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La «tre giorni» della conferenza di Tokyo 2016

Lucio Ghia

Le 13 ore del volo diretto Tokyo- Roma AZ 785 dell’Alitalia su uno dei nuovi apparecchi 310, caratterizzate da un’accoglienza e da una cortesia degna delle migliori tradizioni giapponesi e dalle nuove divise delle hostess dell’Alitalia di colore rosso cupo, completamente diverse da quelle di colore verde e blu alle quali eravamo abituati, hanno fornito un’occasione lunga ed opportuna per riflettere «a caldo» su quanto è emerso dalla Conferenza di 3 giorni, dal 6 all’8 giugno 2016, dell’International Insolvency Institute (I.I.I.), tenutasi questa volta a Tokyo, a ridosso del G7 e più o meno negli stessi ambienti.
Il tema «sostanziale» dei lavori ha riguardato la fisiologica ristrutturazione delle imprese e le nuove sfide che la tecnologia, specialmente qui nella patria dell’elettronica, ogni giorno propone. Il tema giuridico di fondo, che ha fatto da collante alle numerose relazioni e ai diversi interventi, ha affrontato la necessità di assicurare alle imprese in crisi, situazione patologica quanto ricorrente in tutte le latitudini, legata alla vita dell’impresa, ai finanziamenti adeguati alle dimensioni della sua riorganizzazione, alla ristrutturazione dei debiti, alla razionalizzazione della produzione.
L’approfondimento delle normative che nei vari Paesi regolano le forme sempre più avanzate e moderne di sostegno finanziario destinate al superamento della crisi dell’impresa sono state illustrate a una platea di circa 250 rappresentanti di 46 Paesi da numerosi relatori tra i quali due italiani, Luciano Panzani, presidente della Corte d’Appello di Roma, e chi qui scrive. Certo la distanza tra l’approccio della normativa italiana in tema di crisi d’impresa rispetto a quella mondiale è davvero apprezzabile. In realtà è emerso un «salto» paragonabile ai 9 mila chilometri che separano Roma da Tokyo, intellettualmente e culturalmente, reso più impervio dalla evidente difformità dei sistemi legislativi illustrati dai relatori, frutto della diversità dei valori che le diverse legislazioni nazionali, vogliono realizzare. Alla varietà della «ratio legis» attuata dai legislatori domestici, è strettamente legata la diversità degli strumenti giuridici utilizzati nei vari Paesi.
Certamente non possono essere automaticamente importate tutte le esperienze, sulle quali si sono intrattenuti relatori del calibro di James M. Peck, il giudice del caso Lehman-Brothers; Charles W. Mooney Jr. dell’Università della Pennsylvania Law School; il giudice David Richards della Royal Courts of Justice di Londra; Donald S. Bernstein di New York, presidente dell’Istituto I.I.I., e molti altri autorevoli esperti di procedure concorsuali tra i quali i giapponesi Nobuchika Mori, commissario della Financial Services Agency; Shinjiro Takagi della Nomura Securities Co.; Min Han-Ewha Womens University Law School- Seoul, Korea per citarne solo alcuni. Certamente non si può paragonare il contesto americano a quello italiano od europeo, ma pur tenendo conto delle rispettive diversità ontologiche alcune linee di tendenza possono essere utilmente colte.
Anche nel nostro Paese, le molte risorse costituite dal risparmio italiano non vengono destinate, se non in parte, a sostegno delle necessità dell’industria italiana. Basta pensare ai programmi d’investimento che i vari «private bankers» ci offrono attraverso l’acquisto di quote di Fondi internazionali, i vari Black Rock, Pioneer Investments, Carmignac e tanti altri, per constatare quanta parte del risparmio italiano si sposti sui mercati esteri. Peraltro molti di questi finanziamenti hanno collocazione esclusivamente «cartacea», e non industriale; solo alcuni, pochi, ritornano sul nostro territorio, a favore delle nostre imprese.
Mentre le statistiche, anche a livello europeo, di cui disponiamo, mostrano che i finanziamenti originati nelle «piazze» americane ed indirizzati all’Italia costituiscono solo il 25 per cento di quanto viene investito in Germania e meno del 50 per cento di quanto viene investito in Francia. Paesi a noi vicini e per i rispettivi contesti socio-economici, assimilabili.
Ci siamo già soffermati su queste colonne sul perché ciò avvenga, e sui nostri punti di debolezza, certo è che questi punti di debolezza devono essere superati con assoluta urgenza, perché la linea dei finanziamenti internazionali destinati al risanamento economico e produttivo delle imprese non si muove nella nostra direzione.
La Conferenza della I.I.I. ha confermato quanto era già emerso nell’ultima riunione avuta a novembre tra i componenti della task force della World Bank sull’insolvenza, sottolineando l’obiettivo di particolare protezione del valore del finanziamento estero rispetto alle altre tipologie di crediti, e non mi riferisco agli investimenti nel capitale della società in crisi, ma di crediti finanziari e bancari.
Vediamo in sostanza di che si tratta. Il nuovo che avanza segna il tramonto di alcuni «totem» giuridici che secondo la nostra cultura concorsuale erano considerati inviolabili. Primo tra tutti il principio della «par conditio creditorum», destinata a sventolare a mezz’asta la nostra «bandiera», rappresentata dall’art. 2740 del codice civile, ovvero tutti i creditori nella universalità del concorso devono essere trattati nello stesso modo, ovviamente in ragione del loro rango se creditori privilegiati (art. 2741 c.c.), secondo le diverse classi, stabilite per legge. Il tema è effettivamente molto complesso quanto significativo, in realtà condizionato dalla risposta a un secondo interrogativo: «perché i vecchi creditori devono essere trattati peggio rispetto ai nuovi creditori che intervengono per risanare l’impresa in crisi»? La risposta è molto pragmatica, «targata» prevalentemente Usa, ma condivisa anche dalle «best practicies» giapponesi. I creditori precedenti al manifestarsi della crisi hanno finanziato l’impresa accettandone il rischio, che si è poi materializzato negativamente. Se la crisi non viene superata i loro crediti verranno travolti dalla liquidazione dell’impresa con la perdita di valori immateriali che solo il «salvataggio» preserva. Per attuarlo occorre nuova finanza. La nuova finanza necessita di garanzie e di protezione particolari. Ciò significa che ai nuovi creditori devono essere attribuiti diritti di rango superiori e prioritari rispetto a quelli dei creditori precedenti.
Restare indietro in questa corsa fra le varie risposte normative che i diversi Paesi stanno approntando, tralasciare questo orizzonte, significa arretrare ancora di più nella capacità di attrarre finanziamenti esteri. L’impoverimento conseguente per le nostre imprese, si riflette sulla nostra ricerca, sulla capacità di competere; significa divenire preda di gruppi finanziari sempre più esteri, che comprano le nostre idee quando sono buone, come i nostri «cervelli» migliori che portano all’estero. Gli investimenti fatti dal Paese nella loro formazione si perdono così senza «ritorni».
Il problema emerge in tutta la sua rilevanza quando si partecipa a tavoli internazionali nei quali si discute sul come superare le difficoltà economiche e finanziarie che si presentano per l’impresa, come vincere le inevitabili sfide produttive e commerciali.
Se oggi sembra messo in discussione un capo saldo della nostra cultura concorsuale ovvero il trattamento paritario dei creditori dello stesso rango, mi sembra fuori luogo farne una battaglia ideologica, perché l’urgenza e l’essenzialità delle esigenze dell’impresa in crisi sono tali che i diritti dei creditori antecedenti non possono essere considerati uguali a quelli dei «nuovi finanziatori». Infatti, solo la «nuova finanza» che occorre per «ripartire», dà la possibilità ai vecchi creditori di essere soddisfatti, nella consapevolezza che «senza quella nuova finanza» anche loro subiranno un pregiudizio ben più grave. Ecco allora emergere un forte sbilanciamento di interessi, che non hanno posizioni identiche sui piatti della bilancia. Il nuovo danaro vale di più del vecchio, il nuovo creditore è più essenziale, il vecchio si potrebbe dire «ha già dato», ha corso i suoi rischi, ha sbagliato nelle sue valutazioni, il nuovo corre dei rischi maggiori perché deve intervenire in una situazione già gravemente compromessa, e lo fa anche nell’interesse del vecchio creditore.
Conseguentemente il «nuovo» creditore andrà tutelato, specie in sede esecutiva, quando dovrà escutere le garanzie che assistono il suo credito. Il meccanismo previsto in molte legislazioni assicura il rispetto delle pattuizioni contenute nell’accordo di costituzione della garanzia, anche in caso di fallimento del debitore e/o del garante. Lo scenario conseguente che potrebbe essere aperto anche al nostro Paese, necessiterebbe, però, della preventiva creazione di un «registro elettronico» ove annotare la concessione delle garanzie ed i diritti a favore del creditore garantito da far valere in sede esecutiva.
Per quanto attiene a profili più generali va rimarcato quanto è emerso dalla discussione animata da importanti interventi, che ha fatto seguito alle relazioni: la nuova cultura della crisi d’impresa ha necessità di creare anche un «nuovo» professionista. Colui che dovrà affrontare queste tematiche avrà, infatti, necessità di punti di riferimento normativi e finanziari più globali, dovrà conoscere linee di tendenza dalle quali oggi non si può più prescindere, espresse da organismi sovranazionali quali la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale che giocano un ruolo essenziale nel sostegno, attraverso la finanza internazionale, della salute economica dei vari Paesi.
Tali indirizzi si confrontano con l’esperienza, la solidità, la possibilità di penetrazione nei sistemi giuridici nazionali che solo le Nazioni Unite possono offrire, ed in particolare l’Uncitral; ovvero la Commissione Permanente delle Nazioni Unite, fondata a metà degli anni ‘60 che raccoglie 60 Paesi ad economie avanzate, ed in via di sviluppo, una trentina di altri Paesi come Osservatori, ed altrettante Organizzazioni non governative. Questa platea, rappresentata da oltre 150 delegati di varie Nazioni, costituisce il polo di identificazione delle problematiche, nella loro dimensione giuridica, alla base dei grandi temi internazionali del momento, e ne delinea le prospettive alle quali i vari legislatori nazionali dovranno ispirarsi. Le sue «linee guida», o «modelli di legge», diventano nella realtà economica e finanziaria internazionale, veri e propri «benchmark»; ovvero misuratori di efficienza internazionali dei sistemi giuridici nazionali e costituiscono la base per l’attribuzione, in relazione alla loro adozione, di un «rating» di affidabilità diverso fra vari Paesi.
Se dobbiamo competere su scenari così internazionali, così globali, dobbiamo fare i conti con queste realtà, e non possiamo ignorare i «benchmark» che ci vengono proposti da questi organismi che dominano il sistema concessorio della finanza internazionale. Ecco che il «nuovo professionista», impegnato nel risanamento di un’impresa che operi su mercati internazionali, deve possedere un «sapere» particolare. Ciò non significa necessariamente appiattirsi su esperienze o culture straniere, né rinunciare alla propria storia, ma partecipare a confronti internazionali capaci ed in grado di «stare a tavola» e di parlare lo stesso linguaggio della «finanza globalizzata».
Oggi i nostri giovani devono necessariamente internazionalizzare il proprio sapere perché il fenomeno collegato all’allargamento dei nostri orizzonti operativi, porta il nuovo professionista a lavorare non più solo in contesti domestici o europei ma contemporaneamente oggi a confrontarsi con colleghi di New York, come di Tokyo, Mosca o Londra, Hong Kong, etc. Queste sono sfide che non attendono, ed è questa l’atmosfera che, impreziosita dall’antico e gradevole rituale dell’ospitalità giapponese, ha offerto la tre giorni della Conferenza di Tokyo 2016, realizzata dall’International Insolvency Institute.    

Tags: Luglio Agosto 2016 imprese Lucio Ghia giappone tokyo Uncitral

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