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Stati Uniti: l’ambasciatore Phillips e la lectio americana

Lucio Ghia

Anche quest’anno come avviene da cinque anni ha avuto luogo a Roma-Eur dal 28 al 30 aprile il Salone della Giustizia. Questa riunione costituisce ormai un punto fermo nella comunicazione e nei rapporti tra «la gente della giustizia»: il cittadino si avvicina ai problemi della giustizia e quest’ultima ai problemi del cittadino. Nel Salone delle Fontane di Roma Eur, in un bel complesso alla sinistra del Palazzo della Civiltà del Lavoro, innanzi a più di 200 intervenuti, tra avvocati, magistrati, consulenti giudiziari ed addetti ai lavori, si sono susseguite le relazioni del ministro della Giustizia Andrea Orlando; del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Giovanni Legnini; del presidente del Consiglio di Stato Giorgio Giovannini; del presidente del Pontificio Consiglio della Famiglia Mons. Vincenzo Paglia; del presidente della Commissione Giustizia del Senato Francesco Nitto Palma; del ministro degli Interni Angelino Alfano; del presidente della Sezione industriale del Tribunale delle Imprese Tommaso Marvasi e dei molti altri illustri relatori.
Il filo conduttore del V Salone si è snodato sul rapporto tra impresa e giustizia. In particolare mi soffermerò sui lavori «giustizia e affari» e sull’intervento svolto dall’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia John Phillips. Il mondo degli affari, della finanza è orientato verso «benchmarks», parametri purtroppo a noi estranei, che costituiscono punti di riferimento e veri obiettivi di efficienza e di sviluppo da raggiungere. La necessità di ottenere finanza al momento giusto, per sopperire alle necessità dell’impresa, deve permettere all’investitore di valutare la convenienza e la sicurezza dell’investimento che, specie se in un Paese estero, deve risultare particolarmente attraente rispetto alle opzioni esistenti.
La scelta è guidata dalla «predictability», la possibilità di prevedere se le cose vanno male e che cosa avviene del proprio investimento. Ovvero: quanto tempo sarà necessario per recuperare il recuperabile, a quale percentuale ammonterà il recupero e quante saranno le spese da affrontare. Il costo del «credito non performing», la protezione giudiziaria delle aspettative di recupero per il creditore, fanno la differenza. Il tema è di grande importanza poiché se noi continuiamo a restare nella parte più bassa delle classifiche internazionali sull’efficienza del sistema giudiziario, è evidente che gli investimenti in Italia non presentano un particolare «appealing».
La classifica che va per la maggiore in termini di misura dell’efficienza del sistema Paese è fornita dal Doing Business, che quest’anno ci relega oltre il 140esimo posto. Ben 4 indicatori riguardano appunto l’efficienza della giustizia, in particolare «l’enforcing contract». Ovvero cosa succede nel momento patologico del rapporto contrattuale, quando un contratto non viene adempiuto, quando il creditore deve rivolgersi al Tribunale per eseguire una sentenza favorevole. Nel nostro Paese l’esecuzione delle sentenze è affidata a procedure di carattere giudiziario, e questo costituisce un noto motivo di lungaggini; si stima che gran parte dell’arretrato della giustizia sia concentrato nell’area relativa alle esecuzioni mobiliari e immobiliari.
Fatte queste premesse torniamo a quanto ci ha detto con grande chiarezza e con un metodo molto pragmatico e diretto, l’Ambasciatore Phillips: «La missione, il contenuto del mandato, come per qualsiasi altro ambasciatore, si sostanzia nel contribuire a creare opportunità di investimento in Italia per le aziende americane, e l’Italia ha esattamente bisogno di questo tipo di investimenti in quanto le relazioni commerciali, industriali tra l’Italia e gli Usa sono decisamente al di sotto del loro potenziale».
Gli Stati Uniti, infatti, investono in Francia il doppio di quanto investono in Italia e il 25 per cento di quanto investono in Germania; l’Italia per quanto attiene agli investimenti che provengono dagli Stati Uniti resta indietro alla Spagna, al Belgio, alla Svezia, alla Norvegia, e questo «esprime un certo malessere» in quanto l’Italia è il terzo Paese della zona Euro, la seconda più grande economia manifatturiera europea e il quarto più grande esportatore.
L’Ambasciatore Phillips si è domandato perché avvenga questo, e colloca al numero uno delle risposte il problema della lentezza della giustizia civile, e in particolare il tema dell’enforcing contracts, cioè la lentezza, l’impossibilità di ottenere l’esecuzione di un contratto in un tempo ragionevole. Al secondo posto poi, c’è la paura della corruzione e, «in qualche caso ingiustificata», questi fattori hanno un impatto negativo sia sugli investimenti che sullo sviluppo italiano.
Un altro aspetto deludente e di perplessità è determinato dal sistema fiscale italiano che può costituire senz’altro un ostacolo per le imprese che vogliono investire in Italia. Indipendentemente dalle classifiche l’Economist ha sottolineato come, a causa del sistema giudiziario, l’Italia si propone come il Paese più lento con una media di ben 7 anni per concludere un giudizio nei suoi tre gradi.
«Questo fatto può essere considerato il motivo principale per cui l’economia italiana non è cresciuta a sufficienza, molte aziende americane hanno dichiarato di non investire e di non fare affari in Italia per questo motivo. Nel mese di febbraio a New York si è tenuta una riunione di imprenditori americani e italiani convocati da Sergio Marchionne e tutti hanno lamentato l’inaffidabilità e il ritmo inaccettabilmente lento della macchina giudiziaria italiana. Secondo la Banca Mondiale è più difficile far rispettare un contratto in Italia che ad Haiti e in altri 100 Paesi. Proprio un italiano, Mario Draghi, presidente della Banca Centrale Europea, ha riconosciuto che una delle iniziative più importanti per migliorare l’economia in Italia e creare posti di lavoro è rappresentata dal sensibile miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario italiano, imponendo disciplina, responsabilità dei giudici e degli avvocati e l’utilizzo di moderne tecniche di programmazione digitale che elaborino tutte le informazioni in un modo altamente trasparente e veloce».
L’Italia non è ovviamente l’unico Paese che ha problemi di questo tipo e quindi l’Ambasciatore Phillips si è intrattenuto su due esempi: «Negli Stati Uniti la Corte Suprema di California era irrimediabilmente in ritardo nella formulazione di pareri (delle decisioni, n.d.r.), così il Parlamento dello Stato «ha approvato una legge che affermava che se i giudici sono in ritardo nei tempi previsti per le decisioni non vengono pagati». Che è successo? L’arretrato delle cause è stato rapidamente smaltito. «Molto probabilmente i giudici italiani presenti in aula a questo punto, avranno avuto un sobbalzo, ma tranquilli, aggiunge chi scrive, non siamo negli Stati Uniti».
Un altro esempio, ha continuato, è costituito dalle decisioni delle Corti Federali di rendere pubblici i registri dei procedimenti giudiziari, questo ha reso di dominio pubblico i giudici che erano efficienti nella gestione dei loro casi e quelli che erano irrimediabilmente indietro, non c’è nulla di più efficace della pressione tra pari per ottenere i risultati desiderati, e questi interventi non costano nulla. «Ovviamente vi sono eccellenze anche in Italia», ha sottolineato Phillips citando il caso di Torino sul quale ci siamo già intrattenuti sui precedenti numeri di questa pubblicazione. Questo tipo di esempi, che vanno diffusi perché particolarmente significativi, non hanno impegnato né il Governo, né il Parlamento, non hanno richiesto l’emanazione di nuove leggi, «ma hanno semplicemente operato sul cambiamento del modo in cui viene gestito l’affidamento dei procedimenti giudiziari».
Phillips ha preso in esame, quindi, la necessità di diffondere il più possibile l’utilizzazione di strumenti alternativi al ricorso al giudice ordinario, quali le «alternative dispute resolution» e ha considerato positiva l’obbligatorietà del ricorso alle conciliazioni, alle mediazioni, agli arbitrati per la maggior parte dei casi contenziosi, anche oltre il limite dei 50 mila euro di valore, del quale si sta discutendo in Italia. Naturalmente tutto ciò esige un salto culturale, esige il superamento delle difficoltà collegate ad ogni tipo di cambiamento e dagli Usa provengono notizie confortanti sull’utilità di questi cambiamenti. Infatti, la conciliazione e la mediazione sono concepite come strumenti estremamente flessibili, invece di essere vincolate al rispetto delle norme del codice civile. Le parti possono essere spinte a risolvere il caso nel modo ritenuto da loro più conveniente e concordare in un accordo di mediazione, su soluzioni e risultati che nessun giudice è in grado di imporre nell’ambito di un giudizio ordinario, spendendo meno rispetto ai costi giudiziari ordinari.
«In California–precisa Phillips, che è anche avvocato–gli avvocati ritengono di aver fatto risparmiare ai propri clienti il 95 per cento di spese legali risolvendo casi contenziosi attraverso la mediazione. Le parti sono maggiormente orientate verso la soluzione di una controversia quando partecipano direttamente ed hanno un maggiore controllo sui loro casi. A Washington D.C. un’indagine condotta sul livello di soddisfazione raggiunto dalle parti dei loro avvocati nel pervenire ad una soluzione frutto di conciliazione o di mediazione ha messo in evidenza che le parti erano molto più soddisfatte nel caso di conclusioni negoziate rispetto a quelle giudiziarie».
Anche in ordine ai costi delle liti ed alla diffusa percezione circa l’atteggiamento degli avvocati, piuttosto freddo, in merito alla diffusione delle conciliazioni e delle mediazioni, poiché in Corte avrebbero guadagnato parcelle superiori, il nostro relatore ha fornito la sua risposta: la vecchia concezione della professione basata sull’adagio «finché la causa pende rende» è stata sostituita in Usa da una nuova cultura giuridica basata sulla consapevolezza di un «servizio» legale aderente alla velocità degli scambi commerciali e delle esigenze finanziarie delle imprese e sulla capacità di dare risposte adeguate all’enorme numero delle controversie che il mercato oggi propone.
La soluzione delle controversie raggiunte in sedi alternative a quella giudiziaria ha dimostrato di essere un «win, win, win» per gli avvocati, giudici e clienti ed è divenuta una componente molto importante nella tutela dei beni della vita. La velocità delle conclusioni negoziate, insieme alla soddisfazione dei clienti per i risultati raggiunti a costi contenuti, consentono di cogliere molti obiettivi in una sola volta e gli avvocati trovano nei risultati economici connessi alla quantità dei casi risolti, compensi ben maggiori rispetto alle alternative giudiziarie.
L’ultima parte dell’intervento è stata dedicata alle complicazioni del nostro sistema fiscale. Nella classifica del Doing Business, l’Italia è collocata al 141esimo posto su 189 Paesi nel mondo, l’ultima posizione nella classifica tra i Paesi europei e dietro a Sudan, Nepal e Siria. Una impresa di medie dimensioni in Italia impiega 269 ore all’anno per completare gli adempimenti fiscali; un tempo pari a 6 settimane che gli imprenditori perdono ogni anno e che invece potrebbero impiegare nell’interesse della propria impresa ed aiutarla a crescere. Uno studio dell’Oecd ha confermato che le aziende in Italia sono tenute a mantenere sei diversi libri contabili per soddisfare i controlli fiscali, il che è particolarmente oneroso specialmente per le piccole imprese, in particolare se sono start-up che devono concentrarsi sulla realizzazione di un buon prodotto e non hanno strutture e mezzi per risolvere le complicazioni fiscali. Nel mese di marzo, il Sole 24 Ore ha riportato che solo lo scorso anno si sono avute 997 modifiche alle norme fiscali, circa 4 revisioni ogni giorno lavorativo.
Questo panorama in continua evoluzione riduce la certezza ed aumenta i costi fiscali. La differenza in Italia tra le entrate fiscali previste e quelle effettivamente riscosse è stata stimata annualmente in una cifra superiore ai 91 miliardi di euro, pari quasi al 6 per cento del prodotti un sistema semplificato incoraggerebbe l’adempimento degli oneri fiscali. Le complicazioni, infatti, non rendono. Anche le imprese americane più importanti ritengono che il sistema delle imposte in Italia sia «opaco e capriccioso». Inoltre, «si ha l’impressione che il sistema fiscale italiano persegua penalmente amministratori e consulenti esterni delle imprese americane, per reati in ordine ai quali, a parità di condizioni, negli Stati Uniti andrebbero incontro unicamente a sanzioni finanziarie civili. L’abitudine di perseguire penalmente scoraggia anche i più entusiasti potenziali investitori. Alcuni amministratori e consulenti esterni hanno subito il sequestro dei loro beni personali in casi che sono stati poi annullati in appello. Naturalmente alcuni esperti possono non concordare sul significato del concetto di sistema fiscale complicato, ma il sequestro dei beni personali e la minaccia del perseguimento penale di amministratori e consulenti esterni nel caso in cui l’azione penale si riveli dopo anni infondata,  certamente non costituisce un fattore attraente per investire in Italia».
In conclusione, ecco, i consigli dell’Ambasciatore Phillips: accelerare i processi giudiziari e razionalizzare l’applicazione della riscossione delle imposte potrebbero costituire il volano della crescita economica in Italia. «Queste riforme aumenteranno la fiducia degli investitori ed aiuteranno il Paese a massimizzare i suoi punti di forza in campo economico: il talento innovativo; la forza del marchio made in Italy e la propensione alla genialità». E con queste parole l’Ambasciatore Phillips, tra gli applausi, ha concluso la sua «lectio americana».   

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