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va riattivato il dialogo con le parti sociali

GIORGIO BENVENUTO

Quando è stata fatta l’Unità d’Italia il grande problema erano il latifondo, le grandi proprietà agricole, la cultura estensiva preferita a quella intensiva. L’unità doveva servire anche per abbattere questa struttura sociale che si basava sul privilegio, sull’ignoranza, sull’immobilismo. Riuscì a prevalere quella filosofia magnificamente illustrata da Tomasi di Lampedusa in una frase del Gattopardo: «Cambiare tutto per non cambiare niente». Nel secondo dopoguerra, però, il cambiamento è arrivato, frutto di lotte durissime. Ora corriamo il rischio di regredire, di tornare a quegli anni dell’Ottocento: gli agrari, i latifondisti non ci sono più, sono stati sostituiti dai «privilegiati» che hanno accumulato straordinarie ricchezze attraverso la finanza. Dovrebbe nascere un nuovo Cavour o un nuovo Garibaldi, insomma qualcuno che ci consenta di costruire una nuova unità più o meno come si fece allora, sconfiggendo i Borboni. Il Paese è oggi, nel confronto con quelli più avanzati, in una condizione di minorità, non abbiamo in casa i Borboni ma abbiamo una Italia divisa e a sovranità limitata: una cosa è perdere un pezzo di sovranità perché viene ceduta all’Europa, altra cosa, del tutto diversa, è perderla perché altri impongono le politiche che ritengono più giuste e opportune. Abbiamo affrontato nella nostra storia unitaria tanti problemi, tanti drammi. A volte ne siamo venuti fuori brillantemente. Carlo Azeglio Ciampi si rese conto della debolezza del Parlamento e dei partiti. Si appoggiò alle forze sociali, chiese sacrifici ma indicò una prospettiva positiva e creò le condizioni per entrare in Europa. Ora corriamo il pericolo di consegnare il governo del Paese alla finanza, di creare una società con ristrette classi privilegiate. Il ceto medio moderato può divenire una massa di manovra anti-parlamentare. Il Governo dei tecnici, sprecando una grande occasione, ha affrontato i problemi economici e sociali con atteggiamenti didattici, mentre avrebbe potuto stimolare le grandi potenzialità che in Italia ci sono, anche se a volte sonnecchiano. La storia ha insegnato che nei momenti più difficili gli italiani sono capaci di dare il meglio di sé. Tanti anni, invece, di questa politica il Paese non è in grado di reggerli, perché è sfibrato, è debole, è impaurito. La differenza in Italia non è solo tra chi è ricco e chi non lo è, ma è anche tra chi paga le tasse e chi evade, tra chi rispetta le regole e chi le viola. Si doveva essere coerenti con le dichiarazioni di principio. Ha scritto il Premio Nobel dell’Economia Usa Paul Krugman, sempre con l’occhio rivolto al proprio Paese, gli Stati Uniti: «I liberal sono coloro i quali credono in istituzioni che limitino le disuguaglianze e l’ingiustizia. I progressisti sono coloro i quali partecipano, esplicitamente o implicitamente, a una coalizione politica che difende e cerca di potenziare quelle istituzioni. Sei un liberal, che tu ne sia consapevole o no, se sei convinto che gli Stati Uniti dovrebbero avere un sistema di assistenza sanitaria per tutti. Sei un progressista se partecipi agli sforzi per far nascere questo sistema». Pochi liberal e pochi progressisti circolano in Italia. Ha ragione lo storico Massimo Salvadori quando afferma che nella nostra dinamica politica le figure che evoca Krugman non hanno trovato realizzazione. La sinistra italiana è ancora dominata da divisioni ormai lontane: massimalisti e riformisti, comunisti e anarchici. Si è veramente occidentali se riesce a diventare forza di governo autosufficiente. Invece si è propositivi quando si è all’opposizione, ma quando si va al Governo si gestiscono contraddittorie e improponibili alleanze. Un tale comportamento non lo troviamo in Portogallo, in Francia, in Spagna, in Germania, in Grecia, in Inghilterra. In Italia, invece, per vincere occorre associarsi a qualcuno, con la conseguenza che le scelte di Governo risultano inevitabilmente annacquate. Il fatto è che a noi è mancato qualcosa. È mancata Bad Godesberg, è mancata Epinay sur Seine, sono mancate le riflessioni di Felipe Gonzalez. Per essere di sinistra si deve credere in quello che si fa e che si propone. Per crederci realmente la sinistra deve avere la capacità di governare. Valter Veltroni in qualche maniera al Lingotto aveva provato a battere la strada dell’autosufficienza, ma poi ha dovuto costruire un’alleanza con Antonio Di Pietro. Il fatto è che alla chiarezza delle posizioni si sostituisce l’opportunismo delle coalizioni. Sono convinto che i partiti abbiano un grande avvenire, che il mondo abbia bisogno di buona politica perché il peso dell’ingiustizia sta diventando insopportabile. Si deve discutere sulle cose da fare, non solo sulle alleanze da realizzare. È il compito di chi governa: riuscire a intravedere quel che gli altri non vedono, semmai anche con l’aiuto dell’immaginazione. L’immaginazione al potere, residuo di un tempo in cui, se non tutto, molto è apparso possibile. Bisogna dare alla gente la visione del futuro. È la passione il motore della sinistra, ed è quello che dovrebbe guidare i liberal e i progressisti. Purtroppo prevale l’opportunismo. La sinistra si annichilisce da sola parlando di alleanze. Peccato che la discussione aperta da Bettino Craxi alla fine degli anni 70 su Proudhon non abbia avuto un seguito perché ci avrebbe aiutato a uscire da questa sorta di recinto storico, forse ci avrebbe fatto nuotare nel mare aperto delle forze progressiste occidentali. Per tornare a Krugman: no, liberal proprio non ne vedo. Questo è un Paese di micro-corporazioni, sostanzialmente immobile come diceva Tomasi di Lampedusa; quel che si fa, di solito lo si fa per sostituire ai vecchi monopoli dei nuovi monopoli. Penso che l’unica maniera sia quella di mettere insieme le forze, di darsi un obiettivo comune in un quadro di partecipazione. Ma per fare questo bisogna riattivare il dialogo con le parti sociali. È l’unica strada per riuscire a mettere a punto soluzioni che reggano al controllo delle tante giurisdizioni di questo Paese. Non ci sono alternative alla concertazione: solo attraverso quello strumento si può pensare di contrapporsi al peso delle caste, delle lobby, solo per quella strada si può evitare la ripetizione degli errori clamorosi commessi nella vicenda degli «esodati». La crisi ha accentuato le disuguaglianze (il 10 per cento degli italiani detiene il 45,9 per cento della ricchezza, un altro dieci per cento, quello in fondo alla scala, non arriva al 9,4), aumentato la povertà (ormai tre italiani su dieci corrono su quella soglia di rischio): sono segnali di debolezza, ma sembra quasi che tutto questo non interessi. Oggettivamente il Governo dei tecnici è apparso indifferente rispetto ai problemi reali delle persone. La stessa «leggerezza» con la quale l’argomento delle pensioni è stato trattato lo dimostra e oggi sono proprio i pensionati a correre il rischio di scendere sotto la soglia della povertà. Le pensioni in questi anni sono state letteralmente massacrate. Prima è stata abolita la rivalutazione legata alle dinamiche contrattuali, un intervento che risale al 1992. Poi si è provveduto a sospendere l’80 per cento dell’aggiornamento maturato per via dell’inflazione, un’indicizzazione che ha retto solo per le pensioni più basse, quelle sociali. Quindi le pensioni sono state sottoposte a un sistema di tassazione estremamente elevato, decisamente più alto di quello che incombe sui guadagni finanziari. Tutte le soluzioni di alleggerimento fiscale escludono i pensionati. Gravano su di loro le imposte legate alla proprietà, le addizionali Irpef, quelle sui beni di consumo, ossia l’incremento dell’Iva. L’Imu per i pensionati ha avuto l’effetto di un vero e proprio salasso. Possiamo stupirci se tanti pensionati sono progressivamente scivolati verso la soglia di povertà e alcuni l’hanno pure varcata? Qual’è la conseguenza di questa situazione? Per puntellare in qualche maniera bilanci familiari traballanti i pensionati lavorano. In nero. Risultato: i giovani trovano solo occupazioni precarie di bassa qualità, gli anziani dotati di esperienza lavorano senza pagare le tasse. Una quadratura del cerchio più imperfetta non potrebbe esistere. I tecnici sono importanti per la politica, per il sindacato. Non si può consegnare tutto nelle loro mani, non possono essere i destinatari di una delega senza limiti. Se un Paese si potesse governare solo attraverso i tecnici, si potrebbe fare a meno dei partiti, dei sindacati, di tutte le forze sociali, in una sola parola: della democrazia. Il tecnico vede i numeri, il politico deve vedere le persone. La storia degli «esodati» è emblematica. Non è il numero che fa il problema, ma la gravità delle conseguenze umane. Molti lavoratori con accordi precisi avevano concordato la loro uscita dal posto di lavoro. Non l’avevano chiesta loro, non avevano in maniera illegittima conquistato un diritto, non avevano estorto qualcosa, minacciato qualcuno a mano armata. Era una soluzione concordata, realizzata in base a norme vigenti. È stata improvvisamente cancellata. Il Governo dei tecnici aveva creato molte aspettative. Ha operato bene all’inizio. Via via ha imboccato una strada sbagliata. Molto autolesionismo. È scomparsa dall’Agenda l’equità, si è rinviato lo sviluppo, il risanamento rischia di essere effimero. «La persona istruita è fiera della sua conoscenza di nomi e di date, non quella di uomini e cose. Non pensa e non si interessa ai propri vicini di casa, ma è al corrente degli usi e dei costumi della tribù e delle caste degli indù e dei tartari calmucchi. Riesce appena a trovare la via vicina alla propria, benché conosca le dimensioni esatte di Costantinopoli e di Pechino. Non è ancora riuscita a capire se il suo più vecchio conoscente è un mascalzone o uno sciocco, ma sa tenere una pomposa conferenza su tutti i principali personaggi della storia. Non sa dire se un soggetto è nero o bianco, tondo o quadrato, ma sa a menadito le leggi dell’ottica e le regole della prospettiva. Conosce le cose di cui parla, come un cieco i colori». Parole profetiche che William Hazlitt scriveva nel suo libro «Sull’ignoranza delle persone colte» e altri saggi. Giudizi che ben si adattano a descrivere alcuni dei componenti del Governo tecnico che ha diretto il Paese in questo scorcio di legislatura. Giudizi che fanno riflettere. L’auspicio è che la politica, la buona politica, torni, con l’ausilio dei tecnici e con la collaborazione delle forze economiche e sociali (la concertazione), a realizzare riforme capaci di ricreare le condizioni dello sviluppo rafforzando con l’equità la coesione di tutte le istituzioni. 

Tags: Febbraio 2013 Giorgio Benvenuto

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