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Europa e Italia: un’assunzione di responsabilità per realizzare le riforme

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di GIORGIO BENVENUTO presidente della fondazione Bruno Buozzi

 

I ventisette Paesi dell’Unione Europea hanno rinviato al prossimo anno la definizione del budget 2013-2020. Pesano in questo, come in altri temi, le divisioni tra i Paesi ricchi, ognuno impegnato a difendere i propri sconti e i propri benefici. Ci si domanda: perché non sfruttare la massa critica dell’Europa per vincere la sfida della globalizzazione con la Cina, il Brasile, l’India? «Perché i soldi si spendono molto meglio a livello nazionale più che europeo», risponde sicuro un diplomatico scandinavo. Il presidente del Consiglio Europeo Herman Van Rompuy si è limitato a rilasciare una dichiarazione di circostanza: «I colloqui bilaterali e la costruttiva discussione del Consiglio Europeo hanno mostrato un sufficiente grado di convergenza potenziale perché un accordo sia possibile all’inizio dell’anno prossimo». Al di là delle dichiarazioni di facciata, si rischia una rottura, come avvenne nel 2005 quando le trattative sul budget 2007-2013 durarono sei mesi tra critiche, tensioni e mediazioni al ribasso. Non è facile per Van Rompuy trovare una soluzione concordata. Gran Bretagna, Germania, Svezia e Olanda sono favorevoli a una forte riduzione del bilancio. I nodi da risolvere non sono soltanto i saldi dei singoli capitoli di spesa (nella bozza sono stati limati, rispetto agli anni passati, 80 miliardi, ai quali se ne potrebbero aggiungere altri 15), ma anche gli sconti di cui godono alcuni Paesi, tra i quali figura la Gran Bretagna. Van Rompuy propone che questi «rebates» siano autofinanziati anche dai Paesi che ne beneficiano. In particolare, l’ultima proposta di bilancio pluriennale per il 2014-2020 è di 1.010.789 milioni di euro, così suddivisi: 372.229 per l’agricoltura e la pesca; 320.148 per la coesione; 139.543 per la competitività, per la crescita e per il lavoro; 62.629 per il proprio finanziamento; 60.667 per gli aiuti agli Stati che intendono aderire all’Unione Europea; 38.888 per solidarietà ed emergenze; 16.685 per la sicurezza e la cittadinanza. In un articolo di fondo su La Stampa del 24 novembre scorso Gianni Riotta ha paragonato l’esito del summit europeo alla parabola dei ciechi: il celebre dipinto di Bruegel ritrae i ciechi in fila a reggersi a vicenda, tutti prossimi a precipitare in un crepaccio, secondo i versetti del Vangelo di Matteo: «Se un cieco guida un altro cieco, ambedue cadranno nella fossa». Il New York Times ha scritto che la cancelliera Angela Merkel sta spingendo in modo distruttivo i partner a rimanere nel pantano della recessione. Insistere nella definizione di tetti rigidi al deficit è un grave errore. Viene infatti negata la flessibilità della politica fiscale, che è necessaria, anzi fondamentale, per rilanciare la crescita. Ecco perché il rinvio della definizione del budget è un atto di irresponsabilità. L’Europa ha ottenuto il Premio Nobel per la pace. Deve meritarlo. L’euro non è un punto di arrivo. È una tappa per arrivare al traguardo dell’unità politica e sociale. Vanno fatte le scelte. Non si può tirare a campare. Non si guadagna tempo, lo si perde. A forza di rinvii le decisioni non maturano, ma marciscono. La situazione diventa sempre più esplosiva. Cresce a dismisura la disoccupazione giovanile; languono l’innovazione e la ricerca; aumenta la crisi del debito; aumenta la concorrenza degli Stati emergenti, Cina, India, Brasile. L’Europa non si accorge di tutto quello che perde. Nel 2011, secondo il World Wealth Report, ha bruciato su scala globale il 13,6 per cento della quota di ricchezza patrimoniale. La Cina l’ha aumentata del 2,8 per cento. Gli Usa dell’1,9 per cento. Le perdite dell’Europa sono state pari al 90 per cento del totale. La coesione in Europa è in crisi. Esplodono le spinte nazionaliste e corporative. Il budget, così come è stato presentato, ricalca il passato. Troppi gli aiuti all’agricoltura; pochi i fondi messi a disposizione per le infrastrutture e i broadband per internet; esigui gli interventi a sostegno delle piccole imprese. Invece di intervenire nei settori che possono avere effetti positivi sull’occupazione, si continua a dirottare risorse verso il settore agricolo. Si investe nel passato, anziché sul futuro. Per il 76 per cento del totale, le risorse per il budget europeo sono versate dagli Stati membri in proporzione al loro prodotto interno nazionale e sono aumentati per il 12 per cento da una percentuale dei dazi doganali e per l’11 per cento dall’Iva. Versano di più la Germania, la Francia e l’Italia. Quest’ultima ha il primato negativo. Dà all’Europa più di quanto riceve. È un contributore «netto». Negli ultimi 11 anni, soltanto nel 2000 abbiamo ricevuto più di quanto abbiamo dato; nel 2003 siamo stati alla pari; negli altri anni siamo andati sotto. Nel 2011 abbiamo dato 14 mila milioni di euro e abbiamo ricevuto meno di 10 mila milioni. Due le ragioni. La prima è costituita dalla scarsa capacità negoziale. La seconda dall’inettitudine a gestire i fondi comunitari. I contributi ricevuti dall’Unione Europea, di fronte ai versamenti per 14 miliardi di euro, sono stati per l’Italia pari a 9,6 miliardi. In particolare 4,7 miliardi, pari al 49 per cento, all’agricoltura; 2,3 miliardi, pari al 24 per cento, per la coesione; 1,3 miliardi, cioè il 14 per cento, per lo sviluppo rurale; 826,7 milioni, il 9 per cento, per la competitività; 249,7 milioni, il 3 per cento, per l’amministrazione; 174,9 milioni, pari al 2 per cento, per la cittadinanza, la sicurezza e la giustizia. Il saldo in euro per abitante, riferito al 2011, è in particolare così suddiviso: Lussemburgo più 800, Ungheria più 450, Belgio più 314, Spagna più 81, Romania più 72, Francia meno 75, Gran Bretagna meno 75, Italia meno 78, Germania meno 92. Il presidente del Consiglio dei ministri italiano, Mario Monti - bisogna dargliene atto - ha chiari i rischi dei ritardi in campo europeo. Il Governo ha fatto molto sul piano internazionale. Ha recuperato un’autorevolezza che negli ultimi anni si era prima affievolita per poi scomparire. L’iniziativa di Monti deve avere il sostegno della politica. Ai partiti, preoccupati per le prossime scadenze elettorali, sfuggono l’emergenza, l’urgenza, la drammaticità della situazione. L’industria europea perde da anni quote nel mercato globale. La concorrenza cinese e asiatica non perdona. È sempre più aggressiva. La crisi finanziaria e l’affievolirsi della coesione in Europa hanno determinato recessione e disoccupazione. Se non si interviene, le ristrutturazioni industriali determineranno sacrifici sempre più pesanti che penalizzeranno la crescita, compromettendo le speranze nel futuro. La legislatura si sta concludendo in modo convulso, zigzagando tra le riforme prima annunciate e poi rinnegate. È fondamentale la tenuta dei conti, ma occorrono gli investimenti; è necessaria la crescita; è essenziale la ripresa dello sviluppo. Non si possono tagliare fuori i giovani. La riconquistata autorevolezza del Governo Monti in campo europeo deve esprimersi anche sul piano nazionale. L’agenda dei provvedimenti da adottare prima delle elezioni politiche deve essere precisa. La nuova legge elettorale deve consentire di passare dal cosiddetto Parlamento dei nominati a quello degli eletti. Il taglio dei costi della politica deve essere reale. Non può essere rinviato a tempi migliori. La riforma fiscale non può subire l’ennesimo rinvio a babbo morto. La delega fiscale ha come obiettivo la certezza del diritto e la semplificazione. I contenuti della riforma riguardano la revisione del sistema fiscale; l’aggiornamento del catasto e dei fabbricati; l’abuso del diritto; la nuova disciplina delle società; le semplificazioni. Si tratta di misure non risolutive ma necessarie. La delega fiscale non è la rivoluzione di cui il nostro sistema ha bisogno. Può però contribuire a svecchiare il sistema e a migliorare i rapporti di collaborazione tra contribuenti e Pubblica Amministrazione. Le imprese italiane sono soffocate dal carico fiscale. Il rapporto Paying taxes 2013 colloca il nostro Paese al 131esimo posto su 185. Gli investitori non cercano solo aliquote basse, ma anche norme stabili e semplici. Il direttore del Sole 24 Ore, Roberto Napoletano, ha ricordato che sulla questione fiscale l’allora ministro delle Finanze Ezio Vanoni negli anni 40 e 50 intervenne più volte diminuendo le aliquote, diffondendo il senso di giustizia, controllando la spesa senza rinunciare agli investimenti produttivi, risanando il bilancio dello Stato, insegnando agli italiani a fare la dichiarazione dei redditi. Di grande attualità è l’intervento che Ezio Vanoni fece in Parlamento il 26 luglio 1949 presentando il disegno di legge sulla perequazione tributaria e sul rilevamento fiscale straordinario: «Onorevoli senatori, il fenomeno dell’evasione fiscale oggi si verifica su scala preoccupante e compromette un’equa distribuzione dei carichi tributari. In una simile situazione la pressione tributaria diviene vessatoria e veramente insopportabile per gli onesti e per le categorie di contribuenti che non possono sfuggire all’esatta determinazione dell’imposta per motivi tecnici. L’evasione, specie rispetto a taluni tributi sulla produzione e sugli affari, assume i caratteri di uno strumento di concorrenza sleale, così da compromettere i normali rapporti economici e di spingere sulla strada della frode fiscale una schiera sempre più numerosa di contribuenti». Siamo sul ciglio del burrone: la pressione fiscale sulle imprese e sulle famiglie è insostenibile. C’è troppa flemma. C’è una sottovalutazione della protesta che si esprime sempre di più nelle piazze. C’è un distacco crescente tra le istituzioni e il Paese reale. È sbagliato, sbagliatissimo chiudere gli occhi. La disoccupazione, i giovani senza lavoro, i cinquantenni rimandati a casa, le imprese che chiudono o mettono in cassa integrazione, il debito, la crescita disomogenea, l’iniquità fiscale, il divario sociale, l’arroganza della politica, impongono un’assunzione di responsabilità e una capacità di intervento che le forze politiche, economiche, sociali devono ritrovare ed esercitare. 

Tags: Gennaio 2013 agricoltura Europa IVA Unione Europea Giorgio Benvenuto infrastrutture

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