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Testamento Biologico: naturale l’estensione del consenso informato. Non serve una legge

maurizio de tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

La legittimazione di un trattamento medico sanitario deve rapportarsi con la doverosa informazione del medico (ed anche della struttura sanitaria) al malato e il suo consenso all’intervento. Il principio generale del cosiddetto consenso informato è l’autodeterminazione del paziente ad accettare l’intervento del medico. Solo in casi eccezionali, rimessi alla valutazione ponderata del legislatore, è possibile «curare» una persona anche contro la sua volontà, evidentemente perché il diritto alla salute del singolo si intreccia con la salute collettiva, il cui principale riferimento costituzionale è l’art. 32.
Il consenso informato assurge, quindi, a criterio regolatore della relazione medico-paziente e a principio fondamentale in materia di tutela della salute, come definito nella sentenza della Corte costituzionale del 15 dicembre 2008 n. 438. L’attività medica, quindi, non può svolgersi contro la volontà dell’interessato neppure quando ne sia in gioco la vita secondo la Corte di Cassazione (sentenza del 16 ottobre 2007 n. 21478), integrando altrimenti il delitto di violenza privata di cui all’art. 610 del codice penale come specificato dalla stessa il 18 dicembre 2008 nella sentenza n. 2437.
Salva l’ipotesi derogatoria, nessuno può essere sottoposto coercitivamente a un determinato trattamento sanitario. La deroga ricorre ad esempio in tema di vaccinazioni obbligatorie. La legge impositiva di un trattamento sanitario non è infatti incompatibile con l’art. 32 della Costituzione se il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri, giacché è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse della collettività, a giustificare la compressione del principio di autodeterminazione dell’individuo.
I trattamenti sanitari possono, quindi, essere richiesti solo in necessaria correlazione con l’esigenza di tutelare la salute della collettività in generale e, comunque, trovano un limite non valicabile nel rispetto della dignità della persona che vi può essere sottoposta.
Ciò detto, va rilevato che affinché il consenso informato sia valido e renda lecito l’intervento del medico è indispensabile che presenti determinati requisiti: più specificamente esso deve essere libero, cosciente, attuale, revocabile e consapevole. Di qui la promozione del «modello condiviso»: la scelta del trattamento medico-sanitario deve essere condivisa dal medico e dal paziente rappresentando l’esito dello svolgersi di una relazione ispirata a canoni fondamentali e imprescindibili: l’informazione, la comunicazione, l’ascolto e il silenzio, elementi questi che consentono di instaurare un’alleanza terapeutica tra medico e paziente. Il trattamento medico-sanitario non è più calato dall’alto, come se si trattasse di un dogma, bensì è l’esito di un confronto in cui ciascuno dà il proprio fondamentale e insostituibile contributo.
Il paziente dismette, così, le vesti di «bambino dipendente dal suo maestro», delegando al medico ogni decisione sulla propria volontà e rinunciando a priori a «capire» e «scegliere» consapevolmente. È peraltro necessario che egli, con coraggio e consapevolezza delle proprie capacità e, soprattutto, dell’importanza del bene coinvolto, esiga e si mostri disponibile ad acquisire informazioni in vista di un contributo attivo che consente di personalizzare il trattamento medico-sanitario. Il medico, dal canto suo, deve comportarsi in modo leale e corretto, al fine di pervenire ad una soluzione realmente condivisa; a ben vedere, l’attuazione del consenso informato dipende principalmente dalla sua onestà intellettuale e professionale.
In primo luogo, il medico deve fornire al paziente un’informazione corretta, completa ed adeguata al livello di comprensione del medesimo. Diversamente, la comunicazione sarebbe soltanto fittizia e servirebbe unicamente ad ottenere il placet dell’interessato rispetto ad una decisione «preconfezionata» dal professionista secondo il suo personale punto di vista. Il medico non deve convincere il paziente della bontà della sua posizione, bensì deve guidarlo verso una decisione libera e consapevole. L’informazione deve essere completa e riguardare la scelta diagnostica e terapeutica, le conseguenze  possibili e probabili e eventuali alternative, gli eventuali rischi anomali.
In secondo luogo, il medico deve mettere a proprio agio il paziente, creare un’atmosfera rilassata, confidenziale, in modo da consentirgli di esprimere senza alcun timore o soggezione i suoi dubbi, le sue ansie, le sue aspettative.
Infine, il medico deve essere in grado di fronteggiare la naturale e prevedibile emotività del paziente, tranquillizzandolo, concedendogli tempo per riflettere, sconsigliandogli di prendere decisioni rapide in preda all’ansia.
Proprio per tale ragione il medico si deve sentire impegnato ad impiegare, da un canto, tutta la diligenza esigibile in vista della sua realizzazione, e dall’altro rendere noto al paziente quante «chance» di successo realmente ci siano e, quindi, fino a che punto sia realmente conseguibile il risultato sperato.
Dai valori costitutivi del consenso informato discende che l’autodeterminazione del paziente in merito alla propria libertà psico-fisica può esprimersi anche nel dissenso all’intervento sanitario e, quindi, nel rifiuto di cure. Non può, quindi, escludersi che il paziente decida di non sottoporsi al prescritto trattamento sanitario. Il che accade spesso a fronte della scarsa possibilità di guarigione e alla luce dei gravi effetti collaterali che finirebbero per compromettere in modo significativo la qualità della sua esistenza. È questa una libera ed insindacabile scelta.
All’individuo deve essere riconosciuto il diritto di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico e di terapia, di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interrompere la terapia, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale, in cui deve ritenersi riconosciuta all’individuo la libertà di scelta del come e del quando concludere il ciclo vitale, quando oramai lo spegnimento della vita è ineluttabile.
Le decisioni esistenziali che riguardano i trattamenti sanitari possono essere inquadrate e valutate, dal punto di vista giuridico, alla luce del più ampio concetto e valore della dignità umana, riconosciuto dalla nostra Carta costituzionale, sia pure non espressamente, all’art. 2, e suggellato, in maniera esplicita, tanto nella Carta europea dei diritti, all’art. 1, quanto nei diversi Atti internazionali.
Come ha puntualmente affermato Federico Gustavo Pizzetti in una sua mirabile opera, la dignità umana deve essere ritenuta, più ancora che un diritto fondamentale in sé, la base stessa, la sostanza stessa, di tutti i diritti fondamentali. Non si può, di fronte agli straordinari progressi che la tecnologia medica guadagna ogni giorno che passa, saldare l’esistenza in vita assicurata dalle macchine in modo totalmente artificiale alla dignità «oggettivizzata» della sopravvivenza per se stessa, con la perversa conseguenza di rimettere l’apprezzamento della «dignità» stessa dell’uomo alla potenza della scienza e della tecnica che consente quella sopravvivenza artificiale, in una prospettiva a quel punto squisitamente tecnologica e non più profondamente antropologica. La questione va estesa al convincimento che la ratio di questo diritto è la medesima che giustifica il principio del consenso informato e la sussistenza di un diritto naturale al testamento biologico.
A questo punto si deve ricordare il concetto essenziale che è stato sancito dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. 27082/2007 in tema di testamento biologico. Che, cioè, il diritto di autodeterminazione del malato, anche se incapace, si racchiude nella valorizzazione, sul piano giuridico, della preminenza della persona umana e della sua potestà di autodeterminazione terapeutica, che hanno un diretto fondamento normativo proprio in norme di rango costituzionale (articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione). Il valore uomo (nel suo essere «dato» e nel suo essere «presupposto», come valore etico in sé) non può essere disgiunto dagli stessi diritti che l’ordinamento costituzionale repubblicano gli riconosce. Tale correlazione si esprime anche rispetto al diritto alla salute e alla vita.
Secondo la Suprema Corte la prosecuzione della vita non può essere imposta a nessun malato, mediante trattamenti artificiali, quando il malato stesso liberamente decida di rifiutarli od abbia deciso in base a direttiva anticipata. Con un’ulteriore analoga decisione (16 ottobre 2007 n. 21748) la Corte di Cassazione ha affermato che uno Stato come il nostro, organizzato, per fondamentali scelte vergate dalla Corte costituzionale, sulla pluralità di valori, e che mette al centro del rapporto tra paziente e medico il principio di autodeterminazione e la libertà di scelta, non può che rispettare anche la scelta di chi, legando indissolubilmente la propria dignità alla vita di esperienza e questa alla coscienza, ritiene che sia assolutamente contrario ai propri convincimenti sopravvivere indefinitivamente in una condizione di vita priva della percezione del mondo esterno.
In proposito, va richiamato il principio del pluralismo democratico osservando che mentre un malato, conformemente alla propria personalissima visione della vita, delle condizioni del corpo, della speranza (tanto nell’aldiquà, quanto secondo il proprio modo religioso nell’oltre mondo) può manifestare la volontà permanente favorevole alla prosecuzione delle terapie, prediligendo un tipo di vita clinicamente sostenuta mediante potenti macchine «simbionti», un altro malato, invece, può ritenere che sia assolutamente contrario alla propria concezione della dignità dell’esistenza proseguire in una vita che è tale solo «artificialmente».    

Tags: Febbraio 2016

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