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OPALE, IL MITO BRILLA ANCORA

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L'opale è una delle gemme più elusive del panorama di pietre, preziosi e dintorni. Si beffa da sempre di ogni tecnica di prospezione, alternando delusioni cocenti a colpacci milionari, campeggia nei listini di tutti i gioiellieri ma segue quotazioni a sé, fluttuanti e imprevedibili. Vive ed alimenta, ricambiandola, una mitologia di frontiera, in chiaroscuro ma con l’iride completo nel mezzo. Ha una storia tutta sua e vale la pena raccontarla oggi. È passato infatti un secolo esatto - così riportano le cronache, tra il faceto (ma non troppo), il serio e l’epico - da quando William Hutchison trovò qualche esemplare di opale nell’outback dell’Australia Meridionale.

Era un adolescente al seguito di una squadra di cercatori d’oro, niente pepite o pagliuzze quel giorno del 1915 ma un frammento di roccia dai colori cangianti. La voce si sparse in un attimo, più rapida di uno sciame di tweet. Zero click però, solo un manipolo di minatori improvvisati e animati a dar vita ad un villaggio minerario.


Quel posto esiste ancora, si chiama Coober Pedy e ci siamo andati. Il suo centesimo anniversario funge da incipit ed emblema per questo viaggio nel mondo dell’opale. «Nel primo anno arrivarono oltre trecento pionieri, una media di uno al giorno», sottolinea a Specchio Economico Stephen Staines, il sindaco. «Fu così per un po’ ma con i due conflitti mondiali e la depressione in mezzo il vero boom c’è stato solo negli anni Cinquanta, è esploso all’arrivo dei cosiddetti new Australians dall’Europa». La cittadina ha parecchi titoli per considerarsi la capitale mondiale dell’opale. Una coccarda, in verità, difficile da appuntare (o da togliere), proprio per la natura incerta dei giacimenti nel resto del pianeta.
È però riconosciuto che la maggior parte degli opali pregiati al mondo viene da quella zona e che Coober Pedy ne costituisce l’epicentro. L’Etiopia incalza, insieme alla Slovacchia e al Messico. «Sono tre paesi con giacimenti ricchi e promettenti», conferma Flavio Butini dell’Istituto Gemmologico Nazionale, che aggiunge: «il primato storico australiano non è per ora in discussione ma con l’opale non si sa mai». Torniamo dunque down under, ad una decina di ore di strada da Adelaide. Oggi Hutchison street, la strada principale di Coober Pedy, porta il nome del suo fondatore involontario e taglia in due questa località sui generis in cui vivono circa tremila persone: metà risiede in case «ordinarie» e l’altra metà dimora nei «dugout», abitazioni scavate nella roccia e con una temperatura costante di ventidue gradi (a volte fuori la colonnina di mercurio ne segna il doppio). Tutt’intorno ci sono centinaia di migliaia (sic) di pozzi, una costellazione di buchi larghi un metro e profondi una ventina. «Quindici anni fa si è calcolato che fossero oltre un milione. Tenendo conto che il numero non fa che aumentare, visto che quelli dismessi non vengono riempiti, oggi sono senz’altro molti di più», taglia corto Peter Lane, ispettore del Dipartimento di Risorse Minerarie. «Nessuno però è in grado di fornire una cifra».


Cosa si cerca là sotto? Un minerale amorfo, una sorta di quarzo ma con una percentuale d’acqua al suo interno. L’opale è irregolare ma ha un’anima fatta di pacchetti compattissimi di minuscole sfere di silice, allineate, che interagiscono con la luce in maniera sorprendente. Peso e grandezza, forma e taglio, lampi cromatici: sul valore di un opale incidono gli stessi fattori che valgono per quasi tutte le gemme. Il colore però fa la differenza (e complica le cose) perché sono la ricchezza ed il gioco complesso di tonalità ad essere maggiormente ricercati. Screziature articolate che sembrano tavolozze o galassie in miniatura sono l’eccellenza.


Più colori hanno più valgono. «Esatto», conferma Paolo Cesari, presidente di Assogemme. «Di altre pietre si apprezza in genere la prevalenza di un’unica tonalità, con l’opale è il contrario». Non tanto in Italia. «Da noi si preferisce combinare colori, in genere neutri o comunque definiti, di pietre diverse invece che avere a che fare con un pezzo unico in cui la natura ha già fatto tutto. A latitudini più nordiche e nel mondo anglosassone non è così, questione di gusti». E di superstizione. Renata Marcon, gemmologa di Federpreziosi, ha una teoria in merito: «La cattiva nomea dell’opale nel Belpaese è radicata, ha a che fare con la delicatezza estrema che si deve prestare nel maneggiare certi esemplari. Il loro contenuto di molecole d’acqua ne può alterare le caratteristiche, rendendo difficile lavorare una gemma che, anche in condizioni stabili, non è alla portata di un qualsiasi gioielliere. Molti nel tempo hanno preferito non rischiare di perdere un affare, magari dopo aver danneggiato un esemplare di valore». La gamma di tipologie di opali, estesissima, è il risultato delle infinite combinazioni di diversi parametri ed un rapido vademecum può servire ad orientarsi.


Limitandosi, si fa per dire, ai soli opali nobili più pregiati - escludendo quelli comuni, chiamati potch, e quelli bianchi - al vertice si trovano gli esemplari «di fuoco» (arancioni) e quelli con fondo nero, seguiti da quelli trasparenti. Gli opali solid (pezzi unici) sono naturalmente più ambiti delle doppiette (una sezione sottile di opale incollata ad una base nera) e delle triplette (una doppietta rivestita di materiale trasparente). C’è poi il fattore rarità, un capitolo a sé: «spiega molto, certo, ma non determina il valore in maniera automatica», chiarisce Marcon. «Ogni esemplare è davvero unico, si potrebbe parlare di rarità assoluta. Per l’opale certe tendenze e leggi di mercato vanno prese con riserva». Cesari chiosa: «questo ne accresce il fascino ma ne limita l’utilizzo industriale. Quale casa di gioielleria potrebbe lanciare una serie, anche limitatissima, se non ha idea di quante pietre simili riesce ad ottenere?».
Il carattere individuale si riverbera in tutti gli aspetti del «sistema-opale», a partire dai terreni di scavo. «Le aree di concessione che diamo a chi voglia tentare l’avventura estrattiva sono piccole, i tagli più comuni sono 50x50 metri e 50x100 metri». Peter Lane illustra le disposizione dell’Opal Mining Act in vigore da vent’anni. E prosegue: «le squadre sono composte di una o due persone, a volte tre». Niente grandi operatori, dunque, troppo aleatorio e poco efficiente l’impresa.


Le concessioni hanno del resto prezzi molto contenuti. «Qualche carta da firmare, un bollo e quattro pali da piantare per delimitare il proprio terreno. Tutto qui».  John e Sophia Provatidis, commercianti di origine greca, conoscono bene Coober Pedy e il mercato mondiale dell’opale. «È una pietra particolare, forse incatalogabile e parecchio aleatoria ma uno standard si potrebbe trovare. Potremmo tracciare un orizzonte comune di qualità e prezzi. E fare cartello, a vantaggio di tutti», esordisce Sophia. «Ma non succede, alla fine ognuno fa e pensa per sé». Coober Pedy compendia questo mondo frammentato e competitivo, tenuto però insieme da un collante di comunità che tutti ricordano con nostalgia. Greci, italiani e slavi erano la maggioranza. Vincenzo Crisa, siciliano di settant’anni, è arrivato a Coober Pedy nel 1979. «Non c’era nulla, niente acqua o elettricità. Le condizioni erano durissime ma si stava bene. Ogni gruppo etnico era coeso al suo interno e si integrava con gli altri. È arduo da comprendere, forse, ma era davvero così. Le difficoltà degli altri venivano prima dei problemi propri, oggi direi che è il contrario».


Mario Pagnon è un altro italiano, stessa età ma radici in Veneto e un vanto personale. Ha ideato e costruito il blower, una sorta di mega-aspirapolvere per la lavorazione dei materiali estratti. Rudimentale e geniale, è ancora usato. «Potrebbe essere un logo», sorride, «ma la gloria che m’interessa son la riconoscenza degli amici e qualche bell’opale per me e per i miei cari». Tutto pare così accordarsi con la mitologia di sudore e inventiva, sogni e speranze. Alla ricerca di un arcobaleno di silicio sotto ad un terreno infuocato. Che in Italia non decolla: le quotazioni vanno da qualche decina di euro al carato a diverse centinaia o migliaia per gli opali neri - ma «possono raggiungere cifre stellari per pezzi particolari, più dei diamanti», sottolinea Marcon. John Provatidis torna sulla geografia degli acquirenti: «Da voi ne ho sempre venduti pochi, qualche affare solo alla fiera di Vicenza ma sempre scambi ridotti. I mercati asiatici sono invece interessanti, col testimone che è passato dai giapponesi ai cinesi». E nel vecchio continente? «In Europa solo i tedeschi hanno soldi e interesse all’acquisto». Detto da un greco sembra una riedizione del derby Tsipras-Merkel. A quindicimila chilometri dal Partenone e da Francoforte.

 

Testo e foto di Federico Geremei

 

Tags: Luglio Agosto 2015 Federico Geremei

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