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idee per un sindacato nuovo, attivo, reattivo

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Per Bruno Buozzi il riformismo non è il «metodo», non è il rifugio nel «quotidiano», ma è la consapevolezza di essere, sempre, nell’azione sindacale e in quella politica, ancorati ad una visione strategica. Due esempi fra i più noti possono essere illuminanti. Il primo: Buozzi, Segretario Generale della Fiom visse i giorni drammatici dell’occupazione delle fabbriche, ma ad essi, senza piegarsi alle tesi massimaliste, cercò di dare un duplice sbocco positivo: uno sbocco «democratico» sul piano politico, uno sbocco «concreto» sul piano sociale con il miglioramento delle condizioni generali e retributive dei lavoratori.
Il secondo: il riformismo per Buozzi non è una politica grigia per i tempi della transizione. Tra lo scetticismo generale e senza nessun aiuto, Buozzi fa vivere e poi rivivere a Parigi la Confederazione Generale del Lavoro, di cui è divenuto Segretario Generale, quando il fascismo sta vibrando in Italia gli ultimi, decisivi colpi alla democrazia politica e alle libertà sindacali e civili. Buozzi, insomma, dimostra che anche un riformista può affrontare con coraggio battaglie ideali mai «perdenti»; che «perdenti» non sono state poi, se è vero, come è vero, che gli ideali del riformismo rimasero radicati nel cuore di tanti lavoratori prima nella resistenza al fascismo e poi nella ricostruzione del sindacato unitario.
Il riformismo è uno strumento particolarmente adatto per le epoche di transizione nelle quali gli interrogativi sommergono le vecchie certezze, i nuovi ideali non hanno ancora il passo dell’attualità. Il riformismo può avere in queste fasi della storia di ogni Paese, la nobiltà necessaria per contrapporsi al trasformismo, alla politica come conservazione dell’esistente, alla riduzione della complessità di una società che cambia continuamente a schemi semplificati, siano essi il bipolarismo in politica o la contrapposizione nel sociale. In tutti questi casi il riformismo, quello vero, gioca un ruolo essenziale a favore della democrazia, perché è revisione delle ideologie e dei comportamenti nel fare.
Nelle fasi di transizione ci si deve aprire alle novità: bisogna saper mantenere su dimensioni di massa, con un’attenzione tutta particolare ai problemi generali, la capacità di una proposta e di un’iniziativa che faccia avanzare le idee delle forze che rappresentano e vogliono rappresentare il meglio della società che cambia. Bruno Buozzi si trovò a fare i conti con un’epoca di trasformazioni diversa da quella che invece caratterizza le vicende a cavallo del ventunesimo secolo con il passaggio dalla fase industriale a quella post-industriale. Si trattava allora di saldare esigenze nuove ed organizzazione sindacale, rappresentatività del sindacato e consenso di tutti gli strati dei lavoratori. La Fiom di Buozzi allora guardò a tutti i lavoratori, considerò essenziale il dato della professionalità, diffidò delle avanguardie e delle élites che, in ogni situazione storica di evoluzione profonda, ieri come oggi, emergono ma poi spesso finiscono con il cristallizzarsi in aristocrazie chiuse o addirittura esprimere nella società posizioni da «nuova destra».
Per Bruno Buozzi e il suo riformismo il sindacato deve contare nei luoghi di lavoro, confrontarsi con l’evoluzione tecnologica (di qui l’attenzione ai tecnici dell’epoca), costruire condizioni di giustizia e di avanzamento nella società che possono poi riflettersi sulla qualità della vita politica e dell’azione dei partiti: un sindacato che deve contare in ogni momento, ad ogni livello, rifiutando i legami più o meno mascherati con le tattiche di partito e cercando, invece, di portare a casa i risultati che ne evidenzino la capacità politica e contrattuale.
Oggi si deve indirizzare l’azione dei sindacati all’inserimento nel processo di laicizzazione della vita italiana, politica e sociale, dell’idea di un sindacato dai connotati precisi, che «gioca in modo nuovo, ma fa risultati», puntando sulla proposta, su una nuova assunzione di responsabilità nell’economia, sottraendo all’emarginazione il problema della professionalità, legando insieme autonomia, laicità e modernizzazione dell’esperienza sindacale.
Quello che allora era lo sforzo per legare la trionfante realtà industriale ai mutamenti sociali, per controllare il passaggio tormentato da società agricola a società industriale, per «tenere» tutto questo dentro gli schemi di una democrazia in formazione, oggi si chiama in termini di sfida in modo diverso, ma sfida per il sindacato rimane.
Si tratta di dominare i nuovi vasti processi tecnologici, di far valere le ragioni del lavoro e della giustizia, specie quella fiscale, di non demonizzare mobilità, flessibilità e produttività, ma di sottrarsi all’uso privatistico che inevitabilmente ne faranno settori imprenditoriali e forze conservatrici se il sindacato starà a guardare, adorando i vecchi schemi della rigidità e dell’appiattimento. L’ansia del riformista è di trovare nuove idee per il lavoro dei giovani, di condurre una battaglia per l’efficienza in economia e nello Stato e soprattutto di sapere che, senza la ridefinizione di un ruolo sociale e senza una profonda riforma della contrattazione e del salario, il sindacato rischia un’ulteriore riduzione secca del proprio potere di rappresentanza. Partecipazione e decisione, responsabilità e chiarezza di scelte e quindi una nuova democrazia sindacale completano il quadro delle urgenze «sindacali».
Il sindacato deve sapere che non basta avversare nel suo interno gli aspetti di frizione e di divisione prevaricatrice; occorre evitare la caduta nella burocratizzazione, nella pura gestione, nello spirito scarsamente innovativo, nell’economicismo, nella polarizzazione delle posizioni.
È difficile ricostruire una vera unità tra i lavoratori e tra le diverse organizzazioni sindacali. È però essenziale. Non possono esserci esclusioni pregiudiziali. L’unità d’azione va ricostruita superando anche le ambiguità e l’autoesclusione. Il modo giusto di riferirsi al dibattito interno al movimento sindacale, il modo giusto di rapportarsi alla crisi d’identità e di linea che affiora nei vecchi e nei nuovi partiti, è quello di confrontarsi con chiarezza, senza concessioni di pura forma, ma con costruttività con quel dibattito, con quella crisi. Il riformismo è una posizione di preminenza e di autorevolezza indiscussa rispetto a tutto il processo unitario che si deve riannodare.
Oggi non si può rinunciare a proseguire sulla strada del rinnovamento del sindacato e del risanamento; bisogna sempre negoziare, forti della ragionevolezza delle proprie proposte. Insomma occorre superare il falso dilemma tra chi tratta per paura e chi ha paura di trattare. Rigoroso è il richiamo costante all’autonomia del sindacato, che ha valore di relazione, che è elemento dinamico. Il sindacato è un soggetto politico. Autonomo. Non è indifferente nei confronti dell’evoluzione politica e della democrazia. Sa cogliere le novità, i problemi, le esigenze inevase e porle con forza in piena autonomia nel confronto politico per democratizzare la società. Per il sindacato non è un compito agevole: si tratta di reinventare nuove solidarietà, di battere gli assistenzialismi, gli sprechi, gli scandali più evidenti quali quelli dell’evasione fiscale. Si tratta di affermare una politica di tutti i redditi, di far compiere un salto di qualità alle relazioni industriali, di non mollare la presa nella lotta all’inflazione.
Si crea confusione fra i lavoratori quando si ammettono i ritardi del sindacato in materia di ristrutturazione della contrattazione e poi non si manifesta una volontà precisa di intervenire con rapidità per dotarsi di strumenti idonei in una fase della ripresa rivendicativa: contratti e contrattazione aziendale. Ma soprattutto si rischia di generare sfiducia se non si comprende che il sindacato delle grandi fabbriche, dell’operaio massa, delle grandi concentrazioni urbane non è più sufficiente per fronteggiare, per spiegare tutta l’esperienza sindacale, di fronte a lavoratori in possesso di professionalità che si spostano da questo o da quel settore produttivo, a giovani che vogliono un lavoro, ma con tempi ed esperienze professionali più varie, non più scandite dalle otto ore di fabbrica, a operai, impiegati e tecnici, co-autori di quel localismo economico che tanta parte ha avuto nella tenuta economica del nostro Paese, ad esperienze di cooperazione del tutto nuove e di imprenditività, specie nell’agricoltura e nel terziario, proprie di un’economia matura ed intraprendente, e quindi indifferenti al populismo di vecchi schemi contrattuali.
Si deve realizzare e praticare un’idea di democrazia sindacale radicata su strutture solide, reattive, dotate di autonomia e di protagonismo. Ma soprattutto unitarie ed uniche. Anche qui il riformismo è unità nella chiarezza, e quindi porta la propria battaglia di idee e di proposte nei luoghi di lavoro, con grande linearità: non cerca spazi in esclusiva, non vuole la duplicazione di strutture, non corteggia le minoranze agguerrite e movimentiste, ma punta tutto sulla chiarezza del metodo democratico, delle decisioni, sulla valorizzazione di spazi di confronto sorretti dalla tolleranza e dal rispetto reciproco.
Il primo atto del Buozzi della Resistenza non a caso è il ripristino delle Commissioni interne: per lui le discussioni su quale sindacato, sembrano venire dopo. Ai lavoratori occorre dare subito un punto di riferimento, uno strumento, fatti organizzativi certi. E per Buozzi, riformista, organizzatore e dirigente sindacale, l’unità comincia nei luoghi di lavoro, nell’unitarietà della rappresentanza sindacale. Per lui il sindacato, sia pur così lontano dal livello di potere e di status che ha oggi, si configura come un elemento di equilibrio della società. Oggi questa esigenza appare attuale; il non esserlo più, per la profondità delle divisioni che attraversano il movimento sindacale, dimostra già di per sé quanto quell’intuizione fosse giusta, visto il deterioramento della dialettica dei partiti, la difficoltà a riacciuffare come centrali i temi dello sviluppo economico, l’acutezza del dissidio a sinistra, l’emarginazione della società civile.
Per Buozzi il sindacato «fa politica restando sindacato»; è un’organizzazione che poggia sull’autonomia reale dai partiti e sulla democrazia interna senza nulla cedere alle tentazioni spontaneistiche dei «ribelli di un’ora»; individua ed indica il percorso di una possibile «terza via» tra il vecchio riformismo e le soluzioni rivoluzionarie dei massimalisti, facendo dello Stato e della controparte sociale i propri interlocutori per realizzare forme concrete di democrazia industriale, per incanalare le possibilità di sviluppo e di crescita economica in direttrici programmatiche che superino l’anarchia del «libero mercato».
Potrebbero essere quei concetti oggi una risoluzione degli organismi direttivi sindacali: una dichiarazione d’intenti sul ruolo, la funzione, l’identità del sindacato, all’indomani delle fratture ideologiche e politiche che hanno rimesso in discussione gran parte delle acquisizioni, all’interno di ogni organizzazione, nei rapporti con il Governo, con la base, con i partiti politici che, in altre parole, hanno riproposto il significato del sindacato in una società in fase di trasformazione, «post-industriale». Un uomo dotato di grande coraggio, come dimostra tutta la sua vicenda umana e politica, simbolo di un’epoca ma soprattutto di una fase del sindacalismo italiano che oggi, per certi versi, si ripropone per l’incapacità del movimento sindacale di superare le proprie contraddizioni, di portare a maturazione il processo di identità nell’autonomia, di uscire dall’impasse del rapporto con i partiti, di ridefinire la dialettica con lo Stato e le parti sociali, di rifondarsi nella società civile.
Certo Buozzi si trovò a operare in un’epoca diversa dalla nostra: si andava affermando la società industriale; nasceva la grande impresa; si strutturava il mondo del lavoro, con il taylorismo, il cottimo, la divisione del lavoro in fabbrica, mentre oggi viviamo in un’epoca che largamente possiamo definire «post-industriale». Eppure, allora come adesso, si assisteva a profondi cambiamenti e trasformazioni, tecniche e tecnologiche; a mutamenti sostanziali nell’apparato produttivo. Da ciò trae validità la lezione di Buozzi, vale a dire in quello sforzo di rappresentare tutti i lavoratori, di valorizzare le professionalità, di diffidare delle élites e delle avanguardie, di puntare ad un sindacato che facesse dell’occupazione il proprio perno, che fosse in grado di confrontarsi e di comprendere l’evoluzione tecnologica, di costruire alleanze nel mondo del lavoro puntando all’unità di operai ed impiegati, nell’autonomia dai partiti politici.
Occorreva cioè che il sindacato «si preoccupasse di una politica generale del lavoro superando le posizioni meramente difensive, per porsi, nel tempo stesso, come coautore delle scelte di politica industriale e come soggetto di potere, alternativo e protagonista, riconosciuto dagli imprenditori». Questo spostamento dell’interesse del sindacato dal terreno della distribuzione del reddito a quello della sua produzione conferma quel salto di qualità che, secondo Buozzi, avrebbe dovuto compiere, superando l’antinomia tra politica ed economia per incidere sulla politica economica, ma travalicando anche il rapporto di «delega» ai partiti o di «cinghia di trasmissione», nell’uno e nell’altro verso, data la «peculiarità» italiana profondamente diversa dalle esperienze laburiste.
«La subordinazione cieca dei sindacati ai partiti, com’è intesa dai comunisti, è inconcepibile–afferma Buozzi–.Tale subordinazione è possibile solo dove il proletariato è alle sue prime armi; dove i sindacati hanno raggiunto una certa maturità, la loro opera è così complessa e multiforme da sconsigliare anzi al partito di intervenire ad assumere responsabilità in problemi tecnici che lo potrebbero compromettere».
Il sindacato non è, né deve essere, secondo Buozzi, un organismo di carattere economicistico, né porsi come partito o dare vita ad un’organizzazione politica, perché snaturerebbe il proprio ruolo nel primo caso, o creerebbe un inutile duplicato nel secondo. Contestando la tesi di costituire, nel breve periodo, un «partito del lavoro» (proposta Rigola) Buozzi respinse la tesi di coloro i quali sostenevano che il Partito Socialista non era più il «vero partito della classe» perché rischiava di diventare un «partito di governo».
Buozzi voleva un forte e responsabile movimento sindacale; lo stesso obiettivo che sul versante della classe politica post-risorgimentale di estrazione liberale, che tendeva a diventare democratica, si prefiggeva Giovanni Amendola, il quale di quella generazione fu l’interprete più alto, auspicando nel manifesto dell’Unione Democratica Nazionale del 1924 una politica di progressiva ed intima associazione dei lavoratori alla vita dello Stato.
Come dimenticare le conclusioni cui giungeva Amendola durante il primo ed unico Congresso dell’Unione Democratica dopo il delitto Matteotti e dopo il 3 gennaio 1925? «Se volete, e come volete il capitalismo–diceva Amendola–dovete rassegnarvi al sindacato, alla lotta di classe, e perciò mentre è concepibile che il movimento sindacale possa in determinate circostanze arretrare o retrocedere e perfino possa rassegnarsi temporaneamente alle condizioni meno favorevoli, è semplicemente assurdo il pensare che si possa conservare e rafforzare un’organizzazione capitalistica della società sopprimendo il massimo fenomeno che l’accompagna, e cioè l’organizzazione unitaria e la contrattazione economica dell’interesse del lavoro».
Il giudizio di Amendola richiama la conclusione di Piero Gobetti nell’ultimo fascicolo, quasi testamentario, de «La Rivoluzione Liberale», dell’8 novembre 1925: «La realtà profonda è che la grande industria non si può sviluppare senza un contemporaneo sviluppo delle forze del proletariato e della sua capacità di difesa e di conquista». Oggi un vero rischio non è quello di una supplenza delle forze sociali - sindacati e imprenditori - alla politica, ma quello di una politica che occupa gli spazi del sindacato. È quello che sta avvenendo in Italia. Il Governo (gli ottanta euro, il jobs act, le pensioni, la rappresentanza, i contratti ecc.) non riconosce come interlocutorie le forze intermedie, i sindacati in particolare: l’obiettivo è la ricerca di un consenso plebiscitario, senza contestazioni e senza contestatori.
Come agire? Come reagire? Keynes nel 1925 ammoniva: «Credo che in futuro, più che mai, le questioni legate alla struttura economica della società saranno problemi politici prioritari».
Ecco perché il sindacato deve valorizzare il proprio ruolo, come soggetto politico autonomo capace di unificare e rendere coeso il settore sociale. Deve fare politica. Non deve essere un partito politico. Il tempo delle cinghie di trasmissione è finito. Per farlo deve essere capace di ritrovare l’unità e la confederalità. Deve fornire un’idea di futuro. Deve essere attivo, reattivo, unitario, rappresentativo. Deve navigare in mare aperto. Non deve credere, deve pensare. Va affrontato con coraggio il problema della sua rilegittimazione. Meno burocrazia, meno cooptazioni, meno rendite di posizioni, meno clientelismo, meno consociativismo. Più proposte. Più conoscenza. Più democrazia. Più idee. Più iniziative.
Emmanuel Mounier ricorda che «quando lo spirito difensivo domina, è segno che l’invenzione è morta, che la preoccupazione di conservare, e di conservare tal quale, ha espulso la preoccupazione di promuovere e di creare». Giuseppe De Rita ha di recente affermato: «I sindacati una volta erano scuole di moralità. L’abbiamo visto negli anni bui del terrorismo, quando il sindacato si schierò immediatamente contro. Era un corpo intermedio che riteneva necessarie e irrinunciabili alcune regole come quelle della fabbrica e della lealtà tra i lavoratori. Oggi tutti i corpi intermedi, dall’Associazione degli industriali della più piccole delle province al più grande dei sindacati, non sono più capaci di dettare efficaci norme di comportamento».
Luigi Viviani in un suo recente libro (Oltre il declino l’unità) aggiunge: «Nella sostanza il sindacato oggi parla molto ma propone e orienta poco. In genere si limita ad esprimere un parere sulle scelte proposte o attuate da altri, e anche questo contribuisce a ridurne il ruolo e l’influenza. Ciò che più impressiona è che questo e altri problemi vengono subiti fatalisticamente, senza discussioni interne adeguate e senza conseguenti azioni per modificare. Manca in gran parte dei gruppi dirigenti la convinzione secondo cui i costi delle battaglie non combattute sono sempre maggiori anche di quelle perse, perché non determinano alcun fattore di cambiamento».
Giuseppe Berta spiega: «Per poter stare nella nuova organizzazione industriale, con lo spazio di movimento di un soggetto autonomo, al sindacato è richiesto di esprimere una propria competenza specifica in merito ai problemi del lavoro. Qualcosa per cui non bastano né la logica della contestazione sistematica né quella dell’adattamento subalterno». E possiamo concludere citando Ezio Tarantelli: «Il mio modello, al fondo, è guidato da un’idea forza, e cioè dalla possibilità di costruire, anche nel nostro Paese, un sindacato che lotti non solo per il rientro dall’inflazione, ma anche per le riforme, quelle riforme che in questo Paese sono mancate negli ultimi trent’anni.   

Tags: Aprile 2015 lavoro sindacato

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