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Ebbene sì: si è ampliata la forbice di diseguaglianza sociale in Italia e, in più, si fanno i «lavoretti»

Fabio Picciolini, centro studi associazione italiana istituti di pagamento e moneta elettronica

Nel mondo le persone in povertà si sono dimezzate negli ultimi venti anni, ma si è ampliata la forbice della diseguaglianza sociale. In Italia la situazione non è molto diversa, essendo il Paese sostanzialmente diviso in due parti: non solo nord e sud ma ricchi e poveri, dove i secondi sono triplicati in dieci anni. I numeri purtroppo non mentono: nel 2015, le famiglie in povertà assoluta sono 1,582 milioni di famiglie (6,10 per cento del totale) pari a 5,598 milioni di individui (7,6 per cento); nello stesso anno quelle in povertà assoluta 2,678 milioni nuclei familiari (10,4 per cento) per 8,307 milioni di persone (13,07 per cento).
Soglie che, secondo l’Istat, nel 2015 partivano per un nucleo familiare composto di due persone da 1.050,95 euro mensili come povertà relativa e 819,13 euro mensili e 552,39 euro rispettivamente in una metropoli del nord e un piccolo paesino del sud. Ancor più grave la situazione delle persone a rischio di povertà e di esclusione sociale che raggiungere i 17,469 milioni di soggetti (28,3 per cento.) La soglia di povertà relativa è 972,52 per famiglia di due persone, con una riduzione di 18 euro rispetto all’anno precedente.
Dall’altra parte i ricchi, coloro che hanno una ricchezza molto alta: nell’ambito della ricchezza finanziaria ad esempio (conti correnti, azioni, titoli di Stato, polizze, fondi comuni), le loro attività finanziarie sono circa il doppio del debito pubblico nazionale; la ricchezza complessiva, comprendendo anche immobili e quant’altro, vale circa quattro volte il debito pubblico. Per proseguire negli esempi, il 10 per cento della popolazione possiede il 42 per cento della ricchezza nazionale, di questi l’1 per cento ne possiede l’11 per cento.
Ma cosa s’intende per povertà e rischio esclusione sociale?
Sono le famiglie che vivono con bassa intensità di lavoro (i mesi lavorati rispetto a quelli realmente possibile hanno un coefficiente inferiore a 0,20), quelle propriamente a rischio di povertà, se il reddito disponibile è inferiore al 60 per cento del livello mediano del reddito nazionale.
Infine le famiglie in condizioni di grave deprivazione materiale: in arretrato nel pagamento di bollette, affitto, mutuo o altri prestiti, non in grado di riscaldare adeguatamente l’abitazione, né di sostenere spese impreviste di 800 euro, né di potersi permettere un pasto adeguato (proteine della carne, del pesce o equivalenti) almeno una volta ogni due giorni, una settimana di vacanza all’anno lontano di casa, un televisore a colori, una lavatrice, un’automobile, un telefono.
A fronte di una situazione tanto grave, che vedeva l’Italia ultima insieme alla Grecia nell’introduzione della misura, il Parlamento ha approvato, definitivamente, la legge per l’introduzione in Italia del reddito di inclusione (REI). Sarà pubblicata, a breve, in Gazzetta Ufficiale, poi mancherà solo il decreto attuativo, promesso in tempi brevi.
Il reddito di inclusione si affiancherà ad altri sussidi quali i Fondi per le «politiche sociali» e per le «non autosufficienze». La norma prevede uno stanziamento di due miliardi già nel 2017, per un sussidio medio di circa 400 euro (da 300 a 480 circa secondo la composizione del nucleo familiare), in questa prima fase a favore di famiglie con figli minori o con disabilità grave, donne in stato di gravidanza, disoccupati di età superiore a 55 anni. Il provvedimento è relativo anche a single, con un sussidio di 250 euro. Il vincolo per ottenere il sussidio è un reddito Isee non superiore a 3 mila euro, trattamenti assistenziali o previdenziali complessivi non superiori a 600 euro mensili. Per gli stranieri è previsto l’ulteriore obbligo di soggiorno e di residenza in Italia da almeno 5 anni.
Tra i criteri da rispettare, il divieto per tutti i componenti della famiglia di possedere auto immatricolate negli ultimi 12 mesi oppure di cilindrata superiore a 1.300 cavalli (o 250 in caso di motocicli) acquistati nei tre anni antecedenti la domanda. È previsto un comportamento generalizzato di buon cittadino con la sottoscrizione di un patto per la comunità che identifica un corretto comportamento civico responsabile, pena la revoca del sussidio e l’adesione del capo-famiglia a progetti sociali, formativi e lavorativi di inclusione, accettando eventuali proposte di lavoro avanzate dagli sportelli regionali, per i quali è stato stabilito un maggiore coordinamento degli interventi in materia di servizi sociali.
In base allo stanziamento, dovrebbero ricevere il sussidio circa 400 mila nuclei familiari sui circa 1,6 milioni in situazione di povertà assoluta, pari a circa 1,7 milioni di persone, di cui circa 800 mila minori.
Il sussidio sarà dato in forma economica, probabilmente con carta prepagata, e in servizi alla persona. La gestione delle erogazioni sarà affidata all’Inps, che verificherà i requisiti dichiarati dai richiedenti. I Comuni dovranno predisporre piani personalizzati d’inclusione sociale. Il Governo dovrà definire la durata del beneficio e il suo eventuale rinnovo. È stato previsto il coinvolgimento del III settore in termini di aiuto, collaborazione e proposte, considerato il forte ruolo che svolge verso tutte le forme di emarginazione.
Un provvedimento che per la prima volta è universale, anche se solo per una classe di cittadini, quelli indigenti, non clusterizzato (anziani, giovani, disoccupati, ecc.). Con l’adozione del reddito d’inclusione, è previsto il riordino delle misure per il contrasto, ad eccezione di quelle per le persone in pensione, a favore della genitorialità, per situazioni di disabilità e invalidità del beneficiario. Il Rei sostituirà la misura attualmente in essere, il «Sia», ossia il sostegno all’inclusione attiva, attualmente erogato a circa 250 mila persone, un sussidio per le famiglie in condizioni economiche disagiate di 80 euro mensili (massimo 400 euro per nucleo familiare), per chi ha un Isee massimo di 3 mila euro e accetta progetti sociali di inclusione sociale e lavorativa.
Per essere chiari, non si tratta del reddito di cittadinanza che alcuni propugnano, ma difficilmente realizzabile: l’unico vero esempio (ogni cittadino riceve dallo Stato una somma di denaro a prescindere dalla propria posizione economica e senza dover assumere alcun impegno) esiste in Alaska, peraltro per un massimo di 200 dollari Usa.
Piuttosto si avvicina molto alla proposta dell’Alleanza per la povertà, il più grande raggruppamento di pressione sociale presente in Italia, che ha proposto il Reis, ossia il reddito inclusione sociale, un sostegno stabile e strutturale per le famiglie povere, come contributo economico con la costituzione del Fondo nazionale per la lotta alla povertà e la previsione di percorsi di inclusione sociale e lavorativa. La proposta a regime aveva un costo di 7,1 miliardi annui.
Il nuovo sussidio strutturale per aiutare le famiglie in situazioni di povertà o rischio di esclusione sociale è certamente un importante passo avanti, sempre che non si fermi lungo la strada e a regime affronti complessivamente tutte le situazioni di povertà e di rischio di inclusione sociale. Non sarà un percorso facile, e non solo per i fondi che possono essere messi a disposizione, alla luce della situazione delle casse dello Stato.
Da un lato ci sono alcune speranze di miglioramento legate alla ripresa economica, pur ancora debole, all’aumento dei posti di lavoro e alla diminuzione degli inoccupati, quelli che hanno smesso anche di ricercare un lavoro, al riordino delle prestazioni simili previste per queste situazioni di difficoltà. Infine, a sorpresa nel 2016 è aumentato il reddito pro capite, più che in Germania e Francia, pur se devono essere ancora valutate le cause, fra le quali incide la diminuzione della popolazione. Tra gli aspetti positivi, da verificare, sono le iniziative di Regioni e Comuni, con le stesse finalità avviate in tutta Italia. Se le scelte fossero confermate, il numero dei nuclei familiari che percepiscono il sussidio aumenterebbe di qualche centinaio di migliaia.
Dall’altro gli aspetti negativi. Sono molti. Solo per citarne alcuni dalla disoccupazione con particolare attenzione a quella giovanile che diminuisce solo di qualche punto percentuale, all’aumento dell’inflazione, avviata verso la soglia del due per cento la quale, se è positiva perché significa ripresa economica, sta anche provocando, artatamente, un aumento dei prezzi a essa superiore, quindi con una diminuzione del potere di acquisto delle famiglie, fino al peso degli stranieri in Italia dei quali circa un terzo è al limite della povertà: si potranno controllare i flussi, diminuire gli arrivi, aiutare nei Paesi di origine, ma non bloccare il fenomeno; anche di questo, trattando di povertà, si deve parlare.
Vi sono soluzioni possibili. Come già proposto per le famiglie in difficoltà, come con il rimborso dei mutui o di altri prestiti per far fronte a situazioni di esclusione sociale (sostegno alla natalità, Fondo credito nuovi nati, bonus bebè, contributi per asili nido, voucher baby sitter, fino all’ultimo bonus ricollocazione scelto tra chi ha diritto alla Naspi, l’indennità di disoccupazione, e quanto altro ora attivo), una soluzione può essere l’unificazione di fondi destinati a soggetti simili o, comunque, che vivono economicamente in un limbo «borderline»; si può poi almeno dare una maggiore flessibilità delle disponibilità dei vari fondi per intervenire velocemente, con specifici spostamenti, almeno nelle emergenze. Senza dimenticare che potrebbe essere anche un buon viatico per eliminare un po’ di «poltrone».
Rimangono gli aspetti problematici. Il contributo universale e strutturale è giusto e condiviso; però, come si è visto, la soglia di povertà è diversa sia per composizione del nucleo familiare - ed è stata trovata la soluzione - che per territorio, spostandosi, come minimo, da regione a regione.
Parlare di percorsi professionalizzanti e d’inclusione al lavoro deve portare ad affrontare alcuni aspetti legati al lavoro in Italia. Le soluzioni per una reale e definitiva risposta non sono molte e ognuna ha i suoi aspetti negativi: l’aumento dell’età pensionabile riduce possibilità di entrare presto nel mondo del lavoro per i giovani, relegandolo ai «lavoretti»; la staffetta generazionale padre-figlio crea diseguaglianze; maggiore produttività, pur obbligatoriamente da acquisire, rischia di ridurre i posti di lavoro; la scuola si è trasformata in un parcheggio, con le problematiche legate alla mobilità degli insegnanti e alla continuità di insegnamento. Si potrebbe proseguire con molti altri esempi.
Il miglior aiuto per tentare di dare una risposta viene da un rapporto Istat che sottolinea il legame che intercorre tra mancata mobilità e disuguaglianza: un’economia, particolarmente se stagnante, tende a perpetuare le condizioni acquisite, la cosiddetta «ereditarietà economica». La famiglia in cui si nasce condiziona il ciclo di studi e di lavoro e causa la «trasmissione intergenerazionale delle condizioni economiche»: l’Italia risulta tra i Paesi Ue più conservatori.
Le soluzioni possono essere: quella da sempre mal vista, dell’abbandono dell’aspettativa del posto fisso; la possibilità di spostarsi all’interno e all’esterno del Paese senza che sia considerata una tragedia; divenire imprenditori, possibilmente inventandosi nuovi mestieri e professioni.
L’altra proposta è di effettuare forti controlli. Non c’è bisogno di ricordare quante pensioni di invalidità non dovute sono state scoperte ed eliminate, per dire che una fascia di agevolazioni impropriamente percepita può essere ridotta se non eliminata. Per questo si insiste sulla necessità di un censimento. Comuni, Regioni, Stato sanno chi, come e quanto è percepito per sussidi, agevolazioni e contributi, spesso o sempre con un coordinamento molto labile.
Non si tratterebbe di una novità. Per le imprese è stato fatto (nel Governo Monti da Francesco Giavazzi) ed è emersa la possibilità di riduzione e di ristrutturazione delle agevolazioni concesse: peccato che da oltre quattro anni tutto sia chiuso in un cassetto e non sia cambiato nulla.    

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