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Quali canoni di prudenza e diligenza per i manager?

Lucio Ghia

Alcuni attenti lettori di Specchio Economico mi segnalano che nel numero di novembre non ho completato l’annunciata analisi sul comportamento corretto del «buon amministratore» durante la crisi dell’impresa. Lo faccio di buon grado ringraziando per l’attenzione riservata ai miei scritti.
Per un migliore inquadramento del tema va premessa una breve sintesi sui sintomi e sulle cause delle crisi che si manifestano con maggiore frequenza. La riduzione strutturale della domanda: se il mercato diventa asfittico relativamente al bene prodotto, l’amministratore deve prendere immediati provvedimenti; così in presenza di tensioni finanziarie per mancato incasso di crediti e, quindi, per le cosiddette «tensioni finanziarie sul circolante». L’indebitamento eccessivo, ovvero non più sostenibile in relazione agli incassi, come gli investimenti in capacità produttiva in eccesso rispetto alla domanda. L’eccessiva concentrazione della clientela che, in caso di difficoltà dei clienti, genera un «effetto domino negativo», ovvero l’errato mix di prodotti. L’errata gestione delle risorse umane. L’interruzione delle forniture strategiche.
Costituiscono tutti i citati segnali di allarme di crisi dell’impresa, che impongono una severa autocritica rispetto alle scelte effettuate, che non tutti gli amministratori riescono a compiere con la dovuta profondità. È molto difficile, infatti, che l’imprenditore storico, alla guida della propria impresa da anni, ammetta di aver sbagliato e di continuare a sbagliare. Il «buon amministratore» dovrebbe immediatamente, al primo insorgere dei sintomi di una crisi grave, convocare l’assemblea dei soci, ovvero la proprietà: per fornire una completa e trasparente informativa e per ogni più opportuna determinazione da parte dell’organo sovrano della società. La tempestiva convocazione della proprietà, ovvero dei soci, una corretta informativa, in particolare la motivata richiesta di un aumento di capitale, costituisce una buona esimente rispetto alle responsabilità dell’amministratore nel caso di successivo fallimento della società. Di tali assemblee e del contenuto dell’iniziativa sarà necessario conservare idonea documentazione a futura memoria. Queste iniziative spesso sono frenate dal timore che le banche finanziatrici possano ridurre, o chiedere il «rientro» delle esposizioni, proprio quando vi sarebbe più bisogno di credito.
Lo stesso potrebbe avvenire con i fornitori, che potrebbero non concedere le ordinarie dilazioni dei pagamenti delle stesse e pretendere pagamenti immediati, o ancora con i dipendenti più qualificati che potrebbero collocarsi altrove. Ecco quindi che una costante in tutte le dichiarazioni di fallimento diviene proprio l’anzianità dello stato di crisi. Secondo un recente studio dell’Università Bocconi in tema di accordi di ristrutturazione dei debiti, presentata in questi giorni, le situazioni di crisi datano almeno due anni prima mentre, secondo lo score 4 di Cerved, la maggioranza delle società presenta pesanti squilibri ed elevato rischio di insolvenza già a partire da 5 anni, (antecedenti la dichiarazione di fallimento).
Supportati dalla legislazione attuale, favorevole al risanamento delle imprese in crisi, il consiglio di amministrazione o gli amministratori che constatano l’insorgere di gravi difficoltà, preso atto dei fenomeni e dei sintomi negativi in precedenza indicati, dovrebbero rimettere all’assemblea i loro mandati affinché i soci di fronte a questi segnali ed all’evidenza di tali criticità, possano intervenire con prontezza e nominare ad esempio amministratori indipendenti, ovvero che non rispondano agli interessi di quel determinato gruppo di soci, o di creditori, o di clienti dominanti.
Questo nel nostro Paese è molto difficile che avvenga poiché siamo condizionati da una cultura dura da rinnovare. Inoltre il contesto è complicato dalla scarsità degli indispensabili protagonisti, davvero in grado di far suonare tempestivamente l’allarme sulle condizioni critiche della società e dell’impresa. Le società di revisione dei bilanci sono poche e sono sempre le stesse, così gli «advisors finanziari», mentre gli esperti di risanamento nostrani non presentano né i numeri né le specificità dei quali si avrebbe bisogno. Il «chief restructuring officer» è una figura da noi ancora semi sconosciuta e quindi non apprezzata come meriterebbe nello scenario delle crisi di imprese italiane.
L’ex presidente del Monte dei Paschi di Siena Alessandro Profumo ed il «chief restructuring» Alessandro Decio hanno affrontato il tema in un interessante tavola rotonda organizzata dalla Turnaround Management Association l’8 ottobre scorso presso la Casa Ferrarini di Milano. L’associazione, voluta dalla Banca Mondiale e presente in tutti i Paesi più industrializzati, comincia a fare «cultura specifica» anche in Italia: è indispensabile formare e specializzare ulteriormente i manager esperti nei vari settori interessati dalle crisi delle imprese e costituire un contesto strutturato e gestito in modo qualificato, indipendente e tempestivo, aggredendo immediatamente, con misure sperimentate e idonee, i segnali di crisi. Infatti, il trascorrere del tempo che purtroppo aggrava queste situazioni, costituisce una costante antecedente all’emersione della crisi, spesso irreversibile.
Ma a quali canoni di prudenza e diligenza, secondo la dottrina anche internazionale e la giurisprudenza più attuali, devono ispirarsi le condotte degli amministratori avveduti specie se indipendenti, chiamati ad occuparsi della crisi? Secondo prassi consolidate, per ridurre l’indebitamento e reperire nuova liquidità la prima area che viene aggredita è quella della cessione di asset immobiliari specie se non strategici. Anche se la situazione del mercato di riferimento non è delle migliori, questa resta una manovra straordinaria da realizzarsi nel rispetto della massima trasparenza, e del «beauty contest» per la valorizzazione migliore dell’asset, che può essere trasferito anche attraverso un’operazione di «sale e leasing back» (vendita e affitto del bene allo stesso venditore).
Segue la cessione di partecipazioni non strategiche, quindi lo smobilizzo di crediti, la cessione del magazzino eccedente, la cessione di rami d’azienda, o il loro affitto a terzi, la cessione o la concessione di licenze d’uso di asset intangibili, cioè marchi, brevetti, ecc.
Anche relativamente a questo tipo di operazioni il «buon amministratore» nel periodo di crisi deve essere estremamente attento ad ottenere controvalori adeguati, accertati come tali da tecnici indipendenti. Al riguardo, una delle regole a livello internazionale da osservare è costituita dall’informazione continua e documentata dei soci, anche se si tratta di attività che rientrano nei poteri dell’amministratore. Analoga attenzione dovrà essere riservata ai creditori strategici, specialmente a quelli bancari, che se non previamente informati potrebbero in tali vendite individuare solo l’indebolimento delle garanzie che l’art. 2740 del Codice civile assicura ai loro crediti.
D’altro canto la realtà in questo tipo di rapporti è estremamente brutale, l’amministratore che ha alienato nel periodo prefallimentare un asset deve evitare di essere considerato autore di un disegno aggressivo nei confronti delle ragioni dei creditori; la giurisprudenza consolidata assegna un valore esimente da responsabilità alle comunicazioni preventive ed alle perizie di tecnici, ma soprattutto alla chiarezza circa l’utilizzo della liquidità derivante da tali operazioni di dismissione. Questa capacità informativa e la sua documentazione costituiscono il corretto perimetro nel quale deve muoversi il «buon amministratore», perché tutte le operazioni realizzate nel periodo sospetto si prestano a essere revocate in sede fallimentare. La revocatoria, infatti, costituisce una potente leva che il curatore ha a disposizione ed è quasi sempre correlata all’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori.
Vanno altresì tenuti presenti ulteriori specifici interventi economico-finanziari che vanno presi in considerazione; per esempio, la conversione di debiti in capitale, manovra sponsorizzata anche dal punto di vista normativo. Certo non è facile trovare chi sia disponibile a convertire il proprio credito in «equity» di una società che attraversa un periodo di crisi, ma spesso per il creditore è preferibile avere una partecipazione al capitale di una società in crisi che non trovarsi di fronte ad un fallimento ed attendere per molti anni la percentuale di soddisfazione del 7-8 per cento che costituisce la media del pagamento ai creditori chirografari in sede fallimentare.
Certamente il buon amministratore dovrà considerare anche i vantaggi offerti dall’attuale normativa fallimentare che, supportando il salvataggio dell’impresa, spinge gli imprenditori, e quindi gli amministratori, a far emergere la crisi prima possibile per evitare che, aggravandosi, diventi irreversibile. Questo «life jacket» relativo alla salvezza dell’impresa ancora in grado di creare valore, è tangibilmente presente nelle maglie della nuova normativa concorsuale italiana. Ne costituiscono alcuni importanti esempi il riconoscimento della prededuzione, che consente il pagamento prima di ogni altro creditore, ai nuovi finanziamenti anche se effettuati dai soci, purché strumentali al risanamento, secondo il piano attestato da un esperto indipendente; ovvero la possibilità di chiedere al giudice delegato, che può adottare anche un provvedimento d’urgenza, che le linee di credito di cui l’impresa godeva antecedentemente all’ammissione alla procedura vengano ripristinate per la continuazione dell’attività di impresa.
In questo quadro, complesso quanto in divenire ed in notevole trasformazione, emerge un’area che la giurisprudenza non ha ancora chiarito a proposito della differenza di trattamento riservata a coloro che hanno gestito la società antecedentemente alla crisi e i nuovi amministratori indipendenti nominati per risanare la società. Questi ultimi non hanno responsabilità per la gestione precedente, ma devono misurare la gravità della situazione per decidere se la società, o meglio l’impresa, può essere salvata, o debba essere liquidata attraverso una procedura fallimentare.
I nuovi amministratori vanno difesi ed incoraggiati a prendere il timone delle imprese in crisi. Su questo versante la giurisprudenza deve creare le necessarie certezze per incentivare l’ingresso di professionalità competenti quanto indipendenti. I bilanci approvati, specie se certificati da società di certificazione, costituiscono il primo essenziale strumento per i nuovi amministratori, di valutazione delle condizioni della società. Il «buon amministratore» deve poter fare affidamento sui dati di bilancio, oppure secondo la giurisprudenza più ricorrente deve accertare la realtà della situazione con mezzi propri, con l’aiuto di advisor e revisori diversi dai precedenti? Quanto tempo ha a disposizione, prima di decidere se l’impresa può essere risanata?
Ebbene non mancano casi in cui neo amministratori indipendenti, dopo un certo periodo di tempo resisi conto della realtà della situazione, hanno portato i libri in tribunale e sono stati condannati perché giudicati corresponsabili del dissesto causato dagli amministratori precedenti. Supportiamo l’auspicio che la giurisprudenza della Suprema Corte, di fronte alla complessità di situazioni di crisi che spesso affondano le loro radici in conduzioni pluriennali, chiarisca, quanto prima, a favore degli amministratori, specie se nuovi, rispetto ai precedenti, che il livello di diligenza professionale loro richiesto va misurato anche alla luce di tempi tecnici di approfondimento effettivamente avuti a disposizione.
Specie oggi l’amministratore non può essere onnisciente, la vita di ogni impresa è sempre più complessa. Gli strumenti di conoscenza personale spesso non consentono di decifrare nelle pieghe di bilanci per lo più traslatizi, consolidati e certificati, i «buchi neri», spesso accuratamente nascosti. Il metterli in evidenza, il prendere consapevolezza della loro insanabile gravità e, accorgendosi di questo, convocare i soci e se del caso «portare i libri in tribunale» costituisce un percorso per il neo amministratore, irto di difficoltà e di ostacoli da superare.
C’è però una luce che rischiara questo percorso: una sentenza del Tribunale di Milano di un paio di anni fa affronta il tema del tempo necessario al neoamministratore per rendersi conto della realtà della situazione di crisi dell’impresa. Nella specie si trattava di nuovi amministratori che avevano richiesto l’ammissione ad una procedura di risanamento, ma dopo un anno e più, resisi conto della realtà della situazione, avevano presentato un’istanza di fallimento. Il Tribunale di Milano nella causa promossa contro di loro dal curatore fallimentare, ha considerato che i 15 mesi intercorsi tra la presentazione della domanda di concordato e l’istanza di fallimento presentata successivamente costituisse un termine da considerare congruo, in quanto anche se la perdita integrale del capitale sociale rappresentava un dato del quale gli amministratori potevano rendersi conto immediatamente, l’esistenza di bilanci certificati imponeva indagini approfondite che esigevano almeno un anno di tempo. Ma il tempo finisce per aggravare anche la situazione dell’amministratore che abbia ben agito attivando tempestivamente la prima procedura concorsuale.
Come si vede il cammino da percorrere per rispondere unitariamente, con tutte le forze in campo, alla crisi dell’impresa, è ancora lungo. Ma è cominciato.   

Tags: Dicembre 2015

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