllato l’esecuzione da parte di tali organi sottoposti, ossia dai dirigenti centrali o locali della pubblica amministrazione; i dirigenti avrebbero dovuto assumere loro le decisioni attinenti agli indirizzi forniti loro dai politici e sottostare al controllo degli stessi.
In pratica questo apparente ed insidioso modo di governare, a livello centrale e locale, comportava questa conseguenza: i politici, come ministri, presidenti e assessori di Regioni, Province e Comuni, avrebbero «suggerito» ai dirigenti da loro dipendenti quello che dovevano fare, lecito o illecito che fosse, ossia le iniziative da attuare e i relativi atti ovviamente da firmare; ministri, presidenti e assessori di Regioni, Province e Comuni non avrebbero firmato più nulla per cui sicuramente non avrebbero potuto più essere imputati per atti e procedimenti illeciti, soprattutto per gli abusi di potere compiuti dalla Pubblica Amministrazione.
Quindi una vera e profonda riforma che però, oltre a questo enorme e insperato vantaggio per i politici, consistente in un’ampia immunità per il loro operato, comportava anche alcune difficoltà di applicazione. Al momento l’immunità era necessaria, indispensabile, anche in relazione alle richieste, provenienti da tutto il Paese, di eliminare proprio la cosiddetta «immunità parlamentare» prevista dalla Costituzione, di cui i parlamentari italiani avevano usufruito in tutto il dopoguerra e di cui ancora usufruivano malgrado Tangentopoli e Mani Pulite; e che un paio di anni dopo, nel 1993, il Parlamento dové abolire, quasi a furor di popolo. Ma che ormai era pressoché inutile, visto il nuovo sistema escogitato e attuato.
Tutto questo, e molto altro ancora, dimostra che Tangentopoli non era affatto finita, e che i protagonisti o i loro allievi e discepoli erano tutt’altro che intenzionati a governare e ad amministrare nella legalità, correttezza, moralità, diritto. Come poi negli anni hanno dimostrato ed hanno fatto, fino a questi giorni, in un crescendo rossiniano, grazie al diluvio di leggi-tagliola che hanno continuato ad emanare, ininterrottamente negli anni e sfacciatamente a favore dei cittadini, ma in effetti a vantaggio di ladri e disonesti.

Gli ostacoli nel disegno di Mani Pulite
Quanto agli ostacoli incontrati nell’attuazione di questo scientifico disegno truffaldino, il primo, il maggiore, si è rivelato l’esistenza tutto sommato di un organismo burocratico ancora onesto, responsabile, ligio alle leggi e sensibile nella tutela dei diritti dei cittadini. Non deve meravigliare la sopravvivenza negli anni 90, ma neppure nel 2015, di funzionari e dipendenti amanti dello Stato e delle Istituzioni, sia pure oggidì sempre più rari e sempre più spesso considerati degli illusi, dei ritardati mentali, delle truppe di retroguardia.
Occorreva qualche altro provvedimento d’urgenza, anzi più di uno. Innanzitutto, dopo l’approvazione della legge 142 dell’8 giugno del 1990, non erano trascorsi che due mesi quando fu emanata la legge 241 del 7 agosto 1990 contenente lusinghiere «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo, di diritto di accesso ai documenti amministrativi, di partecipazione dei cittadini al procedimento, di semplificazione dell’azione amministrativa». Apparentemente una nuova presa della Bastiglia, dopo quella francese del 14 luglio 1889, a favore dei cittadini, o la prima cannonata della rivoluzione sovietica contro lo zar Nicola II, sparata il 25 ottobre 1917 per ordine di Lenin dall’incrociatore Aurora ancorato a San Pietroburgo chiamata poi Leningrado.
Ma tutto fumo, niente arrosto. Perché ogni disposizione della legge 241 conteneva tutto e il contrario di tutto; riconosceva o concedeva nuovi diritti ai cittadini ma nello steso tempo glieli negava; ordinava ai dirigenti di ciascuna unità organizzativa di adottare le misure idonee a garantire l’applicazione delle disposizioni in materia di autocertificazione e di presentazione di atti e documenti da parte di cittadini; se l’interessato dichiarava che fatti, stati e qualità erano attestati in documenti già in possesso della stessa o di altra pubblica amministrazione, il responsabile del procedimento doveva acquisirli d’ufficio.
Nei casi in cui l’esercizio di un’attività privata era subordinato ad autorizzazione, licenza, abilitazione, nulla osta, permesso o altro atto di consenso il cui rilascio dipendesse esclusivamente dall’accertamento dei presupposti e dei requisiti di legge, senza l’esperimento di prove e valutazioni tecniche, l’atto di consenso si intendeva sostituito da «denuncia di inizio di attività» da parte dell’interessato, tranne per le concessioni edilizie e i nulla osta sui vincoli.
L’amministrazione competente, entro 60 giorni dalla denuncia, doveva verificare d’ufficio l’esistenza dei presupposti e dei requisiti di legge richiesti e in mancanza vietare la prosecuzione dell’attività fino alla regolarizzazione. Per assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa e favorirne lo svolgimento imparziale veniva riconosciuto il diritto di accesso ai documenti amministrativi. Avveniva in effetti tutto ciò? Assolutamente no. Gran parte dei sindaci, ad esempio, rinunciavano a firmare gli atti illegittimi per non essere inquisiti, ma i loro dirigenti non accettavano autocertificazioni e denunce di inizio attività pretendendo autorizzazioni firmate dai sindaci e bloccando aziende, attività, sviluppo economico, occupazione.
E il Tar e il Consiglio di Stato, cui il cittadino ricorreva, spesso davano ragione agli amministratori, ignorando e calpestando anche loro le leggi, favorendo pubblici amministratori inadempienti, recidivi, sospettati di corruzione e responsabili comunque di abuso in atti di ufficio. Un’altra violazione della legge 241 del 1990 era messa in atto dalle strutture amministrative accampando il diritto alla cosiddetta «privacy», introdotto con la legge  n. 675 del 31 dicembre 1996 e seguenti, dal titolo «Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali». Inutile quindi per i cittadini perdere tempo e denari per avere risposte negative o nessuna risposta; inutile anche impegnarsi in contenziosi costosi, lunghissimi e quasi sempre a favore del cosiddetto «Palazzo».

I nuovi escamotage contro Mani Pulite
Ma i dirigenti, cui erano stati accollati tutti i rischi per la malamministrazione pubblica, non erano certamente entusiasti di questo nuovo, pesante gravame; e ovviamente, agendo e rischiando a favore di politici e pubblici amministratori, pretesero di essere anche essi messi al sicuro. Come? Occorreva un ulteriore stratagemma. Che venne subito trovato. C’era l’esempio di alcuni Paesi anglosassoni in cui al vincitore delle elezioni, politiche o amministrative, veniva riconosciuto il diritto di circondarsi, nell’attività, di uno staff di propria fiducia, al posto di quello che aveva servito magari il suo predecessore avversario politico, da lui sconfitto. Era il sistema del cosiddetto «spoyl’s system» ideale proprio per eliminare elementi non del tutto obbedienti alla nuova classe politica o amministrativa vincente nelle elezioni; e per assumere collaboratori fedeli, pronti a qualsiasi sacrificio o meglio a qualsiasi «operazione» e a qualsiasi modo di governare. Dovevano solo ciecamente firmare gli atti loro imposti dai detentori di quel cosiddetto potere di indirizzo e di controllo.
Ma anche questo escamotage incontrava qualche difficoltà, in particolare il preesistente sistema che prevedeva dirigenti assunti per concorso pubblico, con contratti a tempo indeterminato, con uscite dal servizio soltanto per sopraggiunti limiti di età, pensionamento o dimissioni volontarie. Ma anche per questo fu trovato un rimedio, anzi più di uno. Ad esempio l’assunzione di nuovi dirigenti attraverso contratti a tempo determinato e l’istituto della mobilità, oltre allo spostamento in altri settori della Pubblica amministrazione dei dirigenti in carica , ad esempio dal settore economico a quello bibliotecario.
Certamente anche i dirigenti assunti a tempo determinato senza concorso ma con il ricorso allo spoyl’s system avrebbero corso dei rischi per abusi di potere e atti illeciti compiuti su commissione dei loro referenti politici, ma presto si trovò anche per questo un rimedio, anzi un super rimedio. Gli esempi più eloquenti vengono dai dipartimenti dell’Urbanistica e dei Lavori pubblici, ossia degli appalti, comparti cui gli amministratori pubblici disonesti solitamente, ripetutamente e frequentemente ricorrono per finanziarsi personalmente e per finanziare partiti e gruppi politici cui appartengono.
L’escamotage trovato, e seguito, per sottrarre anche questi dirigenti disonesti ai rischi di Mani Pulite o simili, fu ed è il seguente. Queste «truppe mercenarie», appositamente assunte, erano, e sono, rapidissimi nel realizzare le cosiddette «operazioni sporche», firmando i relativi atti e assumendone quindi rischi e responsabilità. Ma secondo il calcolo delle probabilità, non ne rispondono quasi mai perché dopo due o tre anni di servizio ricorrono all’istituto della mobilità, che consente loro di trasferirsi in un’altra amministrazione in cui si sia liberata ad esempio un’analoga dirigenza.
Emigrano quindi in un’altra amministrazione che li accoglie ben volentieri perché alla ricerca proprio di tali loro caratteristiche e capacità e perché comunque trovano sempre un’Amministrazione dello stesso colore politico, o gestita da una maggioranza analoga. È vero che, in caso di gravi casi di illeciti compiuti, possono essere denunciati dalle vittime e dai cittadini in genere, ma questo non avviene quasi mai per almeno tre motivi: quando un dirigente si trasferisce per mobilità, le vittime non sanno neppure dove andrà, per così dire, a «lavorare»; e perché in presenza di una giustizia che impiega nel migliore di casi una decina o quindicina di anni, quando essa arriva al traguardo il mondo è cambiato, i colpevoli magari sono deceduti, le prove sono cancellate o scomparse, i reati prescritti; e poi perché vale soprattutto il terzo motivo, la protezione di cui costoro continuano a godere presso i loro padrini e referenti politici al cui servizio hanno lavorato ovvero compiuto una serie di illeciti; e dei quali conoscono tutto. 
Ma, se ancora esistevano perplessità o dubbi sulle conseguenze cui sarebbero andati incontro pubblici amministratori e politici «disinvolti» ossia disonesti, costoro non hanno faticato a trovare il cosiddetto «uovo di Colombo», consistente del depenalizzare di fatto il reato di abuso di ufficio. Infatti hanno escogitato per esso una nuova formula sibillina e truffaldina: non tanto la depenalizzzazione del reato di abuso di ufficio, che sarebbe una misura estremamente scandalosa e odiata dall’opinione pubblica, ma molto più silenziosamente, misteriosamente e tacitamente la sua trasformazione, equivalente però in tutto e per tutto ad una depenalizzazione, cioè alla liberta di compiere abusi d’ufficio. E questo grazie ad una apparentemente strabiliante ma in effetti odiosa trovata.

La collusione dei politici
Che hanno fatto infatti i politici? Hanno stabilito che per poter ravvisare il reato di abuso di atti di ufficio, la vittima, cioè il cittadino, la famiglia, l’impresa ecc. devono dimostrare che il pubblico amministratore ha compiuto il reato con l’intenzione di danneggiare la vittima. Se il reato quindi non è stato commesso dolosamente, ma colposamente, cioè per ignoranza della legge, imperizia, scarsa formazione, carenza di organico e mille altri pretesti, tale illecito non esiste quindi il responsabile non è punibile. Ma è vano chiedersi come possa dimostrare la malafede, il dolo del pubblico amministratore e del politico la vittima di un atto illegittimo, di un’ingiustizia subita.
Un’ingiustizia è sempre un’ingiustizia, sia compiuta volontariamente sia compiuta casualmente, e la sanzione penale esistente un tempo e dopo Tangentopoli soppressa serviva proprio a punire chi compiva l’abuso, a costringere i pubblici dipendenti ad essere più attenti, accorti e sensibili verso i cittadini, ad evitare favoreggiamenti verso alcuni e penalizzazioni ingiustificate verso altri, con possibilità, soprattutto in caso di grandi aziende, grandi lavori, grandi appalti, di favorire ingiustificatamente soggetti disonesti, e a contenere altri due reati, quelli di concussione e corruzione. Se il pubblico ufficiale o amministratore o politico non rischia nulla perché il danneggiato solitamente non è in grado di dimostrare il dolo mentre il responsabile può accampare mille scusanti, crollano del tutto la legge, la giustizia e subentrano l’anarchia, l’opportunismo, la sopraffazione, l’immunità di fatto ed anzi legalizzata dei soggetti più spregiudicati e corrotti.

La stampa e la casta
Son finiti i guasti provocati al Paese e a tutta la popolazione dalla salutare ed edificante scoperta di Tangentopoli e dall’azione di Mani Pulite? Assolutamente no, manca una sequenza di leggi emanate nella seconda parte, degli anni 90 ed oltre, e continuate nel nuovo secolo, essendo ancora in corso il varo di norme anti-controllo, a favore di furbi, disonesti, ladri, prevaricatori. Ne parlerò nei prossimi numeri.
Sono stati scritti tanti libri sul fenomeno prevalentemente da giornalisti, i quali però sogliono osservare e indagare sui fenomeni dal di fuori, non avendo conosciuto dall’interno del sistema i mille modi di eludere la legge. Massimo Pini, ad esempio, operante nelle Partecipazioni statali, pubblicò nel 2000 «I giorni dell’Iri. Storie e misfatti», Paolo Glisenti scrisse nello stesso anno «La fine dello Stato Padrone»; Giampaolo Pansa, nel 1989, «il Malloppo». C’era scritto sulla bandella: «Sulle prime, Giampaolo Pansa voleva scrivere un libro intitolato ‘La tangente’. Doveva essere il racconto dell’affarismo partitico, il film zeppo di ruberie e disonestà che una fetta della classe politica ci proietta ogni mattina. Poi, via via che procedeva nel lavoro, Pansa s’è accorto che alla malattia del tangentismo se n’era affiancata un’altra, assai più diffusa: la malloppite, la voglia sfrenata del malloppo. Che cosa sia il malloppo è ben spiegato dalle storie, grottesche o tragiche, che qui troverete. È il bottino dei tangentisti. È il risultato dell’arraffa-arraffa politico. Ma è anche la maxicarriera fatta senza meriti. È il superstipendio ottenuto senza fatica. È il denaro messo insieme come viene viene. Sì, il denaro facile è diventato l’ossessione di tanti, l’oscuro oggetto del desiderio di un’Italia priva di pudori. Un’Italia dove i maestri più ascoltati sono quelli che insegnano come conquistare i malloppi più succosi, e dove la ricchezza pare in grado di dare a chi la possiede anche il prestigio, l’intelligenza, l’autorità».
Che dovrebbe scrivere oggi Pansa? Abbiamo i Gian Antonio Stella, i Sergio Rizzo, scoprono e denunciano la malamministrazione. Ma non hanno compiuto mai una ricerca legge per legge, articolo per articolo, dei benefici per la popolazione oppure per i politici e i pubblici amministratori in genere. Bastano i loro scritti per eliminare gli scandali? A mio parere finiscono, invece, per inculcare nell’animo semplice ed onesto della gente l’invidia per l’intraprendenza, la capacità e l’impunità di ladri travestiti da uomini politici e da pubblici amministratori.

(Qui la seconda parte)

Tags: Gennaio 2015 pubblica amministrazione P.A. Victor Ciuffa

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