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pubblica amministrazione: una catena di riforme anti-cittadini

Roma. Palazzo Vidoni, sede del Ministero già della Riforma burocratica, ora della Pubblica Amministrazione

Sussiegosamente ed autorevolmente definita «Legge fondamentale della Repubblica italiana», la Costituzione fu approvata, nella turbolenza politica e amministrativa che seguì alla sconfitta subita dall’Italia nella seconda guerra mondiale, esattamente nel gennaio del 1948, dopo due anni di dibattiti in quella nobile assise che fu chiamata Assemblea Costituente. La Magna Charta, come essa fu anche reverentemente chiamata, prevedeva una serie di disposizioni destinate ad essere attuate immediatamente, dopo le elezioni politiche del 1948, o a rimanere «in sonno», ossia ad essere via via attuate o rinviate. Due di esse ebbero un rilievo e una vicenda particolare, in quanto la loro attuazione era destinata, volontariamente o involontariamente, ad essere rinviata a una data sconosciuta.
Una delle due ancora oggi, a 66 anni di distanza, non è stata ancora attuata: si tratta della regolamentazione dei sindacati dei lavoratori, che tuttora ne sono privi, con l’assurdo risultato che queste organizzazioni hanno influito notevolmente sulle vicende politiche, amministrative, economiche, sociali e culturali del Paese senza però essere regolate da uno strumento legislativo, cioè da una legge che ne preveda e ne fissi il funzionamento, a cominciare da quello loro interno. Tuttora i sindacati vivono in un limbo: anzi nessuno, tranne pochi fortunati beneficiari addetti ai lavori, conosce come si finanziano, quanto costano e spendono, quali sono i mezzi finanziari che ricevono oltre alle quote versate dagli iscritti. A tutt’oggi la situazione non è cambiata, i sindacati sono previsti dalla Costituzione che non ne stabilisce però le regole. Ed anzi in questi ultimi due decenni la Costituzione è stata stravolta, vi sono state apportate e sono in elaborazione tante altre e profonde modifiche che hanno cambiato l’essenza, la forma e la sostanza di questo Paese, ma i sindacati continuano a funzionare nel più completo buio, nell’ignoranza degli stessi lavoratori che queste organizzazioni si vantano di tutelare. Si è di fatto consolidata una vicenda assurda, «fantozziana», cui né i lavoratori né il popolo in generale possono porre rimedio, e che i politici tendono a protrarre e a gestire sfruttandone la teatrale evoluzione nel proprio interesse.
L’altro assurdo buco nero della Costituzione, ancora più grave, è rappresentato da quanto è avvenuto e sta tuttora avvenendo in merito alla nascita, all’esistenza, alla deriva delle Regioni e in generale della Pubblica Amministrazione, e alle leggi che invece sono state emanate via via in proposito. La partenza era ragionevole, dopo l’accanita lotta fratricida non solo tra italiani da una parte e anglo-franco-americani dall’altra, i grandi Costituenti si trovarono dinanzi il ricordo dei due sanguinosissimi scontri tra italiani da un lato e tedeschi e austriaci nel 1915 e nel 1943 dall’altro. In Via Rasella a Roma il 23 marzo 1944, dopo lo sbarco degli Alleati ad Anzio avvenuto il 22 gennaio dello stesso anno, un gruppetto di cosiddetti gappisti, ossia appartenenti al Gruppo di Azione Patriottica, compì un attentato in cui rimasero uccisi 33 militari tedeschi quando mancavano appena 43 giorni all’arrivo delle truppe americane a Roma.
Un attentato complessivamente costato circa 370 vite umane:  33 tedeschi o meglio altoatesini, 335 italiani uccisi dai tedeschi per rappresaglia in base ad un’ordinanza precedentemente emanata dal comandante delle truppe occupanti tedesche generale Albert Kesselring, 8 o 9 abitanti di Via Rasella e dintorni. Tra questi Giovanni Gigliozzi, zio dell’omonimo giornalista che nel dopoguerra si distinse alla Radio italiana per la rubrica domenicale «Roma Campidoglio», uno dei due ragazzi gemelli Zuccheretti, una donna affacciatasi alla finestra del terzo piano di Via del Boccaccio 3, ed altri abitanti.
Le vittime tedesche dell’attentato neppure erano tedesche ma altoatesine, cioè avevano avuto in precedenza la nazionalità italiana e avevano prestato il servizio militare nell’Esercito italiano in Sardegna; ma dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e lo scioglimento dello stesso Esercito, erano tornati in Alto Adige e, grazie ad una legge emanata da Benito Mussolini nella Repubblica Sociale di Salò per ingraziarsi l’alleato Adolf Hitler, avevano optato per la cittadinanza tedesca. Diventati ufficialmente tedeschi erano stati subito di nuovo richiamati alle armi dalla Wermacht, ossia dall’esercito tedesco. Inviati a Roma, erano incaricati non di compiere azioni di guerra ma di mantenere l’ordine e la disciplina tra le truppe tedesche, in special modo di reprimere le violenze naziste delle SS. Ma marciando e cantando per andare a montare la guardia al Palazzo del Viminale allora sede della presidenza del Consiglio dei ministri e del Ministero dell’Interrno, spensieratamente incontrarono la morte.
Nel 1986 durante un’inchiesta da me fatta tra i superstiti abitanti di Via Rasella, la portinaia del Palazzo Tittoni dinanzi al quale il gappista Rosario Bentivegna aveva fatto esplodere un carrettino dell’immondizia carico di tritolo della strage, mi raccontò che sua madre, nelle ore successive all’attentato e la mattina del 24 marzo 1944, giorno in cui si compiva la terribile rappresaglia dei tedeschi alle Fosse Ardeatine, aveva raccolto e riempito un grande canestro di vimini di dita, di mani, piedi e altre parti dei 33 tedeschi uccisi.
 Come non prevedere che sarebbe seguita una scia di sangue dopo la fine delle ostilità? È proprio quanto previdero e cercarono di evitare i saggi e responsabili Costituenti, di ogni colore politico, tanto più che erano diffusi all’epoca ben altri valori umani e morali rispetto a quelli basati solo su affarismo, egoismo, opportunismo sorti nei decenni successivi. Va aggiunto che tale scia esisteva non solo in Alto Adige, dove per decenni dopo la fine delle ostilità continuò il rancore anti-italiano che si esprimeva con uno stillicidio di attentati ai tralicci dell’alta tensione e alle caserme dei carabinieri di quella zona.
Ma anche in Sicilia, dove il Movimento separatista aveva guadagnato molti proseliti in seguito alla propaganda degli italiani emigrati prima della guerra negli Stati Uniti, al successo delle violente imprese di Salvatore Giuliano, alla clamorosissima strage di Portella della Ginestra del primo maggio 1947. L’impegno degli organi dello Stato italiano nel troncare il fenomeno separatista fu eccezionale, tanto che fu il Governo a rivendicare una brutale e «spettacolare» uccisione del «bandito Giuliano» in un presunto agguato tesogli dai Carabinieri quando invece l’incarico di eliminarlo subdolamente e a tradimento nel sonno era stato conferito al cugino Gaspare Pisciotta. Che poi a sua volta fu avvelenato da un caffè «tricolore,» fattogli cioè propinare da organi governativi nel carcere dell’Ucciardone di Palermo.
Due situazioni, pertanto queste, che potevano giustificare la suprema decisione dei Costituenti di creare le Regioni; certamente avrebbero fatto molto meglio ad astenersene, visto poi il grande risultato ottenuto dalla guerra, quello di ricompattare le potenze avversarie, di accelerare la creazione dell’Europa unita e di sopprimere alcune frontiere. Invece sbagliarono. In buona fede, crearono addirittura due tipi di Regioni, quelle a statuto ordinario e le cinque a statuto speciale, cioè Sicilia, Sardegna, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige e Valle d’Aosta. Anche in queste quattro altre regioni infatti serpeggiavano tendenze irredentiste e sentimenti indipendisti o comunque filostranieri.
Nei primi anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, dopo la formazione di regolari Governi e la ripresa della vita pacifica e ordinata e dell’attività nazionale, non soltanto costituzionalisti e cultori di diritto pubblico ma anche comuni cittadini non si spiegavano perché si era dato immediatamente corso alla formazione delle Regioni a statuto speciale mentre non si parlava affatto di costituire le altre, quelle cosiddette ordinarie. E si dovettero attendere quasi tre decenni prima che i partiti e quindi il Parlamento si decidessero ad introdurre quella grande innovazione nella forma e nella sostanza dello Stato italiano. Quasi trent’anni, esattamente, il tempo necessario a far dimenticare ai nuovi politici via via succedutisi i valori materiali e morali di un popolo e gli effetti disastrosi della perdita della democrazia avvenuta del 1922 a causa del comportamento di un’altra classe politica che, con la propria inettitudine, aveva costretto l’Italia, e perfino Casa Savoia, ad accettare il Fascismo e poi la guerra.
Il varo delle Regioni a statuto speciale fu però tutto sommato anche positivo: i Costituenti avevano visto bene, perché esse servirono a fugare le derive indipendentiste e separatiste seguite al grande conflitto mondiale oltreché europeo: in mezzo al Mediterraneo non sarebbe più sorta, a dispetto e a danno dell’Italia, una seconda Svizzera, preconizzata da potentissimi circoli finanziari in particolare americani, destinata a diventare un rifugio di finanzieri, miliardari e comunque di capitali in cerca di paradisi fiscali.
Anche per rispetto della memoria e delle imprese di Giuseppe Garibaldi, la Sicilia non si sarebbe staccata dall’Italia e nel complesso tutte le Regioni a statuto speciale avrebbero beneficiato del nuovo sistema amministrativo che concedeva loro maggiore autonomia e indipendenza dallo Stato centrale per attivare un crescente sviluppo economico e quindi maggiori vantaggi e benessere per le loro popolazioni viventi in condizioni di inferiorità e di degrado economico, sociale, culturale rispetto ad altre, italiane ed europee. Ma quella fu la stagione dell’Italia del «miracolo economico» al quale tutte le istituzioni, categorie, organizzazioni, aziende, famiglie contribuirono avvalendosi innanzitutto dell’entusiasmo, del desiderio di migliorare, di riparare i danni della guerra, di competere con tutto il resto del mondo.
Le Regioni a statuto ordinario sono state istituite nel 1970. Perché così tardi visto che la Costituzione era in vigore dal primo gennaio 1948? Perché 23 anni dopo? La prima e più attendibile risposta è perché evidentemente non ve ne era bisogno. Ma alla classe politica la mancata soluzione, fino al 1970, del problema del loro finanziamento imponeva ai partiti l’adozione di un sistema che desse certezza e continuità di finanziamento pubblico, non potendo più essere sufficiente quello praticato dal 1945 al 1970, anzi essendo già diventato insufficiente e rischioso. Il finanziamento in quei primi anni - non dico una sorprendente novità, essendo noto a tutti -, era assicurato dall’industria privata farmaceutica, poi accompagnata dal sistema delle partecipazioni statali, ovvero dalla proprietà pubblica di grandi aziende o agglomerati di esse: Iri, Eni, Efim, Ina, banche pubbliche. Sistema però anch’esso messo in dubbio a causa di almeno tre o quattro  inchieste giudiziarie su grandi casi di appropriazioni di fondi, di disamministrazione ecc. Fenomeno che inizialmente serviva per finanziare i partiti, ma che si stava estendendo anche a beneficio di singoli personaggi politici.
E questo nonostante l’apparente severità delle nuove norme, in quanto tutte le leggi sulla Pubblica Amministrazione, in particolare dalla numero 142 del 1990 in poi, erano presentate, e strombazzate come a favore del cittadino, ma in effetti erano e sono fatte tuttora a double face; c’è quasi sempre un risvolto diretto a favorire politici ed amministratori pubblici, ad ampliare i loro poteri e diritti, a ridurre i diritti e i poteri della gente comune. Ma in quei decenni ancora esisteva una parvenza di Stato di diritto, consistente ad esempio in un sistema di controlli sui costi e sulle spese pubbliche e sulle violazioni e trasgressioni di leggi da parte dell’apparato politico e amministrativo centrale e locale.
Emblematico il caso dell’istituzione delle Regioni, oggi fonti totalmente incontrollate di sprechi e furti: quando nacquero, la legge previde un’ingannatoria tagliola per gli ingenui cittadini fiduciosi in politici e amministratori pseudo onesti. L’articolo 42 della legge prevedeva, ad esempio, la presenza, in ogni Regione, di un comitato regionale di controllo composto da un avvocato, un commercialista, un ex sindaco o ex presidente di provincia, un consigliere regionale, o parlamentare nazionale o funzionario statale, regionale, locale in pensione, un esperto. Con indennità ed ogni altra spesa ovviamente a carico della Regione.
 Tutte le deliberazioni comunali e provinciali dovevano essere pubblicate nell’albo pretorio, nella sede dell’ente, per 15 giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge. Anche se il controllo riguardava non l’opportunità politica della delibera, lasciata alla scelta del Comune e della Provincia, ma solo l’aspetto contabile, cioè il controllo della spesa, questo meccanismo era efficace, se non altro dal punto di vista psicologico. Oggi questo controllo non c’è più: si realizza qualche risparmio nelle spese della Regione? No, perché Comuni e Province sono autonomi e nessuno può mettere bocca sulle decisioni di un sindaco. Pensiamo a quante delibere di spesa vengono approvate annualmente negli oltre 8 mila Comuni d’Italia, di cui molti giganteschi, e dalle 110 Province.
In un articolo pubblicato in un numero passato di Specchio Economico ho accennato ad una serie di controlli sulla spesa pubblica che non esistono più, che silenziosamente e subdolamente uno dopo l’altro sono stati aboliti dal Parlamento e dalle Regioni, ora con un provvedimento, ora con un altro; e ovviamente in tempi e con modalità diverse, agendo ogni Regione autonomamente per conto proprio. E cerchiamo di stimare il gigantesco flusso di spese disperso in milioni di iniziative e delibere senza alcuna finalità giustificata, plausibile, utile, perché non sono coordinate con quelle di altre Amministrazioni, centrali o locali.
È diffusa una larga ignoranza dell’ordinamento attuale delle cosiddette Autonomie locali, cioè delle Amministrazioni locali alle quali è stato cambiato anche il nome per non allarmare sia i cittadini sia anche gli esperti di diritto amministrativo. Per conoscere il quale non basterebbe più oggi lo studio di questa materia nella cattedra o istituto di una facoltà di legge, ma occorrerebbe una laurea esclusivamente in esso, ovvero in quel ginepraio dell’odierna struttura del diritto amministrativo terremotata da politici e da amministratori disonesti. I quali intendono questa materia come la scienza per guadagnare facilmente ricchezze ed onori comprimendo i diritti dei cittadini e soprattutto di aziende e lavoratori che producono redditi; parola quest’ultima ritenuta da tali amministratori solo sinonimo di imposte e tasse da porre a loro disposizione e servizio. E il tutto spesso con il beneplacito della giustizia amministrativa, ovvero dei Tar e del Consiglio di Stato.
Ma per poter descrivere lo smantellamento compiuto via via dai politici a cavallo dei due secoli, del XX e del XXI appena iniziato, non possono sottacersi le cosiddette riforme adottate con quella «riforma madre», la legge 142 del 1990. Esaminiamo quella che fu annunciata come una grande rivoluzione, quasi una vendetta dei cittadini contro lo strapotere dei partiti: la cosiddetta elezione diretta del sindaco da parte degli elettori, non più da parte dei consiglieri eletti dal popolo. Un’apparente rivoluzione, piuttosto un grande inganno o meglio una grande turlupinatura, perché la norma ha abolito ogni residuo potere del cittadino di influire sugli atti del sindaco a causa del nuovo sistema di nomina di assessori esterni nei Comuni con oltre i 15 mila abitanti.
La nomina da parte del sindaco di assessori esterni, ad libitum dello stesso sindaco e con il consenso di gruppi di interessi esterni non certo trasparenti, pone ugualmente il sindaco in balia di comitati di affari invisibili, e non gli garantisce indipendenza ed obiettività. Egli è ugualmente condizionato, come prima, dal volere e dagli interessi di categorie, gruppi di potere economico, etnico, sindacale. In assenza di alcuna conoscenza della realtà da parte degli stessi partiti e soprattutto degli elettori; quindi un altro controllo eliminato, quello degli stessi elettori sull’attività degli amministratori da loro nominati. Solo il sindaco viene da loro eletto; gli assessori sono designati da gruppi di potere, e non di rado, come viene oggi a Roma, da imprenditori della calce, del cemento e del mattone.
Ma i controlli aboliti sono una lunga fila. Un altro importantissimo anche se poco conosciuto ma presente in tutti i Comuni e le Province d’Italia era quello prezioso svolto dai segretari comunali e provinciali. Con la legge numero 127 del 1997 questa istituzione, classificata come «organo di garanzia», è stata modificata con numerose e profonde innovazioni, apportate soprattutto agli aspetti più importanti. Il risultato è stata l’introduzione di maggiori condizionamenti a carico di tali figure o meglio dell’attività da loro svolta, rispetto agli organi cosiddetti «politici», cioè sindaco, assessori, giunte, consigli. In pratica prima si considerava il segretario comunale il funzionario incaricato di indicare ai rispettivi organi le leggi, il diritto, le decisioni e le delibere da adottare nel massimo rispetto delle norme e dei diritti del cittadino. Se sindaco veniva eletto un contadino o un operaio completamente digiuno di diritto in particolare amministrativo, il segretario garantiva la legittimità degli atti adottati. Ora circola la battuta che il suo ruolo è ugualmente prezioso, ma per uno scopo opposto: per evitare al sindaco di cadere nei rigori della legge nei casi di emanazione di atti illegittimi, di abusi d’ufficio, di violazioni di legge. Sono criticabili i criteri che i sindaci usano per scegliere un segretario a proprio uso e consumo; criticata è anche la possibilità, consentitagli dalla riforma, di affidare al segretario comunale, che non è più tale, una serie di incarichi e funzioni accentrando i poteri in una sola persona, anziché darli ad assessori interni nei Comuni con meno di 15 mila abitanti, nei quali questi devono essere nominati tra i consiglieri eletti dal popolo, o a dipendenti.
   

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Tags: Marzo 2015 pubblica amministrazione P.A. Victor Ciuffa Savoia

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