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La «febbre» del Teatro, tra le piu' pericolose...

Bruno Piattelli, imprenditore del settore dell’Alta Moda

La febbre del Teatro è una delle più pericolose che conosca. Anche quando sembra si sia chetata ti dà sempre dei disturbi. Vivrei in una sala teatrale; non si pensi a un teatrino di corte, raccolto, sfizioso, per pochi eletti. No, in un grande, anche grandissimo anfiteatro con tutto ciò che c’è di rigore, nulla escluso. Anzi lo spazio è un debole cui sono portato da sempre e, non a caso, ma per fortuna, ho sempre vissuto e lavorato in larghe superfici e metro quadrature. Mi eccita, mi spinge ad immaginare, a produrre mentalmente e credo di essermi spiegato il perché. Sono un metodico pignolo, prima di tutto con me stesso, quindi prima di cominciare un lavoro «debbo» mettere in ordine tutto ciò che mi circonda e, poiché normalmente sono sempre contornato da files, libri, giornali, appunti, diari da me allestiti, foglietti volanti e così via, ho bisogno di spazio per distendere tutto, organizzare, mettere al proprio posto e poi finalmente partire. Ma il teatro cosa c’entra?
È anch’esso un lavoro cui dare inizio e svolgere. Allora le scene con le attrezzature tecniche, i costumi, i copioni, strumenti musicali di accompagnamento, se occorrono gli attori; sì, anche gli attori, da mettere in ordine uno dopo l’altro secondo la supponibile entrata in scena, tutto va ad occupare lo spazio ove poi dovrà andare il pubblico; ovviamente tutto nella mia testa. Sta di fatto che, entrando in sala, non dico poi sulle tavole, all’inizio di ogni prova di lavori che seguo, mi sento come immagino si senta un ubriaco alla guida di un’auto, con la differenza che sono al massimo della mia produttività. Tutto mentre rumino sul come facciano gli attori a ripetersi ogni sera e per tempo alcune volte auguratamente lungo.
Ecco, è una delle contraddizioni rispetto al mio assorbire, invece, il profumo del palcoscenico come una droga che produca al massimo attenzione e sensibilità. Avverto subito dei fuori tono, o sbilanciamenti che riflettano la recitazione o la posizione, opportunità dei costumi a parte e, poichè ho avuto ed ho rapporti amichevoli con i registi, non mi sono mai ritenuto dall’esprimere le mie considerazioni. Il fatto è che, nato in una famiglia di amanti e fanatici del teatro in tutte le sue manifestazioni, e da genitori cui mi accompagnavo fin da piccolo, il germe ha generato secondo logica. Per di più, l’attività di mio padre si svolgeva in Via Nazionale e tutti gli attori erano suoi clienti ed io facevo spesso il fattorino portando l’ordinato nelle celeberrime stanze del Teatro Eliseo. Immaginatemi tra i fratelli De Filippo che, scene da riprese cinematografiche, cucinavano in loco; poi c’erano Renzo Ricci, Gino Cervi e Andreina Pagnani, Rina Morelli e Paolo Stoppa; questi ultimi vi vivevano. Poi arrivarono i «Giovani», era già un’altra epoca ma io avevo raccolto lo scettro di mio padre e di essi, non tralasciando nessuna delle glorie del suo tempo, con le quali pure collaborai. In molte occasioni divenni sodale e complice per tutta la mia carriera.
Venne a Roma un grande amico, Giulio Coltellacci, cioè Cecilio Madanes, che era direttore del celeberrimo Teatro «Colon» di Buenos Aires. Cominciò a guardarsi intorno, era sempre affascinato da Roma, e pensò di poter mettere in scena un’opera all’aperto. Cominciammo a scorrere, ma naturalmente il dente... e arrivammo a Calderon de la Barca.           Ma dove? Ma con chi? Avevo in testa da sempre la scalinata al Gianicolo, che dal Piazzale del Fontanone scende a Via Garibaldi poggiando sulle mura dell’Ambasciata di Spagna. Non a caso la considero una perfetta galleria, in giusta pendenza, per poi troncarla a mezza via fissandoci il palcoscenico. I romani non la usano molto, e per qualche sera d’estate si sarebbe potuto sottrarre al pubblico servizio. Le solite pratiche burocratiche e avemmo il permesso.
Poi, considerati anche la stagione e il tempo ravvicinato, avemmo il problema  della Compagnia. Non ebbi esitazione a suggerire la Daria Nicolodi che mi sembrava opportuna, se non perfetta. Daria, figlia della mia compagna di scuola Furia  Casella e compagna all’epoca di Mario Ceroli, assolse benissimo il ruolo e l’edizione della «Vida es sueño» fu ottima. Cecilio continuava a chiedermi: «Ma come l’hai pescata Daria, perché sapevi che andava bene?». A naso di teatrante basta poco per capire.
Perché il Teatro? Le definizioni del significato etico, estetico, morale, rappresentazione della vita, sogni irrealizzabili nella vita, riferimento catartico della parola, la scuola greca e quella romana, e poi il Teatro del Rinascimento, e poi quello francese e quello tedesco          e quello russo, poi quello americano del nord, non dimentichiamo quello giapponese. Se non tutto, tanto è stato detto e niente di definibile. «Intelligente» per me, ma non definitiva, la battuta di Eduardo De Filippo: «Gli attori recitano bene, sul palcoscenico, quello che la gente recita male in strada». Ciascuno sente e cerca di dare una spiegazione al perché l’uomo ha sempre sentito il bisogno di rappresentare la vita e l’immaginifico, il quotidiano e il mondo degli dei.
È un conforto o un confronto con noi stessi. La letteratura non è mai stata sufficiente a rispondere evidentemente. D’altro canto, facciamo ancora un passo: la poesia non è la ricerca del superamento e dell’uno e dell’altra? È il fascino del non riuscire a tradurre questi valori che ce li fa sostenere e difendere. E per me il fascino per il contenitore dove ogni sera si cerca di esaltarli, lo amo anche di giorno, dove e quando si esercita il mestiere che lo fa vivere.    

Tags: Novembre 2015

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