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Quale futuro per l’Italia (in questa europa)

ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Il futuro dell’Italia si costruisce in Europa. È difficile immaginare il contrario. Soprattutto da parte di chi vive e lavora in un Paese che fu tra i fondatori della Comunità Europea. Il problema è oggi capire quanto futuro ci sia per lo sviluppo di due realtà che - se non fanno molta attenzione alle loro mosse - rischiano di essere emarginate dalla scacchiera internazionale e di non essere più padrone di condizionarne il destino, come finora è accaduto.
Il ventunesimo secolo per il Vecchio Continente non è cominciato bene. La crisi proveniente dall’Atlantico l’ha tramortito e l’incapacità di superare una frammentazione quasi genetica rischia di mandare definitivamente in frantumi le speranze nate con il Manifesto di Ventotene per un’Europa libera e unita. I milioni di persone scese in piazza a Barcellona, le spinte xenofobe, le divisioni che caratterizzano le scelte di politica internazionale, preoccupano.
A queste condizioni, come l’Italia prima del Risorgimento, l’Europa di domani rischia di rimanere «un’espressione geografica». Occorre dar vita ad uno sforzo di riscatto analogo a quello profuso allora per superare l’impasse. Ma l’esempio, l’entusiasmo, la volontà di metterlo in atto devono giungere da chi ha le leve del potere. Sono gli uomini che si riuniscono a Bruxelles a dover mostrare per primi di crederci, convincendo con i fatti i trecento milioni di europei orfani di una vera Unione.
Mario Draghi, dal più alto scranno economico continentale, continua a lanciare messaggi di stimolo alla ricerca di unità: nell’ultimo ha sostenuto che all’Europa serve un «centro politico» e che ci vorrebbe un Tesoro unico per fronteggiare i nuovi rischi al ribasso delle prospettive di crescita e di inflazione. Il presidente della Banca Centrale Europea ha centrato il problema ed anche la sua possibile soluzione. L’Europa deve passare ad un sistema di condivisione della sovranità in istituzioni comuni.
Dotarsi di un organismo che possa prendere decisioni rilevanti sull’economia e sulle questioni finanziarie e con piena legittimità democratica è il minimo obiettivo da conseguire in tempi rapidi. La lista delle incombenze che avrebbe è decisiva. Dovrebbe ad esempio realizzare un’unione bancaria che tenga conto anche dei clienti attraverso un Fondo di garanzia dei depositi europeo. Oppure realizzare quell’armonizzazione fiscale senza cui la fiammella della crescita è destinata a spegnersi.
Lo «spettro del gambero» si aggira per l’Europa: tornare indietro sulla strada percorsa appare stavolta purtroppo per la prima volta possibile, benché inopinato. Lo rivelano i disaccordi sul fenomeno della migrazione, epocale e inarrestabile; il calo di credibilità registrato in seguito allo scandalo delle emissioni che ha interessato inizialmente la principale fabbrica di auto tedesca; il disgustoso film che in estate ha evidenziato la mancanza di indirizzi unitari nella gestione della crisi ellenica.
Questa frantumazione è ancor più preoccupante mentre da più parti si dà per scoppiata la Terza guerra mondiale; mentre, di fronte all’incalzante espansione dell’Isis, al tavolo delle superpotenze non siede mai un europeo in possesso di un mandato decisionale condiviso; mentre dagli Stati Uniti torna il numero uno della Cina con risultati per lui rassicuranti, ma che incorporano serie minacce a quel trattato di libero scambio tra le due sponde atlantiche preparato con cura per anni.
Quando i leader di colossi multinazionali del calibro di Microsoft, Boeing, Google, Facebook, Twitter, Walt Disney sono andati ad accogliere Xi Jinping, dando segnale esplicito che l’economia americana non intende trascurare il colosso orientale, è stato istintivo per noi europei confrontarci con la scarsità di peso specifico che abbiamo nelle trattative economiche intercontinentali. E capire che, se non si cambia impostazione, i prossimi anni ci vedranno condannati alla marginalità.
È arrivato per l’Europa il momento di mandare in soffitta la «schadenfreude», quel termine tedesco che si traduce con la locuzione «gioia malevola per la sfortuna altrui», emerso quando in molti Paesi europei, compreso il nostro, ci si compiaceva per l’incidente occorso alla Volkswagen, simbolo del Paese che per anni ha guidato la politica europea del rigore che, inevitabilmente, ha creato scontento e divisione tra Paesi ricchi e poveri del Vecchio Continente.
Si tratta di comprendere che da questa situazione si esce tutti insieme o non si esce. Lo tenga bene a mente l’Italia che pure deve giocare la propria parte. E non è detto che lo stia facendo sempre bene. Le dichiarazioni ottimistiche che sottolineano minimi progressi economici si scontrano infatti con l’evidenza imbarazzante dei molti ritardi accumulati. A volte il premier effettua dichiarazioni che paiono di facciata, come l’allenatore di una squadra in fondo alla classifica che elogia i propri ragazzi.
Non c’è alternativa però. Perché, se si vuole evitare di andare a fondo, qualcuno che mostri, almeno mostri, di crederci è indispensabile, per spingere tutti a rimboccarsi le maniche. A capitalizzare l’effetto Expo. A fare squadra. Ad aiutare il nostro Paese a recuperare il terreno perduto per poi affrontare insieme a tutti gli europei, dai tedeschi ai danesi, gli effetti di quel caso automobilistico, ormai plurimarche, che potrebbe trasformarsi nella Lehman Brothers d’Europa.
Non c’è tempo da perdere. I cinesi hanno firmato quel Bilateral Investment Treaty che potrebbe oscurare le ricadute del TTIP, il partenariato in corso di negoziato dal 2013 tra Ue e Usa, con l’obiettivo di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in vari settori le differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di omologazione, standard applicati ai prodotti, regole sanitarie e fitosanitarie per liberare la circolazione delle merci e facilitare il flusso degli investimenti. In questo quadro l’Italia avrebbe tutte le carte in regola per giocare le proprie partite tra le grandi della classifica, ma per trascuratezza, o meglio per mancanza di capacità di assunzione di responsabilità - sia da parte di chi ha le leve del potere sia da parte del singolo cittadino - rischia di commettere errori ad ogni tappa del proprio cammino e di finire miseramente in coda al «campionato economico e produttivo» dietro tutte le principali concorrenti.
Due fronti devono essere posti al centro di un’immediata strategia di recupero. Il primo è quello di un recupero di competitività «di sistema». Il jobs act non deve restare esperimento isolato, ma diventare parte di una strategia. Ci sentiamo di sostenerlo con l’esperienza di chi lavora da anni, sostenendo sul fronte fiscale e finanziario gli imprenditori italiani che non si rassegnano alla crisi ma esplorano nuovi mercati, sia sul piano della produzione che su quello dell’export.
Delocalizzare, in Albania come in Spagna, dovunque si trovino condizioni fiscali e produttive migliori, è cura dolorosa, lo sappiamo bene, ma necessaria per evitare che il paziente-impresa muoia. Quando l’impresa italiana è costretta a competere con colossi stranieri pur avendo ridotte dimensioni, soffre. E se è lasciata priva di una serie di servizi, di una diplomazia mirata alla proiezione internazionale del sistema Paese, inevitabilmente muore. E noi non dobbiamo permetterlo.
La parola chiave al riguardo è sinergia. L’Ice per assistere gli operatori; la Sace per assicurare i crediti all’export; la Simest per sostenere gli investimenti; le Camere di commercio estere e la Ambasciate dovrebbero muoversi insieme. Questo purtroppo accade con scarsa continuità. Né da parte delle imprese maggiori, come Fiat ed Eni, c’è voglia di trainare le imprese minori facendo squadra. Così queste ultime restano sole e il mito del «piccolo è bello» sul mercato globale crolla. Se l’impresa minore non vuole chiudere o finire acquistata, adotta necessariamente terapie d’emergenza. Per un periodo produce all’estero, magari pagando il 15 per cento di tasse anziché il 55 previsto in Italia. Recuperata la propria competitività e stabilito che l’esperienza della delocalizzazione ha prodotto i propri frutti, rientra. Il che sta accadendo sempre più spesso. A quel punto la strategia di sostegno che, come studio professionale, noi promuoviamo si trasforma di nuovo. Punta a favorire sinergie di sistema.
Ma tutto questo è destinato a breve vita se non si segue il secondo fronte, quello del «recupero della libertà dal bisogno», che per il nostro sistema Paese significa riduzione del peso del debito pubblico e del suo servizio. Qualcuno, autorevolmente, nei giorni scorsi ha spiegato che un’uscita dall’euro potrebbe giocare a favore di tale obiettivo. Ciò perché dimezzare in 20 anni il debito dal 138 al 60 per cento del prodotto interno, come vorrebbe il Fiscal compact, richiederebbe una crescita annua del 5 o una riduzione del debito del 3 per cento.
Essendo ambedue questi obiettivi fuori portata, si ipotizza l’uscita dall’eurozona. In realtà esistono anche altre strade per dimezzare il debito, e quindi per restare nell’Uem. Una è proposta dal prof. Paolo Savona, incentrata sulla creazione di strumenti finanziari capaci di valorizzare l’asset rappresentato dal patrimonio pubblico immobiliare. L’altra dal prof. Giuliano Amato, fondata sulla logica del rientro dei capitali e dell’allungamento delle scadenze di rimborso dei BTP. Ma non è tanto un problema di ricette quanto di atteggiamento culturale. Nel Rapporto Eurispes 2015, il presidente dell’Istituto Gian Maria Fara, nel paragrafo «Come se ne esce» afferma che le ipotesi sono tre: quella «conservatrice-neoliberista» secondo cui va bene così e il mercato è la medicina giusta; quella «apocalittico-nichilista» secondo cui va cercato un mix di rinnovamento e conservazione con riforme radicali congiunte alla valorizzazione di eredità positive; la terza è - parafrasando Albert Einstein - non risolvere i problemi con il modo di pensare che li ha determinati.
Noi crediamo che questo sia possibile. Qualcosa si è cominciato a fare, molto resta in agenda. Rompere l’oligarchia di partiti e sindacati, neutralizzare i conflitti di interesse, disarmare le lobby, favorire il ricambio della classe dirigente, impedire che governino gli inetti, annullare i privilegi della nascita, rifondare l’università sul merito, garantire l’equità dei concorsi, dare voce alle minoranze, promuovere il controllo democratico, suggerisce il costituzionalista Michele Ainis nel proprio volume «La cura». Sembra un programma giacobino e sposarlo in modo acritico risulta davvero difficile. Eppure concetti di questo tipo li ritroviamo nei pregevoli lavori di Giulio Tremonti «Uscita di sicurezza» e nel testo «Io siamo» scritto da Corrado Passera per spiegare a tutti i propositi del movimento politico da lui lanciato. Certamente, viene spontaneo concludere, è difficile ipotizzare che senza trasformarsi culturalmente l’Italia possa uscire dal cul de sac in cui si è cacciata.
Ma qualcosa di nuovo sta già accadendo. L’indice di fiducia di consumatori e imprese segnalato in crescita dall’Istat che ha divulgato i dati in concomitanza con l’arrivo dell’autunno - passato da 80,2 del 2012 a 75,8 del 2013 per risalire a 96,2 a gennaio 2014 e attestarsi a settembre 2015 a 106,2, ossia ai massimi dal 2007 - fa pensare che il pessimismo di questi ultimi anni stia stancando l’opinione pubblica. Negli anni di crisi le famiglie italiane hanno ripreso a risparmiare: hanno adottato la sharing economy, la condivisione dei servizi, la cosiddetta decrescita serena, il consumo a chilometro zero; e per il lavoro, in presenza di tassi di disoccupazione divenuti insostenibili, gli italiani hanno rivalutato l’autoimpiego oppure scelto l’emigrazione.
 Le imprese più previdenti hanno ristrutturato impianti e riorganizzato il lavoro. Se qualche risultato positivo è stato ottenuto, se i mutui concessi cominciano a crescere, se si è stabilizzato qualche posto di lavoro, se le vendite di beni durevoli riprendono, un colpo d’acceleratore non farà spegnere il motore partito con molti colpi di tosse. Ora spetta allo Stato dare il giusto riconoscimento a questi atti di buona volontà, a questi esempi virtuosi: deve accelerare le riforme e riportarci a testa alta in un’Europa che speriamo funzioni.   

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