Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

banche popolari: riformare, non cancellare

GIORGIO BENVENUTO, Presidente della fondazione Bruno Buozzi

di Giorgio Benvenuto

Il 20 gennaio il Governo Renzi, in una apposita riunione del Consiglio dei Ministri, ha dato il via con un decreto legge alla riforma delle banche popolari. Si è, in sostanza, deciso che le banche popolari con attivi superiori ad otto miliardi di euro dovranno diventare società per azioni. Allo stato si tratta del Banco Popolare, di Ubi Banca, della Bper, della Bpm, della Popolare di Vicenza, della Veneto, della Banca Popolare di Sondrio, del Credito Valtellinese, della Popolare Etruria, della Popolare di Bari. Viene abolito il voto capitario, il cardine del sistema delle banche popolari (ogni azionista ha un voto in assemblea, indipendentemente dal numero delle azioni possedute).
Il decreto legge prevede il termine massimo di diciotto mesi, entro il quale le banche popolari interessate dovranno adeguare i propri statuti per procedere alla trasformazione in spa. Il decreto legge, contrariamente alle prime notizie, non toccherà né le popolari di dimensioni minori né le banche di credito cooperativo. Le anticipazioni sulla riforma delle popolari, il decreto, i commenti del Presidente del Consiglio e della Banca d’Italia hanno fatto crescere in un mese (14 gennaio - 18 febbraio) la capitalizzazione in Borsa delle popolari a 5,8 miliardi di euro; si tratta del doppio del valore di mercato del Monte dei Paschi (capitalizza 2,7 miliardi) ed è quasi quanto quello dell’Ubi, il terzo istituto di credito del paese, che vale in Borsa 6,2 miliardi di euro.
In particolare ecco gli incrementi realizzati nello stesso periodo da alcune popolari nella capitalizzazione di Borsa (in miliardi di euro): la Bpm è aumentata da 2,6 a 3,7 (più 43,1 per cento); la Bper è lievitata da 2,4 a 3,5 (più 43,4 per cento); la Banca Popolare da 3,4 a 4,9 (più 44,1 per cento); l’Ubi Banca è passata da 5,00 a 6,2 (più 24,3 per cento); la Banca Popolare di Sondrio è salita da 1,4 a 1,8 (più 34,3 per cento); il Credito Valtellinese è andato dallo 0,8 all’1,3 (più 59,3 per cento); la Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio è cresciuta dallo 0,078 a 0,124 (più 59,9 per cento).
La procedura seguita dal Governo è stata confusa, pasticciata, poco trasparente, irriguardosa nei confronti delle istituzioni e dell’opinione pubblica. Innanzitutto il decreto legge è stato varato in una fase di transizione della titolarità delle istituzioni. Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si era dimesso, il nuovo presidente Sergio Mattarella non era stato ancora eletto. La transizione era garantita dal presidente del Senato Pietro Grasso che svolgeva le funzioni di supplenza. Il decreto ha poi dei profili di dubbia costituzionalità: prevede effetti da qui a diciotto mesi. Qualunque studente di giurisprudenza sa che i decreti legge devono invece avere in termini perentori dei requisiti di particolare urgenza e necessità. Non è il caso del decreto sulle banche popolari.
Manca il regolamento attuativo della Banca d’Italia; non appaiono cogenti, esplicite e chiare le indicazioni della Banca Centrale Europea; non si tiene conto del processo di autoriforma già messo in atto dall’Associazione delle Banche Popolari; si ignora il dibattito in corso nelle sedi parlamentari. Il presidente del Senato Pietro Grasso si è limitato nel corso della sua supplenza a controfirmare il decreto, sostenendo di non avere i poteri per bloccarlo. Alcuni Fondi di investimento, per lo più residenti all’estero, disponendo di informazioni riservate, nei giorni precedenti all’approvazione del decreto legge hanno rastrellato azioni ottenendo così in pochi giorni grandi vantaggi economici. In pochissimi giorni c’è chi ha realizzato dieci milioni di plusvalenza.
È stato uno scandalo. È intervenuta la Consob che ha aperto un’indagine. Anche la magistratura si è mostrata interessata a verificare se siano state compiute illegalità. Difficilmente, temo, si farà chiarezza; rimane il sospetto, manca la certezza. L’Italia è il Paese nel quale, purtroppo, le indagini non arrivano mai ad una conclusione. Spesso, troppo spesso, sono degli specchietti per le allodole. Abbiamo molte authority che però sono incapaci di prevenire, sono quasi sempre prese alla sprovvista, effettuano estenuanti indagini ed è così che dilaga la corruzione, manca la concorrenza, è diffuso l’insider trading. È sempre attuale il cinico principio di Giovanni Giolitti: «Le leggi si applicano ai nemici, si interpretano per gli amici». Tra le tante rottamazioni preannunciate sarebbe necessario, prioritario, ridurre le authority. Sono troppe. Vanno unificate, ridimensionate. È utile guardare alla legislazione inglese, francese, tedesca. Ad esempio, sarebbe importante unificare Consob e Banca d’Italia: avremmo finalmente un’authority autorevole in un settore, quello del credito e della finanza, ove imperversano impuniti speculatori di ogni specie e di ogni risma.
Non bisogna essere dei profeti per capire che, come al solito, le preannunciate indagini non produrranno nessun effetto, se non quello di riempire gli archivi di raccolte di documenti generici, vaghi, inutilizzabili. Parafrasando Mark Twain si può dire che le Authority prestano l’ombrello quando c’è il sole per poi richiederlo indietro quando comincia a piovere. La cronaca di queste settimane conferma la distanza siderale tra l’Associazione tra le Banche Popolari e le autorità di Governo. Solo di recente il Comitato per l’Autoriforma delle Popolari, formato da Angelo Tantazzi, Piergaetano Marchetti e Alberto Quadrio Curzio, si era incontrato col ministro per l’Economia Pier Carlo Padoan per una ricognizione sui lavori. Il messaggio ricevuto era stato chiaro: sta bene così, andate avanti. Improvvisamente in una riunione della direzione del Pd il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha annunciato uno storico «provvedimento sul credito». Ha detto in particolare: «Non abbiamo avuto paura di intervenire sul numero dei parlamentari, non avremo paura di farlo sul numero dei banchieri. Ci sono tantissime banche e pochissimo credito, soprattutto per le piccole e medie imprese».
Con un’accelerazione che ha stupito per primo il mondo bancario, in una settimana Matteo Renzi ha stralciato dal disegno di legge sulla concorrenza la parte riguardante le banche popolari e l’ha inserita nel decreto per gli investimenti (Investment compact). Il premier nella conferenza stampa ha commentato: «Siamo in un momento storico. Dopo vent’anni di dibattito, la riforma è fatta». «Obiettivo del Governo è quello di rafforzare il settore bancario e adeguarlo allo scenario europeo, senza però cancellarne la vocazione territoriale». «Non si tratta di danneggiare la storia di piccoli istituti ma di far sì che le banche sul territorio siano all’altezza delle sfide europee e mondiali».
In occasione poi della sua partecipazione al World Economic Forum di Davos, il nostro premier intervistato da Class Cnbc ha ulteriormente precisato le sue intenzioni: «Abbiamo deciso di cancellare alcune leggi che riguardavano le banche popolari. Questo sistema era molto chiuso ai mercati internazionali. Ma adesso le prime dieci banche popolari sono costrette a diventare spa, quindi ad aprirsi ai mercati internazionali. Si tratta di un cambiamento radicale. La riforma delle popolari si basa sull’idea che finalmente se investi in Italia non ci si deve più preoccupare dei giudici o del fisco, ora si può investire. In Italia molte società hanno cambiato proprietà; per la prima volta Alitalia non è nelle mani dei soliti politici e dei partiti ma è nelle mani di Etihad, un importante marchio internazionale di Abu Dhabi. Per la prima volta ci sono molti investimenti, non solo americani ma anche da molte altre parti del mondo. E questo è importante. Penso alla Cina, all’America Centrale. Credo nel futuro dell’Italia come un Paese aperto, un Paese che non funziona con il vecchio stile della società dei vecchi amici che a Milano o a Roma si ritrovano davanti a un piatto di spaghetti per decidere il futuro. Quell’epoca è finita».
Non a caso il Financial Times ha spiegato i motivi per i quali la riforma piace tanto alla «alta finanza». Il quotidiano della City ha sottolineato come in un mercato «sovrabbondante di insegne bancarie» come quello italiano il «consolidamento è un obbligo» e ha criticato le banche popolari per essere «solo scarsamente redditizie» e perché «lavorano con regole di governance arcane». Dal punto di vista dei finanzieri londinesi, dunque, quegli istituti di media dimensione, profondamente radicati nel territorio, hanno bisogno di un cambiamento, e quindi nessuna sorpresa se «le loro azioni hanno fatto il botto questa settimana». La preoccupazione del Financial Times è che il quantitative easing lanciato dalla Bce possa migliorare i profitti delle banche popolari, e allora «la pressione per un consolidamento diminuirebbe», anche perché ci sono «interessi locali» che possono bloccare «operazioni di fusione e acquisizione».
Il blitz di Renzi favorisce gli investitori stranieri. La mossa del Governo punta a stimolare le concentrazioni tra istituti italiani, ma ai valori di borsa attuali eventuali offerte dall’estero potrebbero essere più allettanti per i soci delle ex cooperative. È una misura che non porterà maggiore efficienza nel sistema bancario italiano e più credito all’economia reale. Verrà invece favorita l’acquisizione delle grandi banche popolari quotate da parte dei colossi del credito esteri. Se non si riuscirà a portare dei correttivi al decreto legge, tra 18 mesi, quando l’obbligo di trasformazione in spa delle banche cooperative con asset superiori a 8 miliardi di euro diventerà perentorio, o ci sarà l’atteso consolidamento tra player nazionali o le grandi banche straniere potranno impadronirsi di una consistente fetta del risparmio degli italiani. Un rischio paventato da molti esponenti politici e dalle principali sigle sindacali. Il processo potrebbe così sfociare in una colonizzazione del settore creditizio nazionale da parte dei gruppi esteri. A fronte dei valori espressi ora dal mercato gli azionisti potrebbero non essere disposti a partecipare alle operazioni di consolidamento, con ciò facilitando le banche straniere che possono permettersi offerte più allettanti.
In particolare, cinque delle dieci popolari coinvolte dalla riforma varata da Renzi e Padoan (Ubi Banca, Banco Popolare, Bpm, BPper e Popolare di Sondrio) sono soggette alla vigilanza della Banca Centrale Europea. La Banca d’Italia istruendo la pratica da sottoporre a Francoforte può ora, in base alla nuova normativa sulla vigilanza unica, esprimere solo un parere motivato sulla opportunità o meno di concedere il via libera ad operazioni di fusione o di acquisizione. La decisione spetta comunque alla Bce.
Particolarmente preoccupato è il parere dell’economista Giulio Sapelli: «Si tratta di speculazioni che si vogliono fare svendendo l’Italia: ci sono oligopoli finanziari che vogliono impossessarsi con pochi soldi delle nostre banche popolari. Con la complicità di qualche manager che non crede più nella missione cooperativa. I mandanti di questa sorta di rapina stanno oltre confine, dalle parti della Banca Centrale Europea. E per quanto riguarda il nostro Paese gli ordini di scuderia vengono, a mio avviso, direttamente da Carlo de Benedetti. Fatto sta che in Italia non riusciamo mai ad avere una politica indipendente dall’economia».
Donato Masciandaro, direttore del Dipartimento Economia alla Bocconi di Milano e ordinario di Economia della regolamentazione finanziaria, sostiene che la «misura del Governo nei confronti delle grandi popolari non ha alcuna ragione economica generale, ma può trovare una giustificazione soltanto in esigenze politiche di breve periodo». Ancora Masciandaro in una intervista a La Repubblica precisa: «Il decreto è un classico esempio di economia dirigistica. Si sceglie a caso un numero (otto miliardi di attivo), si traccia una linea e si dice che occorre trasformarsi in una spa. Una scelta del genere appartiene più ad una economia pianificata che ad una economia di mercato».
Secondo uno studio della Cgia di Mestre, «in anni in cui la stragrande maggioranza delle banche ha chiuso i rubinetti del credito alle famiglie e alle imprese, le uniche ad aver incrementato gli impieghi sono state le banche popolari. Hanno aumentato tra il 2011 e il 2013 i prestiti alla clientela del 15,4 per cento diversamente da quelle sotto forma di spa. Nel periodo dal 2008 al 2014 i nuovi finanziamenti erogati dalle popolari alle pmi sono ammontati a 250 miliardi di euro. Gli impieghi totali sono ammontati a duecento milioni di euro».
La forzata trasformazione delle popolari in spa avrà in definitiva le seguenti ricadute sui principali stakeholder: a) sui dipendenti e sui livelli occupazionali (le 10 banche hanno da sole un totale di circa 75 mila dipendenti); b) sui soci, che sono oltre un milione per le banche popolari con oltre otto miliardi di attivo e che subiranno una valutazione della propria partecipazione largamente inferiore a quella che si sarebbe potuta avere con opa condizionate; c) sui clienti per la possibile contrazione dei crediti e per la chiusura di agenzie a causa delle inevitabili sovrapposizioni; e sulla imprenditoria locale, in particolare le pmi e lo small business che da sempre hanno trovato comprensione e credito nei momenti difficili; d) sul welfare aziendale e sul territorio, da sempre assistito dalle banche popolari attraverso fondazioni, fondi per la beneficenza e quote di utili destinate espressamente ad interventi a favore della società civile.
Insomma, le popolari diventate spa diverranno appetibili da gruppi attenti più agli indici trimestrali e ai profitti immediati, piuttosto che alle esigenze del territorio. La Banca d’Italia da anni ha messo nel mirino le banche popolari. Alcuni suggerimenti sono stati recepiti negli ultimi anni in Parlamento. Ora parla di provvedimento ragionevole. Parla di buonsenso. Ignora che non è la forma giuridica che fa la buona «governance» ma è la qualità ed il senso di responsabilità degli amministratori, dei dirigenti e di chi li sorveglia. La Banca d’Italia purtroppo arriva sempre tardi: Monte dei Paschi, Credem, Ambrosiano sono esempi di banche che sono state saccheggiate senza che ci siano stati efficaci interventi preventivi.
Certo il settore delle banche popolari ha bisogno di una riforma, dopo i tanti interventi episodici degli ultimi anni. È dagli anni 70 che l’idea della trasformazione delle popolari in spa è continuamente prospettata e costantemente contrastata per salvaguardare la cooperazione e la mutualità anche nell’ambito del credito. Il fenomeno della cooperazione «del» e «nel» credito non è esclusivo dell’Italia. Trova significativi esempi in altri paesi, come Germania e Francia. Non si può ignorare che, con l’eccezione di alcuni istituti, le banche popolari hanno nel complesso affrontato bene la crisi e hanno mantenuto la tradizionale vocazione all’economia del territorio e al sostegno delle piccole e medie industrie, dell’artigianato e del commercio.
Per fare una vera riforma occorre analizzare tutti gli aspetti, senza ricorrere alle invettive e alle demonizzazioni. L’approccio corretto consiste nel riconoscere i meriti del settore per realizzare le modifiche rese necessarie dal mutamento delle condizioni sociali ed economiche. La riforma si deve fare, senza slogan: non può essere a pezzi o a rate; deve esserci un’organicità strutturale. Perché si è ricorsi ad un decreto? Perché si è rinunciato a percorrere la strada di un disegno di legge organico? Sono interrogativi senza risposta. Ora è necessario modificare il decreto legge per dare un esito diverso a una storia di mezzo secolo. Va cercato lo spazio per mediare e proporre una revisione solida e motivata. Va modificato il metodo di governo. Non si può governare solo con decreti legge che vengono approvati col voto di fiducia. Un ricatto. A forza di tirare la corda si spezza.
I corpi intermedi, le forze sociali, debbono essere sentiti, il Parlamento va rispettato. Non si può non condividere l’allarme lanciato dalla presidente della Camera Laura Boldrini sulle prerogative della Camera e del Senato. Non si capiscono le critiche che le sono state rivolte da molti esponenti del Governo ed in particolare dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri Graziano Delrio. Il presidente del Consiglio è circondato da troppi yes man e da molte yes women mentre è bene che, senza irritarsi, ascolti anche chi non è convinto, anzi è preoccupato, della furia con la quale viene portata avanti la politica di rottamazione con una esasperazione che ricorda la violenza degli iconoclasti nell’impero di Bisanzio. Il Parlamento non può essere messo dinanzi ad un diktat: va trovata una linea pragmatica mediando tra le diverse opinioni. Il relatore al provvedimento alla Camera dei deputati Marco Causi è disponibile a presentare emendamenti per fissare limiti al diritto di voto, da inserire negli statuti, tra il 3 e il 5 per cento del capitale. Non è sufficiente. Occorre avere maggiore flessibilità.
È importante per il sistema Paese non disperdere le specialità di disciplina che contraddistinguono le banche popolari. Vanno individuate le modalità ritenute più consone a tutelare quella specialità. È necessario, cioè, trovare una soluzione che riconosca al voto capitario un ruolo non esclusivo, e al voto proporzionale un ruolo non marginale in un quadro di compatibilità costituzionale. Un utile contributo per arrivare ad uno sbocco positivo è contenuto nella bozza elaborata dalla Commissione insediata dall’Associazione tra le Banche Popolari, che comprende oltre all’ex presidente di Borsa italiana Angelo Tantazzi, l’economista Alberto Quadrio Curzio e il notaio Piergaetano Marchetti. Secondo MF-Milano Finanza, il documento non prevederebbe una sola strategia, ma un ventaglio di ipotesi. Gli scenari contemplati si distinguono in due macrocategorie: modelli cooperativi ibridi e società per azioni con opportuni elementi correttivi. I primi consentono di eleggere il consiglio di amministrazione (o il consiglio di sorveglianza nel caso di sistema di governance duale) tramite due canali differenti: gli investitori istituzionali esprimono un numero di consiglieri proporzionali al numero di azioni detenute, mentre il resto del corpo sociale continua a servirsi del voto capitario. Una soluzione di questo genere permetterebbe di accrescere il peso degli investitori istituzionali, pur senza penalizzare i meccanismi di governance tradizionale.
Nel caso, invece, si decidesse di percorrere l’opzione della società per azioni, si potrebbero introdurre correttivi che favoriscano la rappresentanza dei soci piccoli e di quelli stabili. Tra le soluzioni sul tavolo ci sarebbe l’emissione di titoli con diritto di voto plurimo e altri meccanismi di ponderazione dei pacchetti azionari. Sullo sfondo resta poi l’ipotesi di introdurre limiti precisi al possesso, che potrebbero attestarsi al 5 per cento rispetto all’attuale 1 per cento. Affiancati dal drastico aumento delle deleghe di voto previsto dal decreto legge Renzi-Padoan (che le porta tra 10 e 20), i nuovi limiti rappresenterebbero una significativa concessione agli azionisti di capitale, finora penalizzati dalle maglie troppo strette del sistema di voto capitario. L’auspicio dell’Assopopolari è quello di raggiungere un compromesso attraverso il dibattito parlamentare: «Nella consapevolezza che modernizzare vuol dire riformare e non cancellare, l’Associazione si conferma disponibile a un confronto con il Governo, nella speranza di contribuire all’individuazione di una soluzione condivisa, nell’interesse del sistema e del Paese».
Insomma il decreto così come è stato presentato non convince. Le assicurazioni che vengono date sulle possibili conseguenze assomigliano a quelle date a suo tempo a Enrico Letta (Enrico, stai sereno). Il timore diffuso è che nel capitale delle banche popolari possano avere ingresso soggetti caratterizzati da connotati fortemente speculativi, volti a trarre vantaggio dalle circostanze. Il presidente del Comitato di sorveglianza della Bpm Piero Giarda ha sottolineato che «le grandi banche internazionali non sono interessate ai nostri impieghi, ai nostri prestiti; sono interessate alla nostra raccolta, sulla quale si hanno rendimenti a due cifre».
È un timore fondato. I discorsi di apertura al mercato e della contendibilità sono velleitari. Abbiamo l’esempio delle privatizzazioni e della rottamazione delle aziende a partecipazione statale. Un disastro. L’Italia ha perso la grande industria. Lo stesso può avvenire per le banche popolari. La finanza ha interesse a mettere le mani sui risparmi nelle zone più ricche del paese, sottraendole all’utilizzo del territorio. Sbagliare è umano, perseverare è diabolico.    

Tags: Marzo 2015 banca banche imprese Giorgio Benvenuto Graziano Delrio banche popolari

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa