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Idee per una politica condivisa, di coesione e di sviluppo

GIORGIO BENVENUTO  presidente della fondazione  Bruno Buozzi

«Udite, udite o rustici, attenti, non fiatate. Io son quel gran medico, dotto enciclopedico chiamato Dulcamara…. Benefattor degli uomini, riparator dei mali, in pochi giorni io sgombro, io spazzo gli spedali, e la salute a vendere per tutto il mondo io vo, compratela per poco io ve la do». Così canta nell’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti la figura di Dulcamara, un ciarlatano che vende un liquido prodigioso, capace di risanare ogni male.
Nella seconda repubblica sono apparsi e continuano ad apparire tanti politici che, come Dulcamara, promettono mari e monti dicendo di essere capaci di risolvere in quattro e quattrotto i problemi più complicati. Le tasse? Vanno abbassate a tutti. I sindacati? Vanno sciolti. Equitalia? Va abolita. La disoccupazione? Va contrastata con il reddito minimo di cittadinanza. Gli emigrati? Vanno rimandati nei loro paesi. L’Euro? Deve tornare la lira. E così via.
C’è sempre chi sfrutta gli istinti e le passioni per sopraffare la ragione. Si è trascinati in una utopia. È innegabile che in tanti soffrano la globalizzazione, l’immigrazione incontrollata, la povertà. Il benessere economico collettivo è un delicato equilibrio tra imprenditoria, mercato e cittadini; non lo sono le fandonie di demagoghi.
Ci siamo illusi che la gente si potesse rassegnare ad un welfare smontato a piccole dosi, un ticket in più, un asilo in meno, una coda più lunga. La prima Repubblica è stata sepolta in una fossa comune; si è rinnegata la sua storia; si sono cancellati l’orgoglio, la passione, l’impegno, la solidarietà, la capacità di progettare il futuro. È così che si sono rafforzati, anno dopo anno, l’antipolitica e l’individualismo. È così che si sta ora distruggendo l’idea stessa della democrazia. È ciò che avviene in Europa, nel mondo.
Gli organismi multinazionali non riescono più a coordinare le politiche economiche e sociali. La maggiore inconsistenza è quella delle istituzioni politiche e sociali in Europa. Willy Brandt diceva che il Partito Socialista Europeo è il miglior posto dove leggere con tranquillità i giornali del proprio Paese. Lo stesso si potrebbe dire delle organizzazioni europee, dei sindacati e delle imprese. Lo stesso si potrebbe dire anche del Parlamento Europeo. Non contano nulla, sono istituzioni puramente formali. Appaiono purtroppo inutili. Anzi, molti dei loro componenti, temo, non sono nemmeno in grado di leggere i giornali.
Ezio Mauro ha parlato di un «cambiamento senza progetto, senza alleanze sociali, senza uno schema di trasformazione, cambiamento per il cambiamento…. senza la competenza e l’esperienza…. che si chiama trasmissione della conoscenza, del sapere, delle emozioni condivise. Tutte cose che altrove fanno muovere le bandiere di un partito, consapevole di avere un popolo che in quelle insegne si riconosce. Le bandiere ora sono flosce, come se vivessimo sulla luna, dove non c’è vento».
«Il riformismo classico–scrive Sansonetti–è morto, perchè da troppo tempo non produceva più riforme. Può sopravvivere un melo che non dà più le mele, un vigneto che non fa l’uva? Il primo centrosinistra negli anni settanta aveva riformato la scuola, aveva varato lo Statuto dei lavoratori; aveva nazionalizzato l’energia elettrica; aveva introdotto il divorzio; aveva aumentato i salari nelle fabbriche e rafforzato i diritti sindacali; aveva cancellato l’analfabetismo; aveva, insomma, ridotte le disuguaglianze».
Negli anni settanta i Governi di Solidarietà Nazionale e la Federazione Cgil, Cisl, Uil, avevano riformato la sanità, gli affitti, i patti agrari, la psichiatria; avevano legalizzato l’aborto; avevano permesso l’obiezione di coscienza.
È ora entrata in crisi l’Europa. È uscita in seguito ad un referendum l’Inghilterra. Alla base di quel voto c’è stata la convinzione che il ritorno alla piena sovranità nazionale potesse garantire controllo e sicurezza. È, rispetto alla globalizzazione, un calcolo sbagliato. Ma la paura annulla ogni ragionamento. L’Europa deve proteggere, deve garantire, deve controllare. Se non è capace di farlo è inevitabile che in ogni Paese dell’Unione europea i cittadini pensino che solo la bandiera nazionale li potrà rassicurare. I cittadini constatano «disperati» che oggi gli unici ad essere tutelati dalle istituzioni comunitarie sono i vincitori della globalizzazione.
L’Europa non unisce, non è capace di fare coesione. I diritti dei lavoratori si riducono, il precariato si legalizza, le pensioni diminuiscono, i sindacati sono emarginati, l’economia e il mercato sovrastano lo Stato. È uno scenario incerto, preoccupante, insicuro. Ecco perché ora, più di ieri, si avverte la necessità di un vero riformismo capace di immaginare il futuro.
L’Italia è ad un punto di svolta. È stato osservato, in un interessante articolo di Sansonetti, che le riforme immaginate dal Governo Renzi (abolizione del Senato e dello Statuto dei lavoratori) tendono a rendere più governabile il Paese. Non riescono però a modificare, a favore dei più deboli, i rapporti sociali ed economici. La povertà assoluta in Italia nel 2015, in base alle rilevazioni Istat, è aumentata. I poveri sono 4.600.000, pari al 7,6 per cento della popolazione. L’incidenza della povertà è maggiore nel Mezzogiorno.
Le persone in povertà o non hanno potuto usufruire degli 80 euro, perché incapienti, o li hanno addirittura dovuti restituire perché indebitamente percepiti. Infine i minori in povertà assoluta dal 3,9 per cento nel 2005 sono passati al 10,9 nel 2015: in termini numerici sono più del doppio degli anziani: 1.131.000 rispetto a 538.000. L’attività politica del Governo si è concentrata negli ultimi mesi solo sul Referendum sulla Riforma Costituzionale. È stata invece accantonata la battaglia per spingere il Paese sulla strada dello sviluppo e per ridurre le diseguaglianze che lo stanno frammentando.
La Brexit, la crisi degli istituti di credito, i dissensi con l’Unione europea, la pressione incontrollabile dell’emigrazione, l’aggravarsi della situazione internazionale, il terrorismo islamico, la fragilità delle infrastrutture, richiedono di ripensare ed aggiornare i criteri a suo tempo definiti della legge di stabilità per il 2017. Non c’è dibattito sulle misure economiche e sociali. Aumenta il disagio, la povertà, la disoccupazione, l’insicurezza.
I risultati delle ultime elezioni amministrative sono un segnale allarmante, preoccupante. Va analizzato. Non va demonizzato. Troppi annunci, troppe promesse, troppa superficialità. A che punto siamo nell’attuazione delle riforme? Ecco alcuni dati. Le riforme varate dal Governo Monti sono state attuate all’85,8 per cento; quelle del Governo Letta al 79,9 per cento, quelle del Governo Renzi al 56,2 per cento. In particolare 37 provvedimenti su 94 della legge di stabilità 2014 non sono stati attuati. È molto in ritardo, invece, l’attuazione della legge di stabilità per il 2015. Su 142 provvedimenti attuativi ne sono stati varati 40 (mancano all’appello 102 provvedimenti di cui ben 47 sono già scaduti).
Lo smaltimento delle norme attuative dipende, incredibilmente, anche dal fatto che provvedimenti già in vigore vengono cancellati per essere ricompresi nelle norme successive. È la conseguenza di un modo farraginoso e demenziale di normare, al quale il Parlamento è indotto per il ricorso continuo ai voti di fiducia su emendamenti interamente sostitutivi, elaborati in modo confuso e spesso improvvisato.
Pesante l’arretrato del ministero dell’Economia e di Palazzo Chigi. Su 34 normative di dettaglio solo due sono state varate dal ministro Padoan, mentre sei (su 33) sono quelle portate a termine dalla Presidenza del Consiglio. Due sono le urgenze da definire nella legge di stabilità. La prima è il problema del credito.
La politica insensata, superficiale, contraddittoria dei vari governi (Berlusconi, Monti, Letta e Renzi) nei confronti del sistema bancario (a volte demonizzato, a volte gratificato) ha indebolito le banche italiane. Ora valgono molto meno in Borsa. Le riforme improvvisate calate dall’alto (quelle ad esempio sulle banche popolari e sul credito cooperativo) hanno trasformato molte banche in prede ghiotte per gli investitori stranieri. Si è trascurato che in Italia il sistema delle piccole e medie imprese, non potendo quotarsi in borsa, si è sempre approvvigionato per il credito rivolgendosi alle banche.
Il Governo Renzi si è mosso come un elefante in un negozio di cristalleria. È sconcertante come si è subìto il Bail-in. Il parere del Parlamento europeo è stato positivo quasi all’unanimità. Nessun parlamentare europeo italiano si è opposto. Il Governo italiano si è accorto in ritardo delle conseguenze negative per il nostro Paese; cioè quando i giochi erano stati fatti.
La Banca d’Italia a sua volta non ha capito le conseguenze delle direttive europee. È oggi stucchevole assistere al rimpallo delle responsabilità. All’ultima assemblea dell’Abi né il ministro Pier Carlo Padoan, né il Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, hanno saputo dare delle risposte convincenti alle precise, ragionevoli, chiare, richieste del presidente Antonio Patuelli. Hanno svolto degli interventi vaghi, generici, evasivi. Le misure consentite dall’Unione europea (un ombrello di 150 miliardi) grazie a Draghi, riguardano la liquidità; non sono applicabili né per gli aumenti di capitali né per ridurre le sofferenze.
Esiste il problema di unificare la vigilanza e, soprattutto, di rottamare molti degli amministratori delegati che continuano a ruotare da un istituto bancario all’altro, senza mai pagare pegno per i gravi errori commessi. Vanno rafforzate le prerogative delle organizzazioni dei consumatori, per evitare che le uniche garanzie oggi esistenti riguardino le banche e non i risparmiatori. È il caso della Mifid. È il caso del Bail-in. Anche le organizzazioni sindacali devono porsi il problema di stabilire nei contratti e negli accordi sindacali la tutela della professionalità dei lavoratori bancari, oggi costretti per fare carriera, ad ingannare i cittadini piazzando titoli «spazzatura».
L’altro caposaldo della legge di stabilità per il 2016 è la politica fiscale. Vincenzo Visco ha, in un recente articolo su Il Sole 24 Ore, sottolineato che ormai il fisco penalizza troppo le classi medie. Le imposte attuali (più o meno piatte: 27,5 fino a 15 mila euro; 31,5 fino a 28 mila euro; 42-43 per cento oltre i 28 mila euro; tutte al netto delle addizionali comunali e regionali) favoriscono i contribuenti ad alto reddito, tutelano i contribuenti più poveri e penalizzano in modo sistematico le classi medie. «In altre parole, il ridisegno dell’Irpef, al di là dei problemi di gettito, non è–dice Visco–questione banale, ma va al cuore degli equilibri politici e sociali attuali».
A ciò si aggiunge la denuncia del flop della lotta all’evasione nel 2015. La Corte dei Conti ha denunciato in un suo rapporto al Parlamento, il crollo dei controlli e degli incassi. Gli incassi versati dagli evasori individuati negli anni e costretti a pagare nel corso del 2015, arrivano ad appena 7,7 miliardi di euro, con una flessione rispetto al 2014 del 3,87 per cento. L’ammontare delle imposte evase che gli ispettori del fisco sono riusciti a trovare è calato del 17,7 per cento da un anno all’altro. Nel complesso le entrate dello Stato dovute all’attività di contrasto all’evasione dell’amministrazione finanziaria sono tornate ai livelli dell’inizio del decennio.
E anche in questo caso non tutti i contribuenti sono uguali, agli occhi del fisco italiano. Dipendenti e piccole imprese sono stati attentamente monitorati. Le categorie che l’Agenzia delle Entrate ha maggiormente risparmiato sono state invece quelle dei grandi contribuenti e delle medie imprese. La regola seguita in passato dal fisco di concentrare i controlli su tutti gli enti e i redditieri più ricchi, dove è più facile individuare con pochi sforzi grosse quantità di «nero», sembra sia stata abbandonata.
Scrivono i magistrati della Corte dei Conti che la distribuzione dei controlli effettuati fra le diverse tipologie di reddito «mette in luce un’accentuata flessione degli accertamenti» proprio in quelli operati nei confronti delle maggiori società (meno 12,2 per cento). Di conseguenza si è più che triplicato il valore delle imposte evase in queste fasce di reddito rispetto all’anno prima (meno 38,2 per cento).
Aumentano invece i fenomeni patologici, come l’enorme crescita delle imposte dichiarate e non versate e l’abnorme numero di accertamenti fatti dall’Agenzia delle Entrate in automatico e per inerzia. Sono le cartelle che seminano il panico tra i malcapitati destinatari e che sono in gran parte condannate a diventare poi inesigibili. Secondo la Corte dei Conti questi risultati negativi vanno messi in stretta correlazione con la riduzione delle risorse umane destinate all’attività di accertamento e controllo, che, si osserva, sono diminuite del 6,5 per cento nell’ultimo quinquennio.
Una tendenza aggravata l’anno scorso, per la magistratura contabile, dalla sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittime le norme che davano la possibilità di attribuire incarichi dirigenziali e potere di firma delle cartelle esattoriali, ai funzionari di terza fascia. Il Governo è intervenuto su: semplificazioni fiscali, tassazione dei tabacchi, fatturazione elettronica, internazionalizzazione delle imprese, contenzioso tributario, sistema sanzionatorio, stima e monitoraggio dell’evasione e dell’erosione fiscale, composizione delle commissioni censuarie.
Il Governo Renzi non ha invece esercitato le deleghe sui temi della riscossione degli enti locali, della revisione del Catasto e dell’imposizione sui redditi d’impresa, della razionalizzazione dell’Iva, della disciplina dei giochi pubblici e della revisione della fiscalità energetica e ambientale. Sul reddito d’impresa sono andate deluse le aspettative delle piccole aziende: «La discussione–racconta Claudio Carpentieri, responsabile delle politiche fiscali della Cna, la confederazione degli artigiani–era sulla possibilità di tassare in modo ridotto il reddito lasciato in azienda. L’altro fronte aperto, anche questo abbandonato poi dal Governo, era quello di passare dalla tassazione per competenza, qual è quella che avviene oggi, alla tassazione per cassa».
Occorre una vera riforma del fisco, funzionale ad una politica di sviluppo dell’occupazione con il sostegno al sistema delle imprese per renderle competitive. Troppo tempo è stato perso. Ha ragione il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano. È necessario un nuovo patto per l’Italia. Maggioranza e opposizione devono ragionare su un percorso condiviso per definire un nuova patto per il Paese. Giorgio Napolitano indica i temi obbligati da inserire nel patto: il ruolo in Europa; un piano per la crescita, l’occupazione, il Mezzogiorno; un intervento risoluto e condiviso rispetto alla prevenzione del terrorismo e della mobilitazione per sconfiggerlo; una unione di intenti rispetto alla politica dell’emigrazione e dell’asilo.
È importante che nessuno faccia le orecchie da mercante. È, in questo contesto, necessario che si riapra il confronto tra il Governo, il Parlamento e le forze economiche e sociali. È tempo di proposte, di progetti, di idee. Rimbocchiamoci le maniche e non perdiamo l’occasione che ci si presenta.            

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