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Reddito di cittadinanza e reddito minimo garantito: in cosa consiste, cos’e', come funziona, a chi spetta?

Fabio Picciolini, Centro studi associazione  italiana istituti di pagamento e moneta elettronica

Il 2016 si è chiuso con due indagini che hanno fotografato la situazione del Paese. Il rapporto Censis 2016, improntato all’aspetto sociale, ha mostrato un Paese fermo, con tanta ricchezza liquida e pochi investimenti, con una forbice ricchi-poveri allargata, con i cosiddetti «millenians» senza certezze, alla ricerca di un lavoro ma fermi a quelli temporanei, non qualificati se non irregolari. Allo stesso tempo un Paese in cui le esportazioni vanno bene, il made in Italy in tutti i settori è ricercato in tutto il mondo, il turismo aumenta, la vendita di pc e smartphone è sempre in crescita. Un Paese che, tra mille difficoltà, con scarsa fiducia nel futuro, «tiene».
L’altra indagine è quella dell’Istat, meno sentimenti e più numeri, che vede, per il 2015, il 28,7 per cento dei cittadini a rischio di povertà o di esclusione sociale. Una situazione tremenda, ma anche in questo caso una situazione che «tiene»: la percentuale è rimasta sostanzialmente ferma a livello generale. «Tiene» anche il reddito sostanzialmente stabile rispetto agli anni precedenti, anche se, ed è il dato peggiore, si amplia la forbice tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud. Una situazione che difficilmente è sopportabile per un Paese come l’Italia. Non sono più rinviabili azioni a favore dei poveri, dei giovani, degli anziani, delle persone a rischio di esclusione sociale.
La soluzione non è semplice, pur tralasciando tutti gli aspetti sociali e psicologi che situazioni del genere comportano, il privato non riesce a farvi fronte, la riduzione del potere di acquisto rende difficile a molti un tenore di vita superiore al minimo vitale la propria o quella del nucleo familiare. La risposta quindi deve venire dal «pubblico» che però ha pochissimi fondi disponibili, spesso non è in grado di controllare fino in fondo la situazione economico e finanziaria di imprese e famiglie, con la conseguenza di evasione fiscale, di non sapere chi ha effettivamente diritto a un’agevolazione, di prevedere condoni o sanatorie per far fronte ai propri problemi di finanza.
In ogni caso è necessario intervenire e la soluzione «trovata» da molti è stata l’introduzione di una forma di sostegno o di integrazione al reddito. La formula più utilizzata è quella di reddito minimo garantito. Ognuno però ha dato alle tre parole un significato diverso. È bene cercare di analizzare di cosa si sta parlando. Il «reddito minimo garantito», per semplicità RMG, è un sostegno correlato alla situazione economica e condizionato, ad esempio, alla ricerca di un lavoro, alla formazione alla disponibilità a prestazioni sociali. RMG è un intervento molto diverso dal reddito di cittadinanza, da altri propugnato, che è una misura universale incondizionata: una cifra fissa da dare a ogni cittadino a prescindere dalla situazione economica. Il reddito di cittadinanza è stato adottato da pochi Paesi (ad esempio, la Finlandia a titolo sperimentale, dal 2017, riconoscerà un reddito di cittadinanza al dieci per cento di tutta la popolazione, ricchi e poveri, di 800 euro); più facile trovare forme, pur diverse di reddito minimo garantito.
Sul tema le forze politiche si sono sbizzarrite, avanzando varie proposte, spesso non supportate dall’analisi della realizzabilità e dei costi. A prescindere dal nome, c’è chi propone una sorta di reddito di cittadinanza: i soggetti sotto la soglia di povertà monetaria dell’Unione europea possono ottenere una somma di denaro. Il massimo concedibile è di 780 euro per chi non ha alcun reddito, altrimenti è data un’integrazione, tra il reddito percepito e i 780 euro. Le soglie oltre le quali non si ha più diritto al sussidio sono rispettivamente 750, 1.000 e 1.750 euro di reddito, secondo il nucleo familiare. Il sussidio è condizionato ad alcuni obblighi (ad esempio non rifiutare più di tre offerte di lavoro, frequentare corsi di formazione e accettare impieghi socialmente utili).
Questo non è reddito di cittadinanza ma RMG. Una misura giusta e socialmente ineccepibile, ma è sostenibile? Qualche dubbio sovviene considerato che i nuclei familiari coinvolti sono poco meno di tre milioni e il costo stimato dall’Istat è di circa 15 miliardi annui. Il punto quindi si sposta dalla proposta alle sue coperture finanziarie. Altre forze, pensando di rendere maggiormente possibile l’attuazione della proposta, abbassano il sostegno, fino a 600 euro mensili, da aumentare secondo la composizione del nucleo familiare, ma allo stesso tempo lo ampliano a classi sociali: disoccupati, precari o in cerca di occupazione. Il sostegno sarebbe concesso per un periodo prestabilito. Questo si può considerare una sorta di RMG, anche se temporaneo e a favore di alcuni e non di tutta la popolazione. Qui, però, il problema si duplica: si conferma lo stesso problema di copertura, a cui si somma la necessità di un controllo sui prenditori. Chi verifica se il richiedente è realmente disoccupato e, si spera, in cerca di occupazione; chi controlla che quel precario non abbia dovuto sottoscrivere un contratto capestro, per cui il suo diritto non è il sussidio ma il comportamento corretto del suo datore di lavoro.
Altri hanno abbassato l’importo del sussidio e lo hanno escluso per chi ha altre forme di reddito. Infine, varie strutture attive nella società civile, una volta si sarebbe detto i corpi intermedi dello Stato, riunite nell’alleanza contro la povertà hanno proposto il REIS, «reddito di inclusione sociale». La proposta ha importanti diversità rispetto alle altre. Prevede un sussidio compreso tra il reddito percepito dal nucleo familiare e la soglia di povertà, a cui si sommano l’obbligo di percorsi di inserimento sociali e lavorativi e un ulteriore contributo in termini economici attraverso servizi sociali, socio-sanitari, socio-educativi o educativi, quali quelli contro il disagio psicologico e/o sociale, di istruzione, riferiti a bisogni di cura, per l’autonomia o di altra natura.
Insieme alle proposte, nessuna ancora legiferata, ci sono situazioni in cui si è iniziato a fare qualcosa di concreto. L’unica norma in vigore, oltre a quelle di alcune Regioni e Comuni, è la legge per il «Sostegno per l’inclusione attiva» - SIA, (Legge di Stabilità 2016) in vigore dal 2 settembre 2016. Il sostegno, erogato attraverso una carta di pagamento, per il 2016 ha previsto, per circa duecentomila famiglie, un intervento di 320 euro (80 euro a ogni componente delle famiglie economicamente in difficoltà), con un massimo di 400 euro per i nuclei con almeno cinque elementi, con un ISEE inferiore a 3.000,00 euro, nessun altro aiuto economico superiore a 600 euro mensili, né strumenti di sostegno al reddito per i disoccupati, oltre a altre varie limitazioni. I percettori avranno l’obbligo, pena la revoca, di seguire progetti sociali e lavorativi personalizzati, e a obiettivi d’istruzione (frequenza scolastica) o sanitari (vaccinazione). Il passaggio successivo dovrebbe essere (il condizionale è d’obbligo) l’emanazione dei decreti attuativi della legge delega sulla povertà, economica, educativa e alimentare, che prevede, tra l’altro, l’introduzione del reddito d’inclusione. Tutte le proposte hanno una loro dignità considerato che l’obiettivo è di creare una società più uguale e più giusta, garantendo alle persone/nuclei familiari più indigenti un sostentamento, l’eliminazione della povertà che è uno degli obiettivi primari dell’Unione europea, scadenzato dall’Italia massimo entro il 2030.
I dubbi sorgono, oltre che per la copertura dei costi, per le differenze esistenti nel nostro Paese come in tutti gli altri. Solo per citarne alcuni, le differenze territoriali (a Milano un single è considerato in povertà assoluta se ha un reddito intorno a 800 euro il mese, al Sud la stessa situazione si ha con un reddito di circa 550 euro), i soggetti a rischio (working poors) che lavorano, ma percepiscono una retribuzione inferiore a mille euro il mese, circa il 70 per cento in meno del salario medio nazionale, che non riescono a giungere alla fine del mese, che non riescono a far fronte a spese improvvise; ancora l’incidenza sul reddito dichiarato, l’evasione e l’elusione fiscale e il lavoro nero.
A queste situazioni si sommano vari dubbi sull’effettività e correttezza dei risultati acquisibili: chi e come e deciso il livello giusto si sostegno? Quando toglierlo? A cosa agganciarlo (soglia di povertà, assoluta o relativa, a una cifra fissa), chi effettua veri controlli a monte e a valle della concessione del sostegno? Perché offrire percorsi formativi e lavorativi solo a quei soggetti e non a quelli che, magari per poche decine di euro, non rientrano negli stessi percorsi o in altri? Perché un lavoratore con reddito marginale dovrebbe decidere di continuare a lavorare a quel reddito invece di non farlo più e magari passare al lavoro nero? Scelta che potrebbe interessare anche imprenditori con pochi scrupoli. Rimanendo su questo ultimo argomento la concessione del sostegno prevede nelle varie proposte di frequentare corsi di formazione e accettare impieghi socialmente utili. Che lavoro far fare in un Paese in cui la disoccupazione è ancora a due cifre e quella giovanile è poco sotto il 40 per cento, dove la cassa integrazione si misura ancora in centinaia di milioni di ore, dove le politiche attive e i servizi per il lavoro sono contestate?
Se ci fosse la giusta volontà alcune soluzioni potrebbero essere percorse: prevedere un censimento nazionale di tutti i percettori di agevolazioni, di qualsiasi tipo, con le dovute eccezioni, da quelle legate alla salute, e su tutti i soggetti concedenti agevolazioni, consentirebbe di conoscere in maniera sostanzialmente esatta il numero dei percettori e le necessità finanziarie utilizzate.
Non credo di sbagliare se affermo che il censimento farebbe emergere almeno tre positività:
1) eliminare i casi di malaffare;
2) togliere le agevolazioni a chi non ne ha diritto;
3) ripartire in maniera corretta il «monte agevolazioni» che così si verrebbe a creare, diciamo il Fondo di contrasto alla povertà già avviato.
Il tutto legato a una forte lotta all’evasione fiscale e contributiva e alla revisione dei parametri di spesa pubblica: solo l’1,7 per cento del prodotto interno lordo è destinato ad aiutare le persone realmente in difficoltà, meno dei principali Paesi europei. Le misure proposte, insieme a una corretta allocazione delle risorse disponibili porrebbero, come minimo, di avere una visione ampia e oggettiva dell’area della povertà e del disagio sociale, e programmare gli interventi tempo per tempo necessari.
L’unica cosa certa, in conclusione, è che la situazione attuale non è più sostenibile e rischia di creare (se già non ha creato) problemi anche sociali e di ordine pubblico. Per quanto può valere, ad avviso di chi scrive, una proposta che unisca, con i limiti e i contrappesi necessari, il sostegno d’inclusione attiva con quella dell’alleanza contro la povertà, può essere quella più facilmente attuabile e con risultati verificabili.   

 

Tags: Gennaio 2017

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