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Dopo aver contratto finanziamenti, a causa della crisi le famiglie non riescono più a pagare le rate

Fabio Picciolini, centro studi associazione  italiana istituti di pagamento e moneta elettronica

Sono 34 miliardi le sofferenze lorde delle famiglie consumatrici rispetto agli oltre 200 miliardi complessivi. Un dato interessante in quanto certifica che le sofferenze bancarie solo in minima parte (17 per cento del totale) possono essere ascritte alle famiglie. Rilevante anche il fatto che 20,2 miliardi, pari al 60 per cento del totale, sono assistiti da garanzia reale in quanto relativi a mutui accesi per acquistare una casa. Il debito residuo dei finanziamenti accesi da quelle famiglie, sulla base dell’importo erogato e della vita residua, è di circa 80 mila euro.
Con tali numeri si può affermare che le famiglie che rischiano di perdere la propria abitazione sono circa 250 mila. Nuclei famigliari che stanno vivendo il dramma del recupero dei crediti, della cartolarizzazione del proprio mutuo (termine che probabilmente neppure sanno cosa significhi), delle procedure esecutive che si concluderanno, molto plausibilmente, con la vendita all’asta dell’immobile a condizioni certamente inferiori rispetto al reale valore dell’immobile. Con queste premesse e con queste cifre, considerando l’ulteriore presupposto che la vendita dei crediti in sofferenza a un prezzo intorno al 20 per cento del valore nominale, sembrerebbe inevitabile un «bagno di sangue» per i bilanci delle banche, come ha affermato nel luglio scorso Romano Prodi nel proporre una potenziale soluzione al tema delle sofferenze delle famiglie.
La proposta vede coinvolti alcuni soggetti, un Fondo immobiliare finanziato con soldi pubblici e privati, le banche creditrici e le famiglie debitrici. Il Fondo dovrebbe acquistare, a un prezzo congruo, tutte le sofferenze assistite da garanzia reale (20,2 miliardi) intorno al 50 per cento del valore del debito residuo, circa 40 mila euro. Il Fondo diverrebbe, conseguentemente, proprietario degli immobili che lascerebbe in locazione alle stesse famiglie dietro pagamento di un canone mensile. Molto bassa è la possibilità di riscatto dell’immobile stesso se la loro situazione finanziaria futura lo consentisse. È stimato un rendimento del fondo del 5 per cento che potrebbe essere utilizzato per procedere alla riattazione, ordinaria e straordinaria, degli immobili, aumentandone il valore.
Le banche dovrebbero cedere tutti i crediti garantiti al Fondo così da avere una perdita abbastanza limitata, considerato che gli accantonamenti sulle sofferenze già effettuati sono poco più bassi rispetto al «potenziale» prezzo di vendita. Le famiglie venderebbero la propria casa al Fondo, rimanendo come affittuari di lungo periodo, dietro pagamento di un canone sostenibile di qualche centinaio di euro (è ipotizzato 2 mila euro l’anno) e la possibilità di riscatto futuro dell’abitazione.
Un’operazione che sembrerebbe «win-win», in quanto il Fondo acquisirebbe a prezzi contenuti immobili, le banche rientrerebbero di circa 10 miliardi di euro (più di quanto otterrebbero cedendo sul mercato i crediti deteriorati) e libererebbero risorse per la concessione di prestiti alle stesse famiglie e alle imprese. Le famiglie coinvolte, a fronte della perdita della casa e che vedrebbero estinguersi il debito, rimarrebbero ad abitare la stessa casa potendola riacquistare in un’epoca successiva. Ulteriore «vincitore» sarebbe la giustizia ordinaria che vedrebbe molto ridotto il suo intervento in materia ma, soprattutto, la situazione sociale del Paese che potrebbe vedere un raffreddamento almeno delle tensioni abitative divenute pesanti in alcune zone. Una proposta molto interessante, non fosse altro perché affronta in maniera organica il tema degli interventi a favore delle famiglie in difficoltà.
Tralasciando inutili tecnicismi e numeri sorge, però, qualche dubbio sulla reale concretizzazione della proposta, almeno per due ordini di motivi. Il primo relativo al finanziamento del Fondo, il secondo alle scelte e ai comportamenti, anche psicologici, delle famiglie. Per il Fondo si prevede una doppia difficoltà: il finanziamento da parte del «pubblico» e il rendimento a favore degli eventuali privati partecipanti. Per la parte pubblica sembra abbastanza difficile un ulteriore intervento da parte della Cassa Depositi e Prestiti già impegnata, oltre che per la propria mission storica di sostegno allo sviluppo del Paese, a partecipare, almeno in questa fase, alle dismissioni pubbliche, e a finanziare altre iniziative, come il Fondo Atlante. Tutto appesantito dalla diminuzione del risparmio postale. Scarsamente ipotizzabile l’intervento del sistema bancario esposto per qualche miliardo nel sostegno a «consorelle» in difficoltà, o delle casse di previdenza che fanno difficoltà per un apporto di poche centinaia di milioni di euro al Fondo Atlante.
Per la parte privata il punto nodale è la scarsità del rendimento previsto. Come accade ormai da tempo agli investitori privati che hanno difficoltà a impegnarsi in Italia e, a fronte del rischio assunto, ragionano su rendimenti almeno a due cifre. Ammesso che su tutte queste difficoltà sia trovata la «quadra», rimane aperto il problema della capitalizzazione. Dieci miliardi non sono assolutamente facili da trovare. È sufficiente pensare che i Fondi Atlante 1 e 2 (ancora da costituire) non arriveranno a otto miliardi e la garanzia pubblica (GACS), concordata con la Commissione europea, prevede esborsi solo in caso che il ricavato dalla riscossione dei crediti deteriorati non consenta il rimborso integrale delle obbligazioni cartolarizzate. Circa gli immobili acquistati, il Fondo dovrebbe, infine, ragionare in termini di proprietà da detenere per un medio-lungo periodo. Non esistono i presupposti per la vendita massiccia di un numero elevato di abitazioni né la garanzia di una vendita a prezzi sostenibili. Peraltro, dovrebbe essere trovata una soluzione tra la vendita delle abitazioni e il diritto di riscatto rilasciato alle famiglie venditrici.
Parlando di famiglie si può passare al secondo aspetto che suscita dubbi. La proprietà dell’abitazione è, per le famiglie italiane, più di un diritto: circa l’82 per cento secondo le statistiche ufficiali, anche se il dato reale è più basso, è proprietario almeno della prima casa. Chiedere a una famiglia italiana di cedere la proprietà è, parafrasando il titolo di un vecchio film, una «proposta indecente». A prescindere dagli aspetti psicologici e dalle tensioni sociali, difficilmente misurabili al momento, c’è un esempio concreto che suffraga la difficoltà di tradurre in un’azione concreta la proposta di Prodi.
Qualche anno fa un importante istituto bancario fece una proposta diversa ma non distante, cui fui coinvolto personalmente. Si prevedeva, attraverso tre diverse possibilità, il pagamento di rate sostenibili da parte delle famiglie mutuatarie in difficoltà con i pagamenti, per impedire in molti casi la totale perdita dell’abitazione permettendo, comunque, di continuare a vivere nell’immobile e di poterlo riacquistare o riscattare.
Le soluzioni offerte furono il «friendly reposses» (vendita parziale) per le famiglie, in arretrato con i pagamenti, con difficoltà finanziarie transitorie nel medio termine e una bassa capacità di rimborso per le quali fosse impossibile sopportare i pagamenti previsti. Veniva proposta una vendita «amichevole», alla banca o a una sua società, con mantenimento della locazione per la famiglia stessa ad un canone più basso della rata. Il cliente entro cinque anni o a una data prefissata aveva la possibilità di scegliere se e quando riacquistare l’abitazione al prezzo concordato fin dal contratto originario di vendita.
La seconda proposta era il «partial reposses» attraverso il quale la banca (o una sua società) diveniva proprietaria dell’immobile in comunione con il mutuatario. Il ricavato della vendita era destinato all’estinzione di una parte del mutuo, abbassando così le rate future dietro pagamento, da parte del debitore, di un ridotto canone d’uso della casa per la quota non più sua; quota riscattabile in qualsiasi momento durante tutto l’arco della durata del mutuo.
Infine, fu «riesumato» un vecchio istituto giuridico: l’anticresi.
La scelta non ebbe il successo sperato. La stessa sorte, per le motivazioni sopra riportate, potrebbe avere la nuova proposta. Aspetti ulteriori dovrebbero essere «messi a punto» prima di passare alla fase di attuazione. La vendita, prima di tutto, dovrebbe essere volontaria, dovrebbe avere il consenso del nucleo familiare e dovrebbe dare la certezza della possibilità di riscatto. Inoltre, dovrebbe essere oggetto di riflessione la scelta di estendere l’iniziativa a tutti i mutuatari in crisi senza alcuna valutazione del reddito e di altre possibilità di risanare l’indebitamento. Dovrebbe essere prevista attraverso l’applicazione del «patto marciano» la totale estinzione del debito residuo.
Infine, dovrebbe essere attentamente affrontato e chiarito il motivo per cui si pensi solo ai crediti garantiti delle famiglie e non si affrontino anche situazioni similari e, soprattutto, dovrà essere affrontato il contenzioso sociale che si potrebbe aprire verso gli altri locatari, di immobili pubblici e privati, che hanno oneri per il pagamento delle rate di mutuo o di prezzi di locazione molto più alti di quelli previsti dalla proposta di Prodi. A queste obiezioni se ne aggiunge un’altra, che sempre più è oggetto di aspra contestazione: le misure che Governo e Parlamento hanno messo in campo per il sistema bancario. L’opinione di molti, a torto o a ragione, è che le banche siano state troppo aiutate rispetto ai loro comportamenti e alla loro gestione. Per far fronte ai vari dubbi e dare un senso di giustizia più ampio, forse è possibile percorrere una strada diversa che s’ispira, in senso lato, alla necessità di riordino degli incentivi oggi dati a famiglie e imprese dallo Stato centrale e dagli enti locali.
Con riguardo alle famiglie, relativamente alla casa - ma il discorso può allargarsi alle piccole e medie imprese per altri immobili -, esiste un numero ampio, ma parcellizzato, di fondi di sostegno e di solidarietà sia nazionali che locali: fondo acquisto prima casa per i giovani, fondo per la sospensione delle rate, fondi per agevolazioni sul tasso di interesse, fondi per il ripristino dei centri storici, fondi per sostegno alle locazioni, fondi di sostegno per il disagio economico e l’elenco potrebbe essere molto più lungo. Fondi in alcuni casi con un notevole accesso, in altri sottoutilizzati. Sarebbe di enorme utilità riunificare tutti questi fondi in uno unico dotandolo, conseguentemente, di somme ingenti (secondo alcuni calcoli oltre un miliardo di euro) e della possibilità di un utilizzo flessibile e modulare, secondo le specifiche necessità che dovessero tempo per tempo crearsi, come ad esempio l’acquisto, il sostegno alle famiglie in difficoltà, il rilancio della locazione. Il passaggio successivo sarebbe un censimento dei soggetti che gestiscono i vari fondi e di chi gode delle agevolazioni.
Si scoprirebbe così chi ne ha veramente diritto, chi riesce a muoversi tra le varie possibilità avvantaggiandosene magari a sfavore di chi ne avrebbe veramente diritto. L’ulteriore tassello potrebbe essere, per evitare sperequazioni, la concessione dei benefici sulla base del reddito, del nucleo familiare e non di quello individuale che consente di ottenere le agevolazioni anche in presenza di altri percettori di reddito nello stesso nucleo.
È solo una bozza di idea, da approfondire e strutturare, ma una scelta del genere, possibile con una sola legge, non avrebbe alcun ulteriore costo per lo Stato, potrebbe essere gestita - come avviene per molti altri fondi - dalla Consap che ha una forte esperienza in questo campo, non servirebbe l’apporto di privati interessati ad un possibile guadagno, si ridurrebbero tante sovrastrutture burocratiche e amministrative e molti incarichi, producendo ulteriori risparmi, ci sarebbe un po’ più di giustizia, e soprattutto solidarietà verso i soggetti più disagiati o in difficoltà.   

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