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Ennesima crisi bancaria: errori da evitare, opportunità da cogliere

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

Matteo Renzi sulla propria scrivania a Palazzo Chigi dovrebbe mettere, come fece il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman nel 1948, una targa con la scritta «The buck stops here» (il barile si ferma qui). Non è possibile, non è accettabile assistere allo scaricabarile tra Autorità di vigilanza, Ministero dell’Economia, Parlamento, organizzazioni del credito, stampa, sull’ennesimo scandalo che investe il mondo bancario.
Dopo la vicenda dei bond argentini, della Parmalat, del Monte dei Paschi, si è riproposta in queste settimane la vicenda del decreto salvabanche per evitare il fallimento della Banca Marche, della Banca Etruria, della Cari Ferrara e della Cari Chieti. Alla Giornata del Risparmio alla fine di ottobre il ministro dell’Economia e delle Finanze Pier Carlo Padoan twittava che non c’era nulla da temere, che il sistema del credito era sicuro, che da noi le banche erano tra le più solide in Europa. Non era così. Forse non era una bugia, ma era comunque un clamoroso errore di valutazione.
La legge di stabilità orgogliosamente predisposta per diminuire le tasse mette, assieme a una serie di microbonus, microincentivi fiscali ed economici (c’è persino un bonus di 500 euro per i diciottenni per andare a teatro) un provvedimento che tocca le tasche degli italiani, in particolare dei risparmiatori che dovranno rimediare agli errori di gestione commessi dagli amministratori delle quattro banche in crisi e far fronte alla incapacità delle autorità di vigilanza.
È penoso assistere alla gara tra Bankitalia e Consob per vedere di chi è la colpa di aver vigilato peggio. È fuori tempo massimo l’indignazione con l’Europa che ha invece varato, con il voto di tutti i parlamentari italiani, le misure capestro sulla trasparenza dei conti bancari. Quattro banche sono fallite. Ecco i perché. Il 22 novembre molti risparmiatori di quelle banche hanno perso tutti i loro soldi come conseguenza di un apposito decreto del Governo. È stato deciso per legge di salvare le quattro banche per tutelare in generale tutti i risparmi e per mantenere i posti di lavoro dei dipendenti. Gli istituti sono stati fatti rinascere dalle loro ceneri salvando la parte sana che è stata scissa da quella malata. Molti cittadini hanno perso i propri soldi perché, a differenza degli anni passati, i salvataggi di Stato sono esplicitamente vietati da una norma europea.
I fallimenti delle quattro banche non sono stati un fulmine a ciel sereno. La Banca d’Italia aveva destituito da tempo gli amministratori delle quattro banche nominando commissari straordinari. La Cassa di risparmio di Ferrara lo era dal maggio 2013, la Banca delle Marche dall’ottobre 2013, la Cassa di risparmio di Chieti dal settembre 2014, la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio dal febbraio del 2015. Molti piccoli risparmiatori avevano già visto una parte del loro gruzzolo trasformarsi gradualmente in carta straccia. Il valore di Borsa delle obbligazioni è sceso man mano che sono venute alla luce le malefatte degli amministratori revocati. Per quelle trattate in Borsa le quotazioni sono precipitate.  
Gli organi di vigilanza hanno dimostrato la loro inadeguatezza. Così come sono, è amaro ammetterlo, sono impotenti. Gli amministratori delle banche fallite hanno avuto la possibilità di agire male per anni e anni. A livello politico si è preferito aspettare e sperare che i problemi si risolvessero da sé. Le autorità di controllo sostengono di aver fatto la propria parte, di aver svolto scrupolosamente il proprio dovere, ma la loro azione di vigilanza ha portato al disastro con la complicità della politica. La Banca d’Italia e la Consob potevano certamente fare di più. Non l’hanno fatto. Non ci sono responsabilità personali ma è stata messa seriamente in dubbio l’utilità delle due istituzioni.
Il primo gennaio 2016 entrerà in vigore il «bail in». Al Parlamento europeo sinistra e destra l’hanno votato, e persino la Lega si è astenuta. Chi l’ha votato dovrebbe spiegare perché il «bail in» è meglio del «bail out». È meglio perché nei fallimenti bancari il «bail in» separa i soldi pubblici dei contribuenti dal doversi far carico di sanare le banche, accollandone l’onere alle banche stesse: cioè in primis agli azionisti, e poi per gradi diversi in primis gli obbligazionisti subordinati, poi quelli ordinari, e infine quando e solo se veramente necessario fino ai depositanti, per le somme superiori ai 100 mila euro. Ci si è arrivati perché sino al 2013 molti Paesi europei hanno fatto invece massicciamente uso di finanza pubblica.
In particolare, alla fine del 2014 gli aiuti di Stato concessi alle banche ammontavano a 238 miliardi di euro in Germania (8,2 per cento del Pil), a 52 miliardi in Spagna (5 per cento), a 42 miliardi in Irlanda (22,6 per cento), a 40 miliardi in Grecia (22,2 per cento), a 36 miliardi nei Paesi Bassi (5,5 per cento), a 28 miliardi in Austria (8,4 per cento), a 19 miliardi sia in Portogallo (11,0 per cento) sia in Belgio (4,6 per cento). A quella stessa data era di appena un miliardo il sostegno pubblico in Italia. È stato autorevolmente ricordato da Oscar Giannino che l’Italia è il Paese Ocse con la più alta percentuale di obbligazioni bancarie nel portafoglio delle famiglie. Nella sua ultima relazione annuale la Consob ha indicato l’evoluzione anno per anno: la raccolta diretta bancaria è scesa da oltre 1.500 miliardi nel 2009, di cui circa 900 miliardi fatta da depositi e oltre 500 miliardi di obbligazioni, fino a ridursi intorno ai 1.430 miliardi a fine 2013 con oltre 350 miliardi di obbligazioni. Se passiamo dal totale delle obbligazioni vendute dalle banche a quelle bancarie in senso stretto, quelle piazzate dalle banche a clienti retail hanno sempre rappresentato da 4 a 5 volte l’ammontare di emissioni annue piazzate a investitori istituzionali: per esempio nel 2014 92,4 miliardi al retail e 25 miliardi agli istituzionali, nel 2013 113 miliardi al retail a 22 miliardi agli istituzionali; nel 2011 addirittura 189 miliardi al retail e 26,5 miliardi agli istituzionali.
Se parliamo delle obbligazioni subordinate che sono interessate al «bail in», la stima più aggiornata di quelle circolanti oggi emesse dalle banche italiane risale a poche settimane fa. Si tratta di 286 titoli di cui 141 non quotati, per una raccolta di 71,25 miliardi (13,3 dei quali per bond non scambiati in Borsa). Oltre alle 4 banche «fallite» solo tra Veneto Banca e Popolare di Vicenza si tratta di oltre 1,6 miliardi, e di oltre 6 miliardi invece per la sola MPS.
La direttiva europea, chiamata del «bail in», non si prefigge di proteggere i depositanti bancari, ma i bilanci pubblici, celando questa istanza, secondo Paolo Savona, dietro due «nobili» motivazioni: quella di non far gravare sulla collettività gli oneri causati da operatori incauti o da truffe finanziarie e quella di evitare che gli interventi di salvataggio delle unità in crisi si configurino come aiuti di Stato che alterino il corretto funzionamento del mercato. In breve, il risparmiatore perde ogni protezione in nome di istanze «superiori».
La ratio della protezione concessa è che il depositante è sprovveduto di informazioni, perché non gli vengono date o perché l’organo di vigilanza che ne dispone non può renderle pubbliche. La stessa protezione viene invece rifiutata ai risparmiatori in azioni e obbligazioni, perché le informazioni vengono messe a disposizione prima della loro emissione.
In un’audizione in Parlamento la Banca d’Italia ha ricordato: il decreto salvabanche ha evitato il «bail in» dei creditori, obbligatorio dal 1° gennaio 2016, e la prospettiva di una liquidazione «atomistica». Con il «bail in», le nuove norme avrebbero costretto a coinvolgere - oltre alle azioni e ai titoli subordinati - i circa 12 miliardi di euro di massa «non protetta» delle quattro banche, inclusi i 2,4 miliardi di obbligazioni non subordinate. Con la liquidazione «atomistica», non sarebbe stata assicurata la continuità delle funzioni essenziali delle quattro banche; alle 200 mila piccole imprese affidate si sarebbe dovuto chiedere il rientro immediato, con danni ingentissimi per le economie locali; sarebbero stati tutelati i soli portatori di depositi garantiti, sacrificando i crediti di un milione di risparmiatori e i posti di quasi seimila lavoratori, con una devastante distruzione di valore.
Cosa fare? È giusto sostenere l’iniziativa di Renzi nei confronti dell’Europa e della Merkel. È inutile recriminare sul passato. Nella cosiddetta seconda repubblica tutti i governi di centrosinistra, di centrodestra, dei tecnici, hanno avuto un atteggiamento a volte ossequioso, a volte subalterno, a volte distratto. La Germania non è diventata europea. È l’Europa che è diventata tedesca. La politica dell’austerità ha determinato una crisi ormai decennale irrisolvibile per il nostro paese. La mancanza di una politica fiscale comune che coesiste con una politica economica modellata sugli interessi della Germania ha determinato una significativa incrinazione della coesione in Europa.
Occorre sostenere la svolta che Renzi vuole dare alla politica europea. Non basta alzare la voce. Occorre avere delle alleanze e costruire una vera strategia. Il Pd, che è il primo partito per consensi elettorali in Europa, deve stimolare il Pse (Partito socialista europeo) a costruire iniziative archiviando il lungo periodo di subalternità nei confronti della Merkel. Deve superare le debolezze e le lacerazioni che sono alla base della sua impotenza. Nel Parlamento Europeo il Pse è paralizzato, è quasi attonito, incapace di essere un vero interlocutore nella politica economica.
Anche le forze intermedie e le forze sociali (sindacati, imprese etc.) che hanno propri organismi rappresentativi devono utilizzare la propria forza per negoziare una nuova politica per lo sviluppo. Non possono solo criticare. Non debbono essere degli inutili opinionisti. Devono essere creativi con iniziative determinate, proposte. Debbono avere idee, devono tornare a pensare, devono avere fiducia nel futuro.
La proposta di una Commissione di inchiesta formulata da Renzi va colta. Non va ritirata. È un’occasione da non perdere. Non deve esaurirsi in una caccia ai colpevoli o in uno scarico di responsabilità. Deve servire a fare delle proposte innovative. Nuove. Idonee. In tempi brevi deve formulare proposte serie per cambiare le autorità di vigilanza. Ne abbiamo troppe. Inutili. Sono uno strumento che trasforma la nostra democrazia in lentocrazia. Così come si è superato il bicameralismo perfetto con la trasformazione costituzionale del Senato, si deve rottamare il multilateralismo imperfetto delle autority. La Consob ha dimostrato la sua inadeguatezza. Non ha vigilato. Addirittura negli organi della Banca dell’Etruria c’erano ex suoi commissari, contravvenendo ad ogni regola di trasparenza.
Il sistema bancario italiano, salvo poche eccezioni, in buona parte immune dalla crisi finanziaria mondiale, è restato coinvolto dagli effetti reali di quella crisi.
Particolarmente acuta è l’opinione del professore Paolo Savona, già autorevole dirigente con Guido Carli prima alla Banca d’Italia e poi in Confindustria: «Le accuse che vengono rivolte alla Banca d’Italia di omissioni di vigilanza sono ingiuste, perché il sistema da essa gestito è il migliore tra quelli conosciuti: il sistema bancario italiano è uscito quasi indenne dalla crisi finanziaria mondiale, ma è incappato nella crisi produttiva che ha colpito l’economia italiana. La Banca d’Italia ha invece mostrato ancora una volta pregiudizi e incertezze nella fase di soluzione delle crisi bancarie da affrontare, che ne hanno peggiorato le conseguenze. L’autorità di vigilanza non può essere la stessa dell’autorità di risoluzione, come accade nei principali Paesi del mondo. Esiste un inevitabile conflitto di interessi».
Paolo Savona così argomenta le proprie proposte di modifica del ruolo della Banca d’Italia coerente con il ruolo della Bce e con le direttive comunitarie: «L’organo di risoluzione deve essere composto in modo diverso, lasciando alla Banca d’Italia un ruolo consultivo, magari con carattere obbligatorio, perché più addentro alle ragioni della crisi. I motivi di una riorganizzazione sono ovvi: la risoluzione affidata alla stessa struttura di vigilanza tenderà a coprire eventuali errori commessi dai suoi funzionari e da commissari da essa designati, non di rado impreparati e sottoposti a vincoli nella loro azione da parte della Banca d’Italia».
Il Governo deve assolutamente rivedere la legge che affida solo alla Banca d’Italia il benestare per avviare l’azione di responsabilità contro gli amministratori delle banche andate a scatafascio. Nella legge di stabilità per il 2016, secondo le associazioni dei consumatori, manca la previsione di meccanismi che consentano a soci e creditori l’esercizio dell’azione di responsabilità. Infatti ci si riferisce solo al decreto legislativo 180 del 16 novembre 2015. Un decreto che costituisce la «cornice normativa» in cui si inserisce il cosiddetto decreto Salva banche approvato il 22 novembre dal Governo. All’articolo 35 del decreto dello scorso novembre è scritto: «L’esercizio dell’azione sociale di responsabilità e di quella dei creditori sociali contro i membri degli organi amministrativi e di controllo e il direttore generale, dell’azione contro il soggetto incaricato della revisione legale dei conti nonché dell’azione del creditore sociale contro la società o l’ente che esercita l’attività di direzione e coordinamento, spetta ai commissari speciali sentito il comitato di sorveglianza, previa autorizzazione della Banca d’Italia. In mancanza di loro nomina, l’esercizio dell’azione spetta al soggetto a tal fine disegnato dalla Banca d’Italia». In questo modo si impedisce ai consumatori di poter agire giudizialmente in sede civile contro gli ex vertici degli istituti di credito.
La Mifid va cambiata. Così com’è tutela le banche e mette al sicuro chi con molta disinvoltura e tanta malafede viola ogni regola etica e legale nei confronti dei risparmiatori. È un abuso di diritto che finisce per essere uno scudo protettivo di disonesti rispetto agli onesti. Se ci fosse Luigi Einaudi userebbe la sua classica invettiva: «scriteriati»; se ci fosse Ugo La Malfa aggiungerebbe «miserabili». Le organizzazioni sindacali devono uscire dal letargo. Non può essere accettato che nelle banche i manager impongono ai lavoratori bancari di collocare titoli truffaldini ai risparmiatori, colpendo i più deboli; non è possibile dare credito alle piccole imprese imponendo come condizione di sottoscrivere titoli spazzatura; non è accettabile che la carriera e il riconoscimento della professionalità e la corresponsione di bonus economici sia calcolata per i lavoratori bancari sulla capacità di collocare titoli tossici. Qualche voce isolata si è levata nel sindacato. È vero. Ma è troppo flebile.
Occorre una iniziativa unitaria tra tutti i sindacati del settore d’accordo con le proprie confederazioni, per ricostruire la fiducia tra lavoratori e cittadini. È anche necessario che le organizzazioni dei consumatori tornino a far sentire la propria voce. Se si eccettuano le iniziative della Federconsumatori e dell’Adusbef, si constata un generale silenzio di quasi tutte le altre organizzazioni che pure in altri momenti hanno saputo sviluppare iniziative vere ed efficaci in favore dei consumatori.
Anche qui ci vogliono meno comitati, meno commissioni, meno organi bilaterali, troppo spesso finanziati in modo prevalente da chi dovrebbe essere controllato. Per proteggere il risparmiatore non occorre mandarlo a lezione di finanza, come oggi si afferma, ma mandare a lezione di comunicazione o di onestà chi ha il dovere di dargli le informazioni. La firma messa sotto moduli scritti in corpo otto, illeggibili, non esonera i responsabili dalle loro malefatte, siano esse le autorità di vigilanza e controllo o la dirigenza delle banche.
La crisi delle quattro banche può contagiare l’intero sistema del credito. Occorre evitarlo. Renzi deve superare la fase dei provvedimenti improvvisati (ad esempio la legge per decreto sulla trasformazione delle Banche popolari in spa) e delle iniziative propagandistiche (ad esempio «la cantonata» con la nomina di Raffaele Cantone ad arbitro sui rimborsi ai risparmiatori truffati). La Commissione di inchiesta può e deve essere l’occasione per rottamare la vecchia politica sul credito e per ricostruire con il coinvolgimento di tutti una strategia coerente con i vincoli europei capace di mettersi al servizio della ripresa e dello sviluppo.    

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