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la «zona crepuscolare» delle aziende va salvaguardata da amministratori indipendenti

LUCIO GHIA

Nella letteratura giuridica americana esiste un termine estremamente suggestivo che, al di là delle evocazioni romantiche o «vampiresche» che potrebbe suscitare, rende bene l’idea di come possa, oggi sentirsi al timone di una delle tante imprese in crisi  in Italia, un amministratore di fresca nomina, un cosiddetto amministratore indipendente, cioè che non risponda alla logica del vantaggio di quei soci dai quali è stato nominato né del dover tutelare gli interessi di un particolare gruppo di creditori, ma possa agire con un metodo assolutamente asettico rispetto ai problemi dell’impresa al solo fine di realizzare nel modo migliore gli interessi della società e dei suoi azionisti, ed insieme della massa dei creditori e dei cosiddetti stakeholders, ovvero di tutti coloro i quali siano interessati alla continuazione dell’attività imprenditoriale e che traggano beneficio dalla sua efficiente esistenza sul mercato.
Pensiamo per esempio non solo ai dipendenti, ai fornitori, ma anche alle loro famiglie, al Comune, alla Provincia, alla Regione, agli stipendi, ai benefici fiscali che deriveranno dalla continuazione della produzione. Certamente il filo rosso rappresentato dalla crisi è molto sottile. L’amministratore, specie se indipendente e di nuova nomina, dovrà prendere quelle decisioni che, senza aumentare le passività esistenti, riescano a creare il «valore» necessario a pagare stipendi, tasse, oneri previdenziali e finanziari, utenze e servizi. Si tratta spesso di un compito davvero difficile.
Questo contesto negli Usa viene rappresentato dalla locuzione «twilight zone», la zona del crepuscolo, dove tutto diventa più difficile da capire. Il futuro dell’impresa non è per niente scontato e diventa maggiormente impegnativo assumere decisioni sugli investimenti da compiere, sulle iniziative da intraprendere: sui costi da tagliare, priorità da assicurare alle risorse, finanziamenti da rinegoziare. Ed è proprio quando l’impresa si trova in un contesto più scuro che chiaro, difficilmente decifrabile, il momento nel quale la letteratura giuridica americana consiglia di rivolgersi ad amministratori indipendenti, in grado di fare il proprio lavoro, come si usa dire oggi, «senza guardare in faccia nessuno», per valorizzare le reali capacità produttive dell’impresa, capaci di aiutarla a stare sul mercato e che facciano le scelte giuste che solo un’alta qualificazione professionale può consentire.
Orbene, il mondo industrializzato va verso la protezione legislativa degli amministratori che accettino di lavorare su imprese in crisi, soprattutto quando essi sono indipendenti e cioè che rispondano a logiche professionali e tecniche basate su esperienza ed applicazione di «best practices». I sistemi giudiziari più avanzati considerano come un bene da salvaguardare la possibilità di usare risorse professionali migliori da dedicare alla cura delle imprese malate. In Italia sorge il dubbio che non sia proprio così. Troppi continuano ad essere i giudizi, spesso del tutto infondati, promossi nei confronti di amministratori che hanno avuto l’unico torto di aver dovuto prendere atto dell’irreversibilità della crisi dell’impresa e di aver dovuto «portare i libri» sociali in Tribunale.
Secondo la gran parte degli studiosi del settore, specialmente oggi in tempi di forte e perdurante crisi economica, la carta vincente per la protezione degli amministratori e dei direttori generali di società in «twilight zone» risiede proprio nell’apporto professionale di amministratori preparati che possano contare sul rispetto della «professional judgement rules», nella valutazione della loro condotta. Questo convincimento rende l’impegno dell’amministratore orientato dal rispetto delle regole stabilite dalla giurisprudenza (sulla base delle «best practices»), quindi l’amministratore può stabilire a priori quale sia il percorso corretto da seguire per scegliere e decidere sull’attività da svolgere: investimento, taglio dei costi, nuovo prodotto ecc.
La capacità di un sistema giuridico di fornire strumenti di analisi e di controllo preventivi ne determina la superiorità in termini di confronto con altri sistemi che privilegiano la repressione dei comportamenti illeciti, specie se come in Italia le relative sentenze definitive giungono dopo decenni. L’inadeguato quadro di regole comportamentali e procedimentali alle quali sono tenuti gli amministratori di società in crisi, costringe molti a non assumere tali incarichi, specialmente coloro che professionalmente sono più validi e dei quali vi sarebbe più bisogno, e ciò per il timore di restare coinvolti, in giudizi lunghissimi, costosi e dall’esito incerto.
Nel caso di fallimento del piano industriale da loro studiato, o perseguito, oggi gli amministratori che si cimentano in tali prove, devono mettere in conto l’automatica conseguenza di azioni di responsabilità alle quali verrebbero esposti. Attualmente, inoltre, la giurisprudenza non sembra molto attenta alla sostanziale differenza tra l’amministratore che ha posto in essere, con la propria materiale condotta, talvolta pluriennale, quei «buchi» patrimoniali, quelle poste che si rivelano false e quindi ha creato una situazione apparente, diversa dalla realtà societaria, violando i principi di chiarezza, completezza e veridicità, che vanno osservati nella redazione dei bilanci, rispetto a coloro che sono subentrati, talvolta per pochi mesi, nella «twilight zone» per ritrovare i necessari equilibri finanziari e patrimoniali, e per riportare la società in condizioni operative ordinarie.
Costoro, invece, vengono spesso messi sullo stesso piano dei predecessori, nell’assunto del «non potevano non sapere», ovvero sulla mancanza di prova circa «l’aver posto in essere tutto quanto necessario», prova che si rivela pressoché impossibile per l’indeterminatezza del suo contenuto, se si prescinde dall’obiettiva conoscenza e spesso conoscibilità di quei fatti, di quella realtà societaria, dal tempo avuto a disposizione dalla sua nomina per accertarli, per porvi rimedio, denunciarli, ovvero rassegnare motivate dimissioni, o infine «portare i libri in Tribunale».
Sotto questo profilo c’è però una buona notizia: il Tribunale di Milano recentemente ha stabilito che la cosiddetta «twilight zone», in realtà, esiste anche in Italia e ciò sia pure con un’interpretazione della norma basata sul buon senso e sulla regola della buona fede che dovrebbe presiedere a qualsiasi attività. Ebbene, 18 mesi dovrebbero costituire il periodo massimo in cui il «crepuscolo» va dissolto. Cioè gli amministratori di nuova nomina hanno fino a 18 mesi di tempo, e a seconda della complessità della situazione da ripianare, dell’ampiezza degli errori e delle poste false il tempo può variare. Va sottolineata questa manifestazione di sensibilità verso un fenomeno: la crisi dell’impresa che oggi va inquadrata nella diversa cornice che presiede a tutta la disciplina concorsuale dopo la riforma del 2005 e dopo i numerosi innesti effettuati nella legge fallimentare del 1942.
Se infatti, il fallimento o l’insolvenza non sono necessariamente la conclusione di una serie di illiceità e di abusi ma possono costituire il risultato sfortunato di un’impresa, specialmente oggi con le difficoltà endogene ed ancora più esogene che caratterizzano un panorama così variegato e complesso, non si può continuare ad ispirarsi alla logica della criminalizzazione del debitore. Se l’insolvenza può rappresentare anche un capitolo infausto di un percorso imprenditoriale corretto, allora il salvataggio di quanto c’è di buono nell’impresa necessita di procedure coerenti con tale finalità. Ovvero a distanza di anni dalla riforma, si nota una pericolosa discrasia tra la dichiarata salvaguardia dell’impresa ancora capace di creare valore e l’andamento e l’applicazione delle procedure che dovrebbero realizzare questo obiettivo.
Le 50 dichiarazioni di fallimento al giorno e l’incremento del 25 per cento nel 2014 delle procedure fallimentari rispetto al 2013, ne costituiscono significativi indicatori. Ciò provoca una serie di blackout e di incoerenze: si punta ad anticipare l’emersione dell’insolvenza, ma al debitore individuale che agisce correttamente e collabora con la procedura, l’esdebitazione, ovvero la liberazione dai debiti che non sono stati soddisfatti attraverso la liquidazione fallimentare non viene concessa immediatamente dopo la chiusura della formazione dello stato passivo, ovvero dopo 7/8 mesi dalla dichiarazione di fallimento, ma solo alla fine della procedura ovvero dopo 6/7 anni, quando oramai al fallito è di fatto precluso il reinserimento nei circuiti economici ordinari. È solo un esempio del perché altri Paesi europei sono vincenti sotto il profilo della scelta della giurisdizione più efficace.
Trasferire la propria residenza e il proprio centro degli affari all’interno della Comunità europea per ottenere ove è più semplice, meno costoso e più veloce la dichiarazione di fallimento e quindi, l’esdebitazione, non significa compiere un deprecabile «forum shopping», ma realizzare un importante «bene della vita» laddove il proprio diritto al lavoro, reso più consapevole dall’esperienza negativa fatta, al reinserimento nella vita produttiva, alla tutela della propria immagine e della propria reputazione possono essere meglio tutelati e realizzati. Anche la difesa degli interessi e dei diritti degli amministratori incolpevoli, specie se indipendenti nel nostro Paese, va rinforzata, in linea con il bene che la legge fallimentare vigente vuole salvaguardare, ovvero il valore dell’impresa.
Anche se si tratta di un valore residuale, che va incrementato proprio attraverso le cure di esperti amministratori, l’impresa che sia ancora capace di soddisfare il pagamento degli stipendi, delle tasse, delle utenze e dei fornitori costituisce un bene per la collettività e non solo per i suoi dipendenti o per chi vi lavora. Queste direttrici sono state fatte proprie ed affermate con forza da importanti Centri di formazione della cultura legislativa sovranazionale. Parlo sia delle Nazioni Unite/Uncitral, Commissione permanente per lo studio del Diritto del commercio internazionale, sia della Banca mondiale che dal Fondo Monetario Internazionale. I loro documenti - guide dirette ai legislatori o modelli di legge - sottolineano la necessità di introdurre e rispettare chiari punti di riferimento; vere e proprie regole di condotta che ruotano su alcuni caposaldi: a) l’analisi e lo studio della realtà economica, finanziaria e produttiva dell’impresa, e che consigliano gli amministratori di farsi affiancare da esperti; b) l’individuazione delle reali capacità produttive ed operative compatibili con le disponibilità finanziarie e con la situazione debitoria esistente, che non va irragionevolmente ampliata; c) l’informazione continua degli azionisti e degli interessati alla continuità dell’impresa sulle iniziative che nell’ambito di un piano di risanamento verranno adottate secondo un cronoprogramma, del quale andranno monitorati attuazione e risultati.
È certo che la necessità dell’amministratore, specie se «nuovo» e indipendente, di poter contare sull’ausilio delle società di revisione è basilare. Le loro relazioni certificate costituiscono la «luce» che può rendere meno incerto il «crepuscolo» dell’impresa e la loro funzione deve essere improntata a trasparenza, obiettività e verità. Guai a ritenere di comodo, o asservito ad interessi di quel gruppo di soci o di creditori il loro lavoro. In tal caso il neo-amministratore sarebbe «ferito alle spalle da pugnali amici», ed inevitabilmente condannato all’insuccesso ed a gravi conseguenze patrimoniali.
Tutto ciò è talmente condiviso e condizionante che i vari osservatori internazionali dell’efficienza dei sistemi giuridici dei diversi Paesi vedono, nell’aderenza a tali direttrici, veri e propri bench mark per misurare la rispettiva competitività ed il diverso livello di sicurezza degli investenti. Oggi non c’è solo concorrenza tra gli artigiani, tra i professionisti, tra le imprese, ma anche tra i sistemi giuridici che devono fare i conti con i numerosi misuratori di efficienza dei Paese, cito per tutti il «Doing Business», emanazione della Banca mondiale. Ebbene, se non si tengono presenti questi «bench mark» si finisce, come purtroppo l’Italia, nella parte più bassa della classifica, tra i Paesi meno affidabili e meno capaci di attirare investimenti. Morale: difendiamo quello che c’è di buono delle nostre imprese, anche coloro che operano nella cosiddetta twilight zone e soprattutto gli amministratori indipendenti, capacità e valori che dobbiamo preservare per continuare a stare sul mercato.   

Tags: Febbraio 2015 imprese Lucio Ghia fallimento Uncitral

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