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capitali stranieri: per quali motivi dovrebbero essere investiti in italia

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

I capi - o meglio i capitali - che sono scappati dalla «stalla» italiana sono troppi. Occorre chiudere al più presto i cancelli. E costruire contemporaneamente un «corral» diverso. Ossia un ambiente economico che abbia caratteristiche internazionali e non provinciali; che non faccia venir voglia di nuove fughe ma che, anzi, sia così confortevole da favorire qualche ripensamento. Se per caso non ci fossero progetti all’altezza, sarà bene prendere esempio da architetti stranieri, quelli inglesi per esempio. Che in Italia vi sia un disperato bisogno di riequilibrare i conti pubblici è risaputo. Le spese aumentano a vista d’occhio: un grafico recentemente divulgato dalla Ragioneria generale dello Stato proietta nel medio e nel lungo periodo la spesa sanitaria e rivela che, soprattutto a causa dell’invecchiamento della popolazione, saremo costretti a far fronte a costi medi di 16 miliardi di euro l’anno, tanto quanto versiamo all’Europa. Questo dato spiega le preoccupazioni del presidente del Consiglio Mario Monti sulla sua sostenibilità. E spiega pure perché ci siano state tante difficoltà a trovare i necessari accordi in tema di bilancio europeo, con la decisione ultima di rinviare la trattativa a tempi migliori. Mettere d’accordo i Governi europei non era indubbiamente facile, ma è logico che, quando il portafoglio è vuoto, le tensioni in famiglia aumentano, soprattutto se la famiglia è composta di 27 membri come quella europea. E se si conta sulla famiglia proprio per superare i momenti di difficoltà. Consola poco che Monti abbia spiegato agli investitori arabi come il Governo tecnico sia riuscito a domare l’incendio interno e a scongiurare il tracollo dell’intera economia continentale. I soldi mancano sempre, e la crisi del debito si fa sentire. Ma, soprattutto, si fa sentire la mancanza di un sistema fiscale che sia equilibrato al punto tale: da non spaventare chi vuole investire in Italia; da non far scappare chi in Italia vorrebbe economicamente rimanere; da garantire un livello di tassazione ragionevole. Non è stato facile per Monti - ad Abu Dhabi alla fine dello scorso novembre - dare risposte agli arabi che gli chiedevano una sola ragione per dover guardare alla prospettiva di investimento in Italia anziché in Asia o in Africa. Il premier ha sottolineato che l’Italia è ormai in un solco di riforme irreversibile. E, a dire il vero, l’ultimo rapporto Ubi-Centro Einaudi parla di segnali di ripresa, anche se l’Italia appare incagliata. Le perplessità comunque restano. Ed esplodono le contraddizioni quando il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi parla di Eurozona in recessione anche per il 2013. Draghi scrive sul «Corriere della Sera» che il risanamento deve essere basato su tagli e non su aumenti di tasse. Il suo omonimo Monti punta in gran parte sui balzelli: quelli valutati o messi a punto durante il dibattito sulla legge di stabilità sono degni dello sceriffo di Nottingham. Per punire i 2.366 contribuenti con reddito dichiarato superiore a un milione di euro, sono stati studiati provvedimenti che accelerano le scelte di quanti vogliono lasciare economicamente il Paese e non tornare mai più. Non deve trarre in inganno il fatto che negli Stati Uniti, per evitare il «fiscal cliff», il precipizio economico di fine anno, si sia creata una tendenza a riproporre elevate aliquote sui redditi alti, sottolineata dalle dichiarazioni seguite alla seconda vittoria di Barack Obama e al calo di consensi di Grover Norquist, l’eminenza grigia del conservatorismo americano, fautore degli sgravi fiscali ai ceti abbienti. In Italia il problema non è tassare o meno i ricchi, ma realizzare una «strategia fiscale». Il Congressional Research Service, qualificato Centro studi del Parlamento di Washington, ha recentemente ripercorso la storia della tassazione in America a partire dal 1945, rilevando che l’obiettivo ideale è raggiungere una struttura equilibrata del prelievo fiscale. La prolusione tenuta da Mario Draghi all’inaugurazione dell’anno accademico della Bocconi è esplicita: occorre puntare sulle riduzioni di spesa corrente e non su nuove tasse. Ma per l’Italia c’è un compito in più: stanare gli evasori. I vecchi e i nuovi evasori. Infatti, se anche in seguito ai nuovi provvedimenti disegnati nel preparare la legge di stabilità, ma soprattutto in relazione al delinearsi di un quadro politico frammentato su cui incombe anche l’avvento di nuovi protagonisti, nel nostro Paese si allarga a macchia d’olio il fenomeno dell’esportazione illecita di capitali, emergono però nuove forme di evasione ed elusione che hanno per protagonisti i grandi colossi dell’informatica. E mentre per quanto riguarda il primo lato si profila per Natale, fra smentite governative e dichiarazioni diplomatiche affermative, un’ipotesi di accordo tra Italia e Svizzera volto a favorire il rientro pilotato dei 125 miliardi di capitali detenuti in quel Paese da italiani - che rappresentano circa il 45 per cento del totale di quelli detenuti all’estero da nostri connazionali -, per quanto riguarda il secondo lato emergono le «marachelle fiscali» di Amazon, Apple, Ryanair, Google: quest’ultima avrebbe eluso redditi per 240 milioni di euro. Il meccanismo non è stato negato, ma è anzi stato spiegato dal sottosegretario all’economia Vieri Ceriani, e consiste nel pagare le tasse - in modo consentito dalle leggi secondo gli avvocati di Google - in Irlanda e non Italia. Un’inchiesta del settimanale Sette del Corriere della Sera aggiunge ulteriori dettagli riguardanti i big di Internet, Apple, Microsoft e Amazon Italia, raccontando come i meccanismi collegati al fisco irlandese e ad altri paradisi fiscali possano tranquillamente essere usati da chi li conosce per sottrarsi al fisco italiano. C’è da chiedersi a questo punto quanto possa essere importante - senza combattere in parallelo queste grandi forme di elusione - introdurre in Italia norme che appesantiscono il clima delle relazioni tra cittadini e Stato come l’anagrafe dei conti bancari, con la possibilità di filtrare i bonifici e i saldi di conto corrente. Questa pare solo un ulteriore spauracchio per le famiglie italiane - che oltretutto, secondo l’Istat, sono al 56 per cento in difficoltà, si sentono deprivate e pessimiste verso il futuro -, ma non intacca minimamente il nocciolo duro dell’evasione. Ricostruire il «corral»: ecco cosa occorre fare. Smettere di far uscire capitali e dare ad essi valide ragioni per restare o per tornare in Italia. Non basta dire a Google che deve versare al fisco italiano poco meno di 100 milioni di euro di tasse eluse: la società risponderà che rispetta le leggi in tutti i Paesi in cui opera. Probabilmente perderà la causa, così come sta capitando in Francia per un’analoga contestazione. Ma non perderà l’attenzione ai sistemi fiscali extra italiani. Ecco perché bisogna rendere attraente l’ambiente tributario: per evitare che i colossi pensino a soluzioni di pianificazione fiscale internazionale ed evitino del tutto il nostro Paese; che, lungi dal considerarlo un possibile punto di approdo per i capitali, lo considerino una zona rischiosa, una terra arida da evitare. Riformare l’ambiente tributario non è una passeggiata. Ma occorre elaborare una strategia complessiva e non fermarsi alla detraibilità degli scontrini dalle tasse o ad altri tipi di contrasto d’interessi. In Italia, invece, nell’ultimo periodo si è parlato di riordino fiscale solo con attenzione ai «piccoli»: sospetto di evasione fiscale per una famiglia su 5; Imu imperversante, più progressiva della vecchia Ici ma sperequata perché basata su rendite catastali antiquate; introduzione della «macchina della verità» fiscale, con un reddi-test ricco di paradossi che decide se l’ammontare delle spese sostenute dal singolo cittadino è coerente o meno con i suoi redditi. E l’elenco potrebbe continuare. Ma, oltre a far emergere il «nero», occorre pensare in grande. Il fisco tedesco ha stanato per 124 milioni l’Hypovereinsbank del Gruppo Unicredito. E noi? Mentre le piccole e medie imprese italiane sono sottoposte, secondo i dati della World Bank nel rapporto Doing Business 2011, a una pressione fiscale complessiva del 68,6 per cento, le multinazionali versano al nostro fisco cifre irrisorie. Occorre perciò evitare che dilaghino le scelte offshore, ed ha ragione chi sostiene che bisognerebbe introdurre nella normativa le nozioni di simulazione fraudolenta. È arrivato il momento di bilanciare con sistemi fiscali equilibrati le degenerazioni legate ai paradisi fiscali. L’ha ben capito Londra, che ha riletto il proprio sistema alla luce del ruolo esercitato dai territori posti sotto la sua giurisdizione, tipo le Isole del Caimano, che ormai sono il quinto centro finanziario del mondo, e le sue «sorelle» Jersey, Guernsey e Isola di Man, le quali nella crisi generata dalla finanza le hanno garantito protezione su speculazioni che hanno moltiplicato la propria ponderanza rispetto all’economia reale. Ora il Governo inglese segue un programma volto a mantenere le attrattive fiscali ma con particolare rigidità nei confronti dei «furbi» i quali, se scovati, vengono fotografati ed esposti sui media mostrando la loro posizione debitoria e il danno prodotto da ciascuno verso i contribuenti britannici. I consulenti noti per creare schemi di elusione fiscale sono stati obbligati a comunicare al fisco i loro clienti: ciò farà recuperare 6,4 miliardi annui. È stato creato nel contempo un team di psicologi antievasori che hanno recuperato la relazione Stato-cittadino. Non era più sostenibile che Facebook pagasse imposte per 238 mila sterline di fronte a 175 milioni di reddito facendo figurare in Irlanda la propria operatività, così come Ebay che risparmia fino a 650 milioni di sterline usando legalmente quartieri generali in Irlanda e Lussemburgo, o che Amazon abbia registrato profitti per 3,2 miliardi senza pagare nulla mentre Google su 4 miliardi di fatturato abbia pagato imposte per 6 milioni. Perciò è stato pensato un fisco molto più duro per i furbi. In tale contesto il premier inglese Donald Cameron, dopo aver constatato che l’aumento delle aliquote al 50 per cento aveva generato evasione, ha deciso di ridurle al 45 per cento sui redditi di 104 miliardi e ha ridotto anche la Corporate Income Tax al 24 per cento, con prospettiva di arrivare al 22 nel 2014 per poi arrivare al 20. L’obiettivo? Far emergere la base imponibile e assottigliare l’evasione, nonché incentivare la produzione di ricchezza favorendo la ripresa economica e l’occupazione, e consolidando la concorrenzialità dell’Inghilterra sul piano europeo e internazionale. Nel contempo è stato disegnato un contesto tributario che non ricorre al sistema degli studi di settore, e nel quale, se l’azienda è a credito di Iva, il fisco le versa l’importo sul conto bancario automaticamente; se poi versa le imposte in anticipo, accredita sul suo conto gli interessi attivi maturati, mentre nei pagamenti non si effettua alcuna ritenuta d’acconto. Il fisco inglese mira ad avere un rapporto corretto con i contribuenti. È duro con i furbi, ma fa respirare le imprese. Nel sistema sono esenti da tassazione i capitali dei residenti non domiciliati, destinati a imprese che svolgono attività di costruzione o affitto di proprietà a carattere commerciale, e sono stati ridotti gli obblighi di revisione contabile mentre i termini di controllo dei bilanci sono stati limitati a 4 anni. Inoltre i supporti finanziari per le società di produzione cinematografica sono stati estesi a chi produce videogiochi, cartoon e programmi tv. Ne guadagna la capacità attrattiva del sistema fiscale che diventa però rigorosissimo. La Gran Bretagna punta a risalire le posizioni perdute dal 1997 a oggi sul piano dell’appetibilità per gli investitori esteri. E ci riesce: uno studio di Confindustria-Deloitte evidenzia che su un utile di circa 900 mila euro il netto è pari a circa 525 mila in Gran Bretagna, contro i 380 mila in Italia, 350 mila in Francia, 460 mila in Germania. La tassazione complessiva sui dividendi nel Regno Unito è pari al 39 per cento contro il 71 della Francia, il 66 dell’Italia, il 47 della Germania. Un altro confronto deve far riflettere: la pressione fiscale sul prodotto interno in Italia è pari al 55 per cento, in Danimarca al 47,4, in Francia del 46,3, in Belgio e Svezia del 45,8, in Germania del 40,4, nel Regno Unito del 38,2, in Spagna del 33,3, in Giappone del 30, in Usa del 26,3 per cento. Le imprese muoiono di fisco, ha detto il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi. Giusto: se non si cambia strada riducendo il peso fiscale sui contribuenti ma rendendo severi controlli e sanzioni, sarà davvero difficile per noi attirare investimenti e generare benessere. 

Tags: Gennaio 2013

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