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I dati delle vittime del terrorismo nel mondo

Antonio Marini, Procuratore Generale della Repubblica f.f. della Corte d’Appello di Roma

Nello scorso novembre è stato presentato a Roma il Global Terrorism Index 2015, il rapporto annuale pubblicato dall’Institute for Economics and Peace (Iep ). L’Istituto è un gruppo di studio senza scopo di lucro con sedi a Sydney, New York e Città del Messico che misura l’impatto del terrorismo nel mondo elaborando un coefficiente calcolato in base agli attentati negli ultimi 5 anni.
A presentarlo è stato lo stesso presidente dell’Iep, Steve Killelea, in un incontro organizzato con l’Istituto per gli Studi di Politica internazionale (Ispi), a cui hanno preso parte anche il viceministro degli Affari esteri Mario Giro, il deputato del Partito democratico Andrea Manciulli, il rappresentante del Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (Dis) presso la Presidenza del Consiglio dei ministri Dario Matassa e la ricercatrice della Chatham House di Londra Leena Koni Hoffman.
Il dato più allarmante che emerge dal rapporto è che nel 2014 il numero delle vittime del terrorismo è cresciuto dell’80 per cento rispetto all’anno precedente. A fronte dei 18.111 morti nel 2013, lo scorso anno si sono registrati 32.685 decessi attribuibili ad attentati o attacchi terroristici. Il 78 per cento delle morti e il 57 per cento degli episodi di terrorismo si sono concentrati in appena cinque Paesi: Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria. Il numero dei Paesi dove sono stati più di 500 è aumentato da cinque a dieci, con l’aggiunta di Somalia, Ucraina, Yemen, Repubblica Centroafricana, Sudan e Camerun.
Ciò significa che il territorio su cui si è diffuso il terrorismo è diventato più vasto. Nel contempo si è registrata anche la crescita del numero dei Paesi che sono stati vittime di un attacco terroristico: 93 rispetto agli 88 del 2013. L’Iraq continua ad essere il Paese più colpito dal terrorismo con 9.929 vittime: nel 2014 il numero dei morti è cresciuto di 3.532 unità. Ma è la Nigeria il Paese che ha registrato il più grande aumento di attività terroristiche con 7.512 morti e con un incremento oltre il 300 per cento dal 2013.
A sorpresa il gruppo terroristico che miete il maggior numero di vittime è Boko Haram, un’organizzazione terroristica forse ancora più spietata dell’Isis, attiva principalmente in Nigeria, Camerun, Ciad e Niger. Assieme all’Isis è quella che è cresciuta di più nel 2014 e da sola ha causato il 51 per cento delle vittime: 6.644 contro le 6.073 vittime dell’Isis, attiva quest’ultima soprattutto in Iraq e Siria ma anche in Egitto, Turchia ed ora anche in Libia.
Un doppio attentato compiuto da Boko Haram è avvenuto il 31 gennaio scorso proprio in concomitanza con la visita del nostro presidente del Consiglio Matteo Renzi in Nigeria. Il primo si è verificato nell’affollata stazione  di autobus di Nuyanya Motor Park, nella periferia di Abuja, capitale della Nigeria. Il bilancio delle vittime è stato di oltre 70 morti e più di 120 feriti. Almeno 86 persone sono morte e 100 sono rimaste ferite in un altro attacco di Boko Haram avvenuto nello stesso giorno a Maiduguri, nella Nigeria nord orientale.
I terroristi hanno assaltato nella notte il villaggio di Dalori e hanno appiccato il fuoco alle case. I testimoni hanno riferito che molti abitanti fra i quali diversi bambini sono bruciati vivo nel rogo. Il terzo gruppo terroristico più pericoloso è rappresentato dai talebani che hanno causato nel 2014 3.477 morti, seguito dai pastori fulani, attivi anch’essi in Nigeria e Repubblica Centrafricana che hanno al loro attivo 1.229 morti.
Al quinto posto troviamo il gruppo terroristico  denominato al-Shabaad, anche noto come Mrp, ossia Movimento della resistenza popolare nella Terra delle due migrazioni, con 1.021 morti: si tratta di un gruppo insurrezionalista sunnita attivo in Somalia dal 2006 che rappresenta sostanzialmente la cellula somala di Al-Qaeda, formalmente riconosciuta nel 2012, la cui caratteristica è quella di finanziarsi attraverso l’attività dei pirati somali.
L’altro dato importante che emerge dal rapporto è che l’area del mondo più colpita dal terrorismo è quella che nello stesso rapporto viene definita Mena (Medio Oriente e Nord Africa ), con 580 attacchi e 13.426 morti; segue l’Africa sub-Sahariana con 1.626 attentati, dove l’incidenza mortale è stata più alta (10.915 morti). Dal rapporto si evince, altresì, che il 92 per cento di tutti gli attacchi terroristici si è verificato nei Paesi in cui la pratica della violenza politica è più diffusa mentre l’88 per cento ha avuto luogo in Paesi coinvolti in conflitti violenti.
A riguardo Steve Killelea ha precisato che dieci degli undici Paesi più colpiti dal terrorismo hanno anche i più alti tassi di rifugiati e sfollati interni. Ciò evidenzia la forte interconnessione tra la crisi dei rifugiati in corso, il terrorismo e i conflitti di natura interna, nel senso che i Paesi con il più alto numero di attacchi e vittime del terrorismo sono anche, comprensibilmente, quelli dai quali fugge la maggioranza dei profughi che bussano alle porte dell’Unione Europea.
Lo stesso presidente durante la presentazione del Rapporto ha spiegato come, al di là dello shock degli attentati di Parigi, sia importante tenere presente che il numero delle vittime in Occidente è minimo rispetto ad altre regioni del mondo. Infatti, l’Europa e il Nord America sono stati teatro di morte in misura decisamente minore: dal 2000, comprendendo gli attentati dell’11 settembre negli Usa, le vittime sono state il 2,6 per cento del totale; inoltre, l’80 per cento dei morti per azioni terroristiche in Europa non è causato da formazioni radicali islamiche, ma da gruppi estremisti di sinistra.
Nella classifica del Global Terrorism Index l’Italia occupa il cinquantaduesimo posto, con un grado di pericolosità pari al 3,36. È più pericolosa della Giordania che si colloca all’ottantunesimo posto e del Marocco in posizione numero 88, ma meno pericolosa della Francia e del Regno Unito. Partendo da questi presupposti l’Istituto Demoskopia ha realizzato l’Italian Terrorism Infiltration Index, con la classifica delle regioni italiane a più alto rischio. Lombardia e Lazio sono le regioni più esposte alla possibilità di attacchi terroristici, complice anche il fatto che a Milano fino a ottobre si è svolta l’Expo 2015 e a Roma si svolge il grande Giubileo della Misericordia. La prima a guidare la graduatoria è la Lombardia alla quale è assegnato un punteggio pari a dieci, risultando così la regione italiana più esposta a rischio potenziale di infiltrazione terroristica; a seguire la regione Lazio (6,48 punti), l’Emilia Romagna (4,27 punti), il Piemonte (3,47 punti) e il Veneto (2,67 punti).
Medesimo posto in graduatoria per Toscana e Campania che hanno totalizzato 2,20 punti ciascuna. Le rimanenti realtà regionali, seppure con performance differenti, si sono posizionate nell’area a basso rischio potenziale di infiltrazione terroristica con un ranking tra 0,01 e 2 punti Trentino Alto Adige (1,75 punti), Liguria (1,64 punti), Calabria (1,08 punti), Marche (0,96 punti), Sardegna (0,87 punti), Friuli Venezia Giulia (0,81 punti), Puglia (0,63 punti), Sicilia (0,46 punti) e Umbria (0,45 punti). In coda si collocano Abruzzo (0,18 punti), Basilicata (0,02 punti) e Molise (0,01 punti).
Per stilare questo rapporto sono stati tenuti in considerazione tre fattori fondamentali: le intercettazioni autorizzate per indagine di terrorismo interno ed internazionale, gli attentati avvenuti nel territorio italiano e gli stranieri in Italia provenienti dai cinque Paesi valutati più a rischio terrorismo come Iraq, Afghanistan, Pakistan, Nigeria e Siria.
Nell’ultimo decennio - si legge nel rapporto - sono stati portati a termine poco meno di cento attentati di matrice islamica. Gli italiani nel mondo che hanno perso la vita sono stati 179. Del fenomeno dei foreign fighters ha parlato durante l’incontro il rappresentante del Dipartimemto delle Informazioni della Sicurezza presso la Presidenza del Consiglio dei ministri Dario Matassa, rilevando che si tratta di un fenomeno non nuovo per gli addetti ai lavori. Siamo infatti alla terza ondata di foreign fighters in pochi decenni.
La prima scaturì dal conflitto bosniaco, la seconda dagli scontri in Afghanistan e in Iraq. Oggi la calamita è la guerra civile in Siria. Si stima che almeno 20 mila stranieri siano andati a combattere in Afghanistan tra il 1980 e il 1992 e che tra il 2011 e il 2014 tra 25 mila e 30 mila individui si siano recati in Siria ed Iraq da almeno cento Paesi, dei quali circa il 65 per cento proviene da Paesi appartenenti all’Organization for Islamic Cooperation (Oic). Dalla Tunisia proviene il contingente più numeroso (circa 5 mila), seguita dall’Arabia Saudita (circa 2.500). Fuori dell’Oic, Russia e Francia sono i Paesi più rappresentati. In questo ultimo Stato, a metà del 1400, si stima che ce ne fossero 180.
Ma quali sono le motivazioni che spingono migliaia di persone, soprattutto giovani a diventare foreign fighters?
Il rapporto, sulla base di numerosi studi, nei identifica quattro:
1) fattori identitari per il 40 per cento;
2) rabbia e vendetta per abusi che si ritengono perpetrati ai danni di un gruppo politico, etnico o religioso in una percentuale del 30 per cento;
3) ricerca di uno «status», desiderio di essere considerati e sentirsi importanti, per il 25 per cento;
4) la ricerca del brivido, dell’eccitazione, che copre il 5 per cento.
Da uno studio sui foreign fighters unitisi ad Al-Qaeda è risultato che, nella maggior parte dei casi, questi non erano «pazzi psicopatici», non mostravano un profilo socio-economico dominante, non erano stati avvicinati dall’organizzazione terroristica ma si erano avvicinati loro ad essa e, significativo, avevano una scarsa conoscenza dell’Islam e comunque si erano radicalizzati autonomamente, anche attraverso internet. Non a caso, dal 2006 al 2014 il 70 per cento degli attacchi terroristici nei Paesi occidentali è stato condotto da singoli individui, senza affiliazioni e senza il supporto di gruppi specifici: i cosiddetti «lupi solitari».
Prima di concludere appare opportuno ricordare che, secondo quanto si evince dal rapporto nel 2014, i costi legati al terrorismo sono aumentati del 61 per cento e sono stati valutati in 52,9 miliardi di dollari. Queste stime sono state fatte calcolando i costi diretti e indiretti legati alle vite perse, alla proprietà distrutte o danneggiate, ai riscatti pagati, agli investimenti sospesi o annullati (in Nigeria, i mancati investimenti dovuti a Boko Haram sono stati stimati in 6,1 miliardi di dollari nel solo 2010, un calo del 30 per cento rispetto all’anno precedente).   

Tags: Febbraio 2016 sicurezza terrorismo Antonio Marini

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