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Crisi economica e cancellazione degli avvocati dagli albi: no agli esami in Spagna, no ai soci di capitale

Maurizio De Tilla presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

La Cassa Forense ha di recente diffuso una comunicazione che informa che negli ultimi tempi ben ottomila avvocati si sono cancellati dagli albi. Le cause sono molteplici: la crisi economica che ha investito la professione, la forte pressione fiscale e la contribuzione obbligatoria per tutti gli iscritti, la perdita di clientela pagante, i ritardi pubblici nel pagamento dei compensi per le difese di ufficio e dei meno abbienti, l’abolizione assurda ed illegittima dei minimi di tariffa, la disapplicazione sistematica dei parametri, le «convenzioni capestro», il sovraffollamento degli albi. E tante ulteriori ragioni, compresi i continui attacchi della politica, dei media e dell’Antitrust all’identità e alla dignità dei professionisti.
Secondo un’indagine del Censis, per l’80 per cento degli intervistati l’avvocatura sta attraversando una fase di forte crisi. Per il 60 per cento incide la perdita di prestigio. A detta del 45 per cento ci sono troppi avvocati (250 mila). Chiudono gli studi legali appena avviati, ma chiudono anche studi legali di grande tradizione.
Una forte denuncia è stata fatta dal presidente del Consiglio dell’Ordine di Bari, Giovanni Stefanì. La toga finisce nel cassetto insieme al sogno di continuare a fare l’avvocato. È lo scenario a tinte fosche che ormai si è delineato attorno alla professione forense, una crisi senza fine che a Bari (ed anche in numerose altre città) ha toccato livelli a dir poco preoccupanti facendo sprofondare un settore che vuole dire tanto, e di certo non solo carriera e prestigio: quello di Bari è il quarto Ordine italiano per numero di iscritti, una classe forense che è stata a lungo e comunque per certi versi rimane tuttora classe dirigente, studi professionali che si tramandano da generazioni, un passato glorioso scandito dalla tradizione che si specchia nell’antica vocazione giuridica meridionale e un presente segnato da un precariato dilagante, boom di cancellazioni e crollo dei ricavi.
Nonostante il sovraffollamento degli albi forensi, l’assurdo è che non si contrasta efficacemente l’iscrizione di avvocati italiani che hanno conseguito il titolo in Spagna senza sostenere l’esame di Stato. Siamo in presenza di vere e proprie porte girevoli. Laureati in giurisprudenza non riescono a superare l’esame di Stato di avvocato in Italia e vanno in Spagna per conseguire il titolo senza alcuna abilitazione né esame e tornano poi in Italia richiedendo (e spesso ottenendo) la iscrizione ad uno dei 130 ordini forensi.
Va segnalato che in relazione all’iscrizione all’Albo degli Ingegneri la Corte di Giustizia UE (con la decisione 29 gennaio 2009) ha sancito che il duplice riconoscimento in uscita e poi in entrata dall’estero rappresenta una costruzione di puro artificio che contrasta con il principio in base al quale i cittadini non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente del diritto comunitario.
Secondo il Consiglio nazionale forense si possono rifiutare le iscrizioni degli avvocati «made in Spain» qualora sia accertato il carattere artificioso del percorso che ha portato alla relativa richiesta. Si tratta, peraltro, non di avvocati spagnoli che chiedono l’iscrizione come «stabiliti» negli albi italiani, ma di soggetti di cittadinanza italiana che non conoscono una parola di spagnolo e fanno del «turismo» in Spagna solo per conseguire il titolo di avvocato.
Di ciò non ha tenuto alcun conto la Corte UE quando ha ritenuto per gli avvocati (nella sentenza 17 luglio 2014) il fenomeno fisiologico, mentre lo stesso è palesemente e macroscopicamente patologico. Molte migliaia di laureati italiani in giurisprudenza ricorrono al meccanismo artificioso della «porta girevole». Gli Ordini forensi dovrebbero respingere le iscrizioni degli avvocati cosiddetti «spagnoli». Basterebbe che nel colloquio preliminare si faccia un esame sulla lingua spagnola del richiedente e sulla preparazione giuridica in materia di diritto spagnolo.
Mentre gli avvocati perdono le cause e non riescono ad ostacolare le «porte girevoli», i commercialisti, invece, riescono a spuntarla. Il Consiglio di Stato - con la decisione 8 gennaio 2016 n. 32 - ha sbarrato la strada ad un commercialista, laureatosi in Italia, che aveva chiesto il riconoscimento del titolo professionale conseguito in Spagna, per potersi iscrivere all’albo dei dottori commercialisti ed esperti contabili in Italia. Il Consiglio di Stato ha affermato che il riconoscimento di titoli di studio non basta per l’iscrizione all’albo qualora si intenda ottenere l’attribuzione di uno status per il quale l’ordinamento nazionale richieda un esame o una formazione professionale specifica, ulteriore rispetto al diploma di laurea. Proprio perché il titolo di economista posseduto dal ricorrente risultava conseguibile in Spagna sulla base della semplice laurea, senza necessità né di esame di abilitazione né di ulteriore formazione professionale, si è escluso che detto titolo bastasse per iscriversi in Italia all’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili.
L’Associazione nazionale degli avvocati italiani condivide pienamente la decisione del Consiglio di Stato ed invoca analoga decisione per gli «abogados italiani» che vengono sistematicamente iscritti negli albi forensi italiani.
Altro elemento che danneggerà fortemente l’identità dell’avvocatura è la prospettata introduzione del socio di capitale nelle società tra avvocati. L’innovazione contraddice la riforma dell’ordinamento forense che esclude perentoriamente i soci di capitale. Un recente documento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Milano conferma la posizione dell’Avvocatura. La funzione sociale dell’avvocato, esplicata nell’esercizio della difesa costituzionalmente garantita dei diritti dei cittadini, verrebbe subordinata a logiche di perseguimento di finalità meramente economiche. La previsione del socio di capitale determinerebbe un condizionamento inaccettabile ai principi di indipendenza, autonomia, riservatezza e segreto professionale che caratterizzano da sempre l’esercizio dell’attività forense.
L’Anai denuncia che il socio di capitale potrebbe inquinare l’integrità dell’avvocatura determinando zone di opacità dell’attività professionale e la possibile ingerenza di soggetti criminali e di poteri economici forti.
Le cancellazioni degli avvocati, conseguenti a tutti i fattori sopra indicati, si andranno purtroppo ad incrementare anche per altre ragioni.
Sta, infatti, per essere varato il regolamento che impone agli ordini territoriali di verificare ogni tre anni che la professione forense sia esercitata dagli iscritti in modo effettivo, continuativo, abituale e prevalente. In altri termini, l’avvocato dovrà avere tutti i seguenti requisiti: titolarità di partita IVA o far parte di una società o associazione professionale; avere l’uso di locali e una utenza telefonica destinati allo svolgimento dell’attività professionale; trattare almeno cinque affari all’anno; avere la PEC, avere assolto all’obbligo di aggiornamento professionale e avere in corso una polizza assicurativa sull’attività professionale.
La introdotta normativa è decisamente iniqua e non tiene in alcun conto che, in alcuni casi, gli avvocati svolgono attività professionale collaborativa in studi, ma non hanno personali utenze, né costituzione nei procedimenti.
Vi è un’ulteriore ragione che aggrava la crisi economica dell’avvocatura: l’abolizione della inderogabilità dei minimi di tariffe ha fortemente contribuito alla vertiginosa diminuzione del reddito degli avvocati. Un intervento a tutela dei compensi dei professionisti, specie nei rapporti difficili con i clienti economici, appare urgente e necessario.
È stata presentata una proposta di legge per un equo compenso.
Spesso (ma non sempre) si inseriscono nelle convenzioni clausole «capestro» non rispettose della giusta proporzione tra il compenso previsto e la quantità e qualità del lavoro svolto dal legale su mandato del cliente.
Spesso non si tiene nel debito conto l’esito positivo e vantaggioso della causa. E talvolta, con i compensi ridottissimi, si tratta di un vero e proprio abuso di potere per la dominante posizione economica. È inoltre da segnalare un’altra situazione che penalizza fortemente l’esercizio della professione forense. La liquidazione dei compensi per l’attività difensiva svolta dagli avvocati ammessi al patrocinio a spese dello Stato è spesso irrisoria e in violazione del decoro della professione forense.
Nell’attesa di una legge che tuteli la professione, il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Roma, la Camera penale e l’Associazione nazionale forense locale hanno siglato un protocollo di intesa che individua compensi standard rispettosi dei parametri.
L’iniziativa puntuale e meritoria dovrebbe essere estesa a tutto il territorio nazionale.
Nel panorama di remunerazioni insufficienti, che vanno a scapito della qualità delle prestazioni, si aggiunga anche sul piano etico che, alle consulenze milionarie erogate per il passato con facilità dalle P.A., si contrappone il lavoro di assistenza legale e giudiziale che è svolto dagli avvocati con laboriosità ed impegno e viene scarsamente pagato.
È certamente giusta la «normalizzazione» degli incarichi di consulenza (con la eliminazione degli abusi piuttosto diffusi nell’ambito di una sorta di «tangentopoli» che affligge la politica e la burocrazia), ma è iniquo l’intervento, in danno degli avvocati impegnati, diligenti ed onesti, che impone sconti fino al 20 per cento sui minimi di tariffa.
Si scende, così, al di sotto di una minima equa remunerazione del lavoro, con evidenti profili di illegittimità costituzionale.   

Tags: Giugno 2016 Maurizio de Tilla avvocatura

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