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molte le novità contenute nell’intesa fra le parti sociali. dipenderà da come sarà attuata

Il Sen. TIZIANO TREU vicepresidente della Commissione  Lavoro e Previdenza sociale

del Sen. TIZIANO TREU vicepresidente della Commissione Lavoro e Previdenza sociale

 

 

L'intesa siglata da tutte le parti sociali, tranne la CGIL, contiene non poche novità che possono essere utili a far funzionare meglio le nostre Relazioni Industriali e a stimolare la produttività delle imprese. Molto dipende da come l’intesa sarà applicata e, da questo punto di vista, la mancata firma rappresenta un elemento di debolezza. Per questo si sono reiterati da parte sia del Governo sia dei maggiori partiti politici gli inviti a compiere ulteriori sforzi per una conclusione unitaria. Ma finora senza esito. E non sembra ci siano prospettive di andare in quella direzione. Eppure nell’accordo non mancano gli elementi positivi, mentre i rischi paventati di destrutturazione del sistema sono superabili, come risulta dallo stesso testo dell’accordo. La prima parte del documento riguarda la struttura della contrattazione collettiva. Alcune clausole rafforzano le principali tendenze in atto. Anzitutto confermano la funzione del contratto nazionale di lavoro di garantire la certezza di trattamenti economici e normativi per tutti i lavoratori, della contrattazione di secondo livello e di aumentare la produttività attraverso un migliore impiego dei fattori di produzione e dell’organizzazione del lavoro. Si ribadisce quindi la richiesta al Governo di aumentare e rendere strutturali le misure fiscali e contributive volte a incentivare la definizione, al secondo livello, di retribuzioni legate a obiettivi di produttività, qualità, redditività. Per altro verso si indica l’opportunità che il contratto nazionale dia una chiara delega ai contratti di secondo livello per trattare gli istituti rilevanti, al fine di incidere positivamente sulla produttività. Il sistema contrattuale diventa flessibile, ma si tratta di flessibilità e di decentramento controllato. Per questo aspetto non c’è differenza sostanziale con il sistema previsto dall’accordo del 28 giugno 2011 firmato anche dalla CGIL. Una seconda parte dell’intesa riguarda la parte retributiva della contrattazione. Anzitutto si afferma che il contratto collettivo nazionale di lavoro deve rendere la dinamica degli effetti economici coerente con le tendenze generali dell’economia e del contesto competitivo internazionale. Nell’ultima versione del documento è stato abolito il riferimento originario relativo a un superamento degli automatismi. Un punto controverso è quello dell’indicizzazione retributiva, la cosiddetta IPCA. Non si può dire che questa sia abolita, perché resta un punto di riferimento come dinamica massima della retribuzione; ma le parti hanno voluto sottolineare la necessità che gli andamenti retributivi tengano conto della attuale situazione di crisi e di competitività internazionale. Inoltre si aggiunge che i contratti collettivi possono stabilire che una quota degli aumenti derivanti dai rinnovi sia destinata ad elementi retributivi collegati a incrementi di produttività e redditività definiti dalla contrattazione di secondo livello. Si tratta di un’innovazione rilevante che introduce una variante rispetto alla generale funzione di garanzia dei contratti stessi e al tradizionale principio della sua «omnicomprensività». La novità è circondata da evidenti cautele che dovrebbero evitare i rischi di destrutturazione del sistema. Anzitutto, il trasferimento di una quota retributiva dal livello nazionale a quello decentrato non è stabilito come necessario, ma è lasciato alla decisione degli stessi contraenti nazionali che «possono», non «devono» decidere in tal senso. Una seconda cautela deriva dal fatto che è prevista una clausola di garanzia per cui, in assenza di contrattazione di secondo livello, la quota di cui sopra non si perde, ma resta parte integrante dei trattamenti economici comuni per tutti i lavoratori interessati ai contratti nazionali. La clausola è utile perché rappresenta non solo una garanzia per i lavoratori, ma un incentivo alle imprese, specie piccole, a usare effettivamente la possibilità di concordare sistemi retributivi flessibili per stimolare l’impegno dei lavoratori e quindi la produttività. Infatti, se le aziende non si avvalgono di tale opportunità, non per questo «risparmiano», ma devono comunque erogare la stessa quota retributiva e nella maniera fissa tradizionale. Se questa indicazione venisse seguita nei fatti, il nostro sistema contrattuale potrebbe funzionare in modo più efficiente ed equilibrato, coniugando la garanzia di trattamento di base comune e una dinamica retributiva funzionale all’aumento della produttività. Una seconda parte del protocollo d’intesa si occupa della vexata quaestio della rappresentanza sindacale. Le parti si impegnano a dare seguito alle indicazioni dell’accordo interconfederale del 28 giugno 2011, finora rimasta inattuata; in particolare per avviare la procedura di misura della rappresentanza sindacale nei vari settori e delle Rappresentanze Sindacali Unitarie, modificando le regole dell’accordo del 1993. Attuare questi punti dell’accordo del 2011 permetterebbe di superare alcune ragioni di conflitto che pesano sul sistema contrattuale specie nel settore metalmeccanico, e che sono arrivate in giudizio, in seguito ai ricorsi della Fiom, specie contro la Fiat. La rispondenza della Fiom ai requisiti previsti dall’accordo del 28 giugno 2011 richiamato dal nuovo protocollo (il 5 per cento fra iscritti e votanti) comporta il riconoscimento di questa organizzazione e darebbe titolo alla sua partecipazione a pieno titolo alla contrattazione collettiva e ai diritti sindacali. Naturalmente questo non risolve i problemi di merito riguardanti la contrattazione nazionale, nei quali la Fiom si è finora dissociata dai rinnovi degli altri sindacati metalmeccanici. Né risolverebbe la questione della Fiat, che riguarda la presenza della Fiom in azienda e non al tavolo della contrattazione nazionale, di cui si occupa il protocollo interconfederale. La soluzione di tale questione dipende, oltreché dalla volontà della Fiat, dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che subordina la titolarità dei diritti sindacali in azienda alla stipulazione di contratti collettivi ivi applicabili, condizione che non si verifica per la Fiom. Qui servirebbe una modifica legislativa dell’articolo 19, che tenesse conto dell’effettiva rappresentatività delle organizzazioni sindacali. Disegni di legge in tal senso sono presenti in Parlamento; e d’altra parte l’articolo 19 è stato inviato alla Corte Costituzionale perché ne verifichi la dubbia costituzionalità. Il protocollo fa inoltre una parziale apertura a favore della partecipazione dei lavoratori nell’impresa, valorizzando in particolare, nei vari livelli contrattuali, i momenti di informazione e di consultazione per favorire un maggiore coinvolgimento nelle scelte dell’impresa, al fine di migliorare la produttività, le condizioni di lavoro e lo sviluppo. L’apertura è parziale perché non si fa cenno a forme partecipative più «forti», come la presenza di rappresentanti dei lavoratori nei Consigli di vigilanza e la partecipazione azionaria dei lavoratori. Queste sono invece previste dai disegni di legge in discussione al Senato, e dalla delega contenuta nella legge 92 del 2012, che il ministro del Lavoro Elsa Fornero è pronto ad attuare con un apposito decreto legislativo. L’apertura del testo è più netta per le forme di welfare contrattuale che le parti ritengono utile monitorare e armonizzare (non si parla però di «promuoverle»); e le parti sollecitano il Governo a prevedere un regime fiscale e contributivo di vantaggio per sostenere tali sistemi di welfare contrattuale. 

Tags: Gennaio 2013 Tiziano Treu

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