Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

Una svolta nella politica economica e sociale, in Italia ed Europa

Giorgio Benvenuto presidente Fondazione Buozzi

Il futuro non è più quello di una volta

L’Europa è un grande problema. È molto diversa da quella immaginata e costruita da Monnet e da Delors. Avevamo pensato ad una Germania europea, ci troviamo un’Europa tedesca. I grandi partiti europei (quello socialista e quello popolare) non hanno nessuna incidenza. Organizzano iniziative generiche. Sono attivi nel turismo sociale e politico. Gli esponenti di maggior rilievo si sentono patrioti del proprio Paese e dei propri interessi. Le vicende della Grecia sono un test preciso. La Germania propone e dispone.

In «Giù la testa», un film girato da Sergio Leone, ricorda in un saggio il professor Umberto Romagnoli, uno dei protagonisti dice: «Dove c’è rivoluzione c’è confusione e dove c’è confusione, uno che sa quello che vuole ha tutto da guadagnare». Ennio Flaiano sostiene che essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in generale è un pleonasmo, ossia è anticipare quello che accadrà. Roberto Gervaso aggiunge: «Se il bicchiere è mezzo vuoto o mezzo pieno, io lo vedo non solo tutto vuoto, ma anche in frantumi. Non ho mai dubitato che il pessimista sia un ottimista bene informato, che sa come andranno le cose».

Luca Ricolfi, in un discusso e tormentato articolo di fondo su Il Sole 24 Ore, ha recentemente ammesso che il Governo Renzi non ha più la maggioranza nel Paese, come si è potuto constatare nelle recenti elezioni amministrative. I sondaggi confermano la caduta dei consensi al Governo. Ricolfi individua i motivi di questa tendenza in due forze, una di matrice esterna, l’altra di matrice interna. Il primo fattore di crisi è il cambiamento del clima politico in Europa, con il rafforzamento dei partiti antieuropei, anti euro, anti austerity, anti immigrati.

Il secondo fattore di crisi è - scrive Ricolfi - il ritorno in grande stile del movimento anti casta, alimentato dalla catena di scandali e inchieste che, ancora una volta, colpiscono la politica italiana, coinvolgendo, soprattutto a livello di autonomie locali, il Pd. Tutto vero. Ma c’è di più: l’economia non va. Il Paese non si riprende. I dati sono impietosi. Raccontano un’altra storia, diversa dalle innumerevoli e spesso stucchevoli chiacchiere che inondano i media per propagandare i risultati dell’azione di Governo con discorsi alati, affermazioni roboanti, bellicosi propositi. Si parla tanto di un cerchio magico attorno al Premier, in realtà andrebbe definito un «cerchio tragico».

Il debito pubblico continua inesorabilmente a crescere, sia in assoluto sia in rapporto al prodotto interno lordo. I conti delle amministrazioni pubbliche non registrano alcun miglioramento. La spending review è lettera morta, al massimo è argomento di libri di successo come quello dell’ex Commissario Carlo Cottarelli. La produzione industriale è fluttuante con millimetrici stop and go. Lo spread dei titoli pubblici italiani è in aumento dall’inizio del 2015. I tempi di pagamento della Pubblica Amministrazione continuano a restare molto al di sopra dei trenta giorni.

Le specificità negative della crisi sono, nella zona euro, peggiori in Italia. Dal 2007 al 2014 secondo l’ultimo rapporto sullo stato sociale del professor Roberto Pizzuti, il prodotto interno che è rimasto sostanzialmente fermo in Europa, è diminuito in Italia di circa 9 punti; il tasso di disoccupazione è aumentato di 7 punti rispetto al 3,7 della media della zona euro; la produzione industriale si è ridotta di un quarto, tornando ai valori di quasi 30 anni fa. Gli indicatori della disuguaglianza sono peggiorati nella media europea; la riduzione della quota dei salari sul Pil è stata maggiore che nella media dell’Ue (-4,9 per cento contro il -3,0 per cento dal 1991 al 2013); il divario negativo della spesa sociale procapite è aumentato rispetto alla media europea.

C’è un decadimento della struttura produttiva. Basta pensare che a metà degli anni 90 il Pil procapite italiano era superiore a quello medio dei Paesi che poi sarebbero entrati nell’area Euro. Il sorpasso è avvenuto nel 1997. Il divario è cresciuto progressivamente e nel 2014 il dato medio europeo ha superato quello europeo del 15,6 per cento.

L’Europa è un grande problema. È molto diversa da quella immaginata e costruita da Monnet e da Delors. Avevamo pensato ad una Germania europea, ci troviamo un’Europa tedesca. I grandi partiti europei (quello socialista e quello popolare) non hanno nessuna incidenza. Organizzano solo iniziative generiche. Sono attivi nel turismo sociale e politico. Gli esponenti di maggior rilievo si sentono patrioti del proprio Paese e dei propri interessi. Le vicende della Grecia sono un test preciso. La Germania propone e dispone.

Viene da pensare, come ricordava Leonardo Sciascia nell’Affaire Moro, a quell’episodio della rivoluzione messicana che Martin Luis Guzman racconta nel suo libro «L’aquila e il serpente». Si tratta del generale rivoluzionario che, entrando da vincitore in un Paese, convoca cinque o sei notabili e a ciascuno impone di versare una data somma: tante migliaia di pesos al primo, tempo tre ore; il doppio al secondo a quattro ore; e così via aumentando per ognuno la somma e dilazionando il tempo: e pena l’impiccagione. Allo scadere delle tre ore il primo che si dichiara disperatamente povero, viene impiccato; ma tutti gli altri, anche prima che scada il termine a ciascuno assegnato, consegnano i pesos. Soddisfatto il generale vanta all’aiutante la bontà del sistema. «Ma il primo non ha pagato», osserva l’aiutante. Ed il generale: «Ma non aveva di che pagare, lo sapevo bene: appunto per questo mi serviva».

Ogni riferimento per le vicende di Grexit alla Merkel non è casuale ma sostanziale. Le tasse e la spesa pubblica devono scendere. Ma purtroppo avviene il contrario. Il sistema fiscale è in crisi. La riforma fiscale non riesce a decollare. Va avanti a passo di lumaca. Anzi si muove come i gamberi. La Pubblica Amministrazione nei rapporti con i cittadini si presenta con il volto della disorganizzazione e dell’arroganza. L’aumento delle tasse è inarrestabile a livello locale. Comuni e Regioni gareggiano tra di loro per aumentare le addizionali per coprire sprechi, malagestione e corruzione.

La semplificazione è una beffa, basta pensare alla farsa del nuovo 730 precompilato. La riforma del Catasto porta in molti casi al raddoppio delle tasse sulla casa, ai limiti dell’esproprio; il riordino dei giochi è condizionato dall’arroganza dei gestori e dei concessionari dietro la quale si mimetizzano e si nascondono forme pericolose di criminalità; l’amministrazione finanziaria è paralizzata nelle sue funzioni dalla sentenza della Corte costituzionale che ha annullato le funzioni della stragrande maggioranza dei dirigenti; la capacità di accertamento e di riscossione delle tasse e delle imposte è precipitata. Incombono minacciosi all’orizzonte i previsti tagli lineari alle deduzioni e alle detrazioni, l’aumento dell’IVA, l’aumento delle accise.

I dati del Jobs Act sono ancora indecifrabili. A maggio è rallentato l’aumento dei contratti a tempo indeterminato: hanno prevalso le trasformazioni. Dei 178 mila nuovi contratti, solo 31 mila sono fissi. Le attivazioni in particolare dei nuovi contratti a tempo indeterminato, sono solo 1.610 in più delle cessazioni. Siamo molto lontani dal recupero di quel milione di posti di lavoro distrutti in questi anni.

La disoccupazione stabile a maggio al 12,4 per cento, «dopo la crescita registrata a febbraio e a marzo e il calo di aprile». Lo comunica l’Istat. Il numero di disoccupati rimane sostanzialmente invariato su base mensile a 3 milioni 157 mila. «Nei dodici mesi il numero di disoccupati è diminuito dell’1,8 per cento (-59 mila) e il tasso di disoccupazione di 0,2 punti percentuali». A maggio, rileva l’Istat, dopo l’aumento del mese di aprile (+0,6 per cento), gli occupati diminuiscono dello 0,3 per cento (-63 mila) rispetto al mese precedente. Cala al 41,5 per cento il tasso di disoccupazione giovanile. L’Istat evidenza una diminuzione di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente. Ci sono 20 mila ragazzi in meno in cerca di lavoro. Anche per le donne il tasso di disoccupazione è in discesa al 12,7 per cento (0,2 punti in meno da aprile).

Il calo dell’occupazione di maggio coinvolge anche i più giovani: gli occupati 15-24enni diminuiscono del 2,8 per cento rispetto ad aprile (-26 mila). Il tasso di occupazione giovanile, pari al 15,0 per cento, diminuisce di 0,4 punti percentuali rispetto al mese precedente. Il numero di giovani disoccupati diminuisce su base mensile (-20 mila, pari a -3,1 per cento). L’incidenza dei giovani disoccupati tra 15 e 24 anni sul totale dei giovani della stessa classe di età è al 10,6 per cento (cioè poco più di un giovane su 10 è disoccupato), con una diminuzione nell’ultimo mese di 0,3 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, cioè la quota di giovani disoccupati sul totale di quelli attivi (occupati e disoccupati) è pari al 41,5 per cento, in calo di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente.

I dati del mercato del lavoro sono stati pubblicati dall’Istat anche per l’Eurozona, dove il tasso di disoccupazione si è attestato all’11,1 per cento a maggio, stabile rispetto ad aprile e in calo rispetto all’11,6 per cento di maggio 2014. L’Eurostat segnala che è il più basso registrato nella zona euro dal marzo 2012. Anche il tasso di disoccupazione dell’Unione a 28 è risultato stabile a maggio al 9,6 per cento rispetto ad aprile 2015, in calo dal 10,3 per cento di maggio 2014 (tasso più basso dal luglio 2011).

Gli ultimi provvedimenti del Jobs Act, ad eccezione di alcune limitate aperture sociali sui congedi parentali, sono deludenti e contraddittori. Si muovono in una logica punitiva nei confronti dei lavoratori e di mortificazione della loro professionalità. Come si può pretendere maggiore impegno e maggiore qualità nel lavoro se rimane la logica della precarietà, del demansionamento, del controllo del lavoro, della discrezionalità nei rapporti di lavoro.

Cambia la disciplina delle mansioni contenuta nell’articolo 2103 del codice civile, la cui attuale riformulazione risale allo Statuto dei lavoratori. Si punta su una maggiore flessibilità organizzativa, ampliando l’ambito entro cui il datore di lavoro può unilateralmente modificare le mansioni del lavoratore. In particolare, in caso di «modifica degli assetti organizzativi aziendali» che incide sulla posizione del lavoratore, il datore, unilateralmente, potrà assegnare al dipendente mansioni riconducibili al livello di inquadramento contrattuale immediatamente inferiore, fermi restando il livello stesso e il relativo trattamento economico, con la sola eccezione delle voci retributive legate a particolari modalità della precedente prestazione che non sono più presenti nella nuova mansione (ad esempio, il lavoro notturno e le trasferte).

Altra novità è che ulteriori ipotesi di assegnazione di mansioni inferiori possono essere previste dai contratti collettivi, stipulati quindi anche a livello aziendale o territoriale con le Rsa o le Rsu.

Si chiarisce anche la disciplina delle mansioni superiori: oggi in caso di assegnazione di fatto di mansioni superiori, il lavoratore acquisisce il livello superiore dopo tre mesi; d’ora in avanti il termine sarà quello fissato dai contratti collettivi o, in mancanza, sarà di sei mesi. Per i contratti a tempo determinato il superamento del limite del 20 per cento di utilizzo comporterà ora solo una sanzione amministrativa e non più una multa (come previsto dal testo originario); in sostanza invece di finire nelle tasche del dipendente, la somma andrà all’Erario per potenziare i servizi per l’occupazione. Il limite del 20 per cento sarà derogabile con i «contratti collettivi».

Irragionevoli sono le m­­­­­isure che, violando la privacy, permettono un controllo unilaterale e discrezionale dell’uso delle nuove tecnologie (iPad, computer, Iphon ecc.). Umilianti, infine, le misure che rivedono in peggio il collocamento degli invalidi e dei disabili. Lo Statuto ha 45 anni, li dimostra, il lavoro è cambiato, è ragionevole aggiornarlo, integrarlo, modificarlo. Bisogna però evitare di essere prigionieri di un sillogismo.

Umberto Romagnoli l’ha lucidamente esplicitato. «Premessa maggiore: lo Statuto chiuse un ciclo di lotte operaie di cui la storiografia parla come del secondo biennio rosso. Premessa minore: Il referente dello Statuto era la fabbrica fordista. Ergo, lo Statuto è un ferrovecchio. Il sillogismo è falso e la deduzione è che se ne ricava una sciocchezza, perché lo Statuto non ha mai legato la propria vitalità ad un modo di produrre storicamente determinato. Si riconnette invece a valori di carattere permanente e universale la cui vulnerabilità al contatto con le ragioni dell’impresa era simboleggiata dal fordismo, ma che vanno protetti indipendentemente dal variare nel tempo e nello spazio del modello dominante di produzione e organizzazione del lavoro. Pertanto la ragione vera della richiesta di rottamare lo Statuto bisogna cercarla altrove ed è questa: perduta la rappresentanza politica, il lavoro dispone soltanto di una rappresentanza rissosa e più debole di prima».

È un momento grave. L’alternativa non è la marea populista che monta in Italia contro l’Europa e contro gli immigrati. Il Governo deve passare ad una fase nuova. Dalla rottamazione alla ricostruzione. Non può continuare sulla strada solitaria delle riforme improvvisate e imposte senza nemmeno spiegarne i contenuti e senza valutare gli impatti sociali. Deve riaprire un dialogo con il Paese. Deve sollecitare, anzi pretendere, il confronto con i corpi intermedi. Non si tratta di riesumare la concertazione, nessuno vuole che il Paese sprofondi nel pantano dell’inconcludenza e della paralisi. Occorre, invece, definire un piano preciso per il rilancio del Sistema Italia, per riprendere la via dello sviluppo e per reagire al declino degli obiettivi sociali nelle strategie comunitarie.

È molto caustico Ricolfi con il suo invito al Governo di far sapere quale è la rotta della ripresa e dello sviluppo, e come va raddrizzata una nave che imbarca sempre più acqua: «Sul transatlantico Italia, ufficiali che rubano e passeggeri senza documenti sono senz’altro problemi seri, che devono essere affrontati senza girarci attorno. La vera emergenza è però laggiù, sotto coperta, dove continua ad entrare acqua e i motori non si decidono a ripartire».

In altri momenti nella storia del Paese hanno funzionato meccanismi e forme di dialogo sociale basate sullo scambio e sulla coerenza agli obiettivi. È avvenuto in tempi relativamente recenti, con l’accordo Scotti nel 1983, con l’accordo di San Valentino nel 1985, con l’accordo sulla politica dei redditi del 1993, con l’accordo Dini sulle pensioni del 1995. Va archiviata la politica dei fatti compiuti con continui decreti legge e con ripetuti voti di fiducia che espropriano il Parlamento dalle sue funzioni. Si verifica un incredibile paradosso: l’opposizione ormai la fa la Corte costituzionale (sblocco dei contratti, rivalutazione delle pensioni, annullamento degli incarichi dirigenziali, ecc.), la fanno gli organi della giustizia amministrativa, la fanno i singoli giudici (eclatante il sequestro del Cantiere di Monfalcone, come a suo tempo quello dell’Ilva).

È un’anomalia: il Governo deve riconoscere il ruolo delle forze economiche e sociali e delle professioni. Continuare ad ignorarle, anzi a provocarle, è poco saggio. È una spinta alla protesta e alla contestazione. L’Italia ha bisogno di forze e istituzioni che dialoghino, si confrontino, pratichino la solidarietà e la coesione. Un segnale viene dalle organizzazioni sindacali che stanno riprendendo tra di loro un confronto unitario capace di indicare nuove proposte adeguate ad un mondo profondamente mutato, spesso subordinato agli obiettivi del mercato e della finanza. Un segnale che va colto.

Carlo Cipolla, nel suo libretto «Le leggi fondamentali della stupidità umana», individua quattro categorie di persone: gli intelligenti, gli sprovveduti, gli stupidi e i banditi. Gli intelligenti fanno il proprio vantaggio e quello degli altri; gli sprovveduti danneggiano se stessi e avvantaggiano gli altri; gli stupidi danneggiano gli altri e se stessi; i banditi danneggiano gli altri per trarne vantaggio. Lo stupido è persino più pericoloso, socialmente, del bandito». Un invito, dopo tanti disastri in Italia, soprattutto con i Governi tecnici, a tornare a governare il Paese con intelligenza.

Tags: Luglio Agosto 2015 Giorgio Benvenuto

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa