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associazioni di consumatori: dal ministero un regolamento che non cambia la situazione, anzi

di MASSIMILIANO DONA
«Est modus in rebus» vale anche per le associazioni di consumatori: troppo numerose, troppo chiassose, spesso folkloristiche. Per questo il Ministero dello Sviluppo Economico ha presentato una proposta di Regolamento che dovrebbe mettere ordine tra le molte sigle (non tutte in effetti credibili) sorte nel tempo in rappresentanza dei consumatori. Non c’è dubbio che rimediare alla proliferazione delle organizzazioni di consumatori sia urgente, anche per evitare di disorientare il consumatore che sempre più spesso, complice la crisi, cerca informazioni o assistenza per i problemi quotidiani. E poi si sa, in tempo di spending review è giusto procedere con i tagli. Tuttavia, considerando che in Italia le organizzazioni di consumatori non sono destinatarie di fondi pubblici, non si tratta di risparmiare quattrini, ma di contenere il numero di queste compagini. Questo è l’obiettivo del Ministero ma, ammesso che l’unico problema del consumerismo sia l’esorbitante numero di sigle operanti a tutela di consumatori, forse si dovrebbe far attenzione a non buttare via il bambino con l’acqua sporca. Per questo l’UNC non condivide alcune delle modalità con le quali l’iniziativa adottata dal Ministero cerca di dar voce a questa giusta esigenza, ed anzi teme che il fine ultimo del Regolamento possa essere proprio quello di depotenziare il ruolo delle associazioni dei consumatori (o di alcune tra esse). Nella proposta, infatti, non v’è traccia di nuove prerogative: il regolamento si dedica solo all’irrigidimento dei criteri di «selezione» delle rappresentanze associative, senza alcun ammodernamento di parametri per valutare l’operato delle associazioni, cosa che invece, ad oltre 14 anni dalla prima legge in materia, ci sembra necessario. Sarebbe il caso di valutare cosa fanno concretamente le associazioni di consumatori, quanto sono utili alla gente, che altrimenti è costretta a subire prepotenze ed inganni di alcune imprese scorrette. E sarebbe auspicabile che la riforma consentisse di restringere il numero a quelle che hanno un’utilità sociale, scremando l’attuale novero da chi fa demagogia e populismo solo per carriera personale (alcuni dei miei colleghi aspirano evidentemente ad una candidatura politica) o, peggio, per un interesse di bottega: si sente raccontare di atteggiamenti quasi estorsivi di «certe» associazioni in danno delle aziende. Nel momento in cui si critica l’attuale scenario, sarebbe invece necessario puntare il dito contro l’insipienza ministeriale, colpevole di aver omesso i necessari controlli così da consentire negli anni a compagini a dir poco estemporanee di compiere le iscrizioni. Ma si sa: meglio tante associazioni starnazzanti che poche solidali ed efficaci. La verità è che le associazioni non sono ascoltate da chi governa (lo stesso Mario Monti non le ha mai consultate) e sono sprovviste di reali prerogative. Oggi il Ministero intende rimediare alle inefficienze che contraddistinguono il riconoscimento di questi portatori di interessi collettivi basando ogni valutazione sul numero degli iscritti, ma commette un errore di prospettiva dimenticando di valutare la qualità del lavoro svolto dalle singole associazioni. Non che il requisito relativo al numero degli iscritti non meriti di essere rafforzato alla luce dell’esperienza maturata dal 1998 ad oggi; per far ciò, però, il Regolamento dovrebbe finalmente spiegare chi può essere considerato un «iscritto» a queste organizzazioni, sgombrando il campo da alcune situazioni nelle quali l’attività di proselitismo è svolta grazie alla promessa di servizi assistenziali o paralegali o, peggio, confondendo l’iscrizione a un’associazione no-profit con l’abbonamento a un prodotto editoriale o con l’adesione a un’organizzazione sindacale. A ciò si aggiunga che, oggi, troppo spesso queste «iscrizioni» sono raccolte con modalità (spamming on-line, marketing aggressivo ecc.) o in luoghi (sedi sindacali, Caf, patronati ecc.) che nulla hanno a che vedere con il rapporto di consumo. Questa è la vera emergenza per chi ha a cuore la realizzazione di un’effettiva rappresentatività delle associazioni di consumatori e quindi del movimento nel suo complesso. Perché non è tollerabile che le associazioni non siano più riconosciute come aggregazioni di soggetti che condividono un ideale, ma solo come abbonati a un periodico o figliastri di compagini manovrate dal sindacato. Di queste «associazioni» (e del conflitto di interessi che le attanaglia) il consumerismo farebbe volentieri a meno. ■

Tags: Novembre 2012

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