Il nostro sito usa i cookie per poterti offrire una migliore esperienza di navigazione. I cookie che usiamo ci permettono di conteggiare le visite in modo anonimo e non ci permettono in alcun modo di identificarti direttamente. Clicca su OK per chiudere questa informativa, oppure approfondisci cliccando su "Cookie policy completa".

  • Home
  • Articoli
  • Articoli
  • IMPUGNAZIONI: NON FUNZIONERa' IL FILTRO DI INAMMISSIBILITa'. UNA PROPOSTA RAGIONEVOLE

IMPUGNAZIONI: NON FUNZIONERa' IL FILTRO DI INAMMISSIBILITa'. UNA PROPOSTA RAGIONEVOLE

di MAURIZIO DE TILLA presidente dell’associazione nazionale avvocati italiani

Nel congresso di Bari dello scorso novembre i rappresentanti dell’Avvocatura italiana hanno contestato quelli che alcuni hanno definito «iniziative legislative di rottamazione dei diritti dei cittadini» e «provvedimenti ammazza giustizia», relativi all’appello cassatorio e ai tagli al ricorso per Cassazione classificati per di più come incostituzionali per violazione degli articoli 3, 24, 97 e 111 della Costituzione. Si tratta in particolare del nuovo articolo 348 bis del Codice di procedura civile sbrigativamente indicato come «filtro» per la funzione che le è stata attribuita. Si tratta di una norma di notevole effetto che introduce, appunto, un «filtro» per la proposizione dell’appello, legato al requisito, assolutamente incerto e caratterizzato da eccessiva e non controllabile discrezionalità, della non «ragionevole probabilità di accoglimento». La novità ha incontrato un dissenso generalizzato, non soltanto da parte del ceto forense ma anche dalla massima parte dei processualisti italiani, i quali hanno sottolineato sia le perplessità che una norma di tal fatta suscita sul piano del corretto contemperamento fra la garanzia di un giudizio di impugnazione giusto e adeguato alle aspettative dei cittadini e l’interesse ad accelerare la definizione dei procedimenti, sia e soprattutto l’inidoneità, se non addirittura la dannosità, dello strumento scelto rispetto al fine di accelerazione sopraindicato. La principale critica che viene mossa alla norma è quella di attribuire una conseguenza di tipo procedurale, quale la declaratoria di inammissibilità del gravame, a un controllo per giunta prognostico, che in effetti riguarda il merito dell’appello. La delibazione sulla ragionevole probabilità di accoglimento, che il giudice di appello è chiamato ad eseguire, lungi dal riguardare i profili di ammissibilità che normalmente hanno per oggetto i vizi procedimentali, attiene evidentemente allo stretto merito dell’appello. Altro più rilevante problema che la norma pone è quello dell’assenza di limiti verificabili alla discrezionalità che caratterizza l’esame delegato al giudice di appello, e dell’ancora più grave assenza di un successivo controllo. Il nostro fine, tuttavia, non è soltanto quello di segnalare le lacune della norma, quanto e soprattutto quello di evidenziarne la sua inutilità, se non la sua irragionevolezza, rispetto allo scopo che il Legislatore si è prefisso, cioè quello di accelerare il giudizio di appello, di sfrondarlo in radice di quella notevole percentuale, che il Ministero della Giustizia stima nel 62 per cento circa dei casi, di impugnazioni destinate al futuro rigetto. Come si è detto, la nuova norma impone al giudice di Appello un esame del fascicolo di secondo grado che, proprio perché attiene strettamente al merito, a dispetto dell’errata terminologia usata, non potrà che essere accurato e approfondito. È facile prevedere che le Corti d’Appello di tutta Italia, in massima parte già aggredite da un arretrato di proporzioni enormi, saranno costrette, a seconda della sensibilità dei rispettivi magistrati, a rinviare la delibazione del requisito di cui all’articolo 348 bis a un momento successivo. Potrebbero semmai ricorrere alla formula impropria, ma non sconosciuta alla prassi giudiziaria, del «differimento» o «slittamento» dell’udienza di prima trattazione raccordando in tal caso questo momento decisorio con il proprio calendario già scandito da decisioni di appelli soggetti al rito previgente; ovvero eseguire un controllo molto superficiale che condurrà, nella migliore delle ipotesi, ad annacquarne i contenuti e gli esiti con la conseguenza che il problema della scrematura delle impugnazioni sarà nuovamente rinviato al momento finale; infine, nella peggiore delle ipotesi, si potrebbe assistere a un’ecatombe di impugnazioni. Ma neppure quest’ultima soluzione, per quanto aberrante, risolverebbe il problema, in quanto potrebbe condurre addirittura a conseguenze ancor più gravi. L’articolo 348 bis, come visto, prevede che, in caso di ordinanza di declaratoria dell’inammissibilità dell’appello per difetto della ragionevole probabilità di successo, contro la sentenza di primo grado si potrebbe fare ricorso direttamente in Cassazione. Ma non diversamente dalle Corti di Appello, anche i ruoli della Suprema Corte sono attualmente sommersi da un numero imponente di ricorsi: le statistiche parlano di un arretrato di poco meno di 100 mila alla fine del 2011. È pure noto che la maggior parte delle condanne dello Stato per violazione della legge Pinto, che prevede il risarcimento dei danni provocati dal ritardo della giustizia, derivano proprio dalla lunghezza dei giudizi di secondo e terzo grado, anche in considerazione dell’ambizioso, ma costantemente disatteso, limite massimo - rispettivamente di due e di un anno - di durata che la novella della suddetta legge Pinto ha definitivamente codificato, sulla scorta delle decisioni della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia europea. Il che significa che, per effetto del «saltum» sancito dall’articolo 348 bis, in caso di pronuncia di inammissibilità dell’appello la pioggia di ricorsi che potrebbe abbattersi sulla Suprema Corte rischierebbe davvero di paralizzarne in modo addirittura totale il funzionamento. Ricorre quindi il serio rischio che la scelta del Legislatore di «filtrare», con facili de-claratorie di inammissibilità, gli appelli, potrebbe spostare sulla Corte di Cassazione la maggior parte delle impugnazioni, sconvolgendo le funzioni della medesima. La più agevole soluzione che, senza alterare gli equilibri processuali e le garanzie dei cittadini, potrebbe seriamente ridurre i tempi di svolgimento del giudizio di Appello, soprattutto se accompagnata da un programma di smaltimento dell’arretrato serio e adeguatamente sostenuto sul piano finanziario, è quella di anticipare alla prima e unica udienza di trattazione non tanto l’esame di ammissibilità dell’appello sotto il profilo della sua probabilità di accoglimento, che altro non è che manifesta infondatezza, quanto la decisione nel merito sotto il profilo della fondatezza o meno dell’appello. Se al giudice di Appello il Legislatore ha chiesto il sacrificio di esaminare approfonditamente il gravame ai fini di delibarne l’ammissibilità ex articolo 348 bis - e abbiamo chiarito innanzi quanto serio e approfondito dovrà essere tale esame, sostanzialmente di merito -, non si vede la ragione per cui questo non possa condurre alla definitiva decisione della sentenza con l’emanazione di una sentenza di merito; prima della decisione, il giudice potrebbe assegnare alle parti costituite un termine di 30 giorni per il deposito di memorie, e ulteriori 20 giorni per eventuali repliche. E ciò soprattutto in considerazione del fatto che, sin dalla costituzione delle parti in giudizio, il «thema decidendum» è definitivamente delineato e, fatte salve rare e residuali ipotesi di svolgimento di attività istruttorie in secondo grado, non è richiesta nessuna ulteriore attività difensiva, salve quello che possano derivare dall’eventuale proposizione di impugnazioni incidentali. A ben guardare, dando per scontate la serietà e la profondità dell’esame richiesto per l’emanazione dell’ordinanza ex articolo 348 bis, l’unica differenza fra i due tipi di decisione - sempre che non se ne voglia drasticamente ridurre l’efficacia annacquandone i contenuti -, riguarda la motivazione che soltanto per l’ordinanza potrà essere succinta, mentre la sentenza dovrà rispettare i canoni generali di cui all’articolo 111 della Costituzione e all’articolo 132 del Codice di procedura penale. La sentenza così emessa sarebbe soggetta ai normali rimedi - ricorso per Cassazione per soli motivi di legittimità, fatto salvo il numero 5 dell’articolo 360 -, e alle garanzie per le parti ripristinate. Conseguente-mente, l’articolo 350 dovrebbe essere riformato, prevedendosi che il giudice di Appello inviti le parti a precisare le conclusioni al termine della prima udienza di trattazione, senza ulteriori inutili differimenti, con la concessione di termini per il deposito di memorie e repliche, salva sempre l’ipotesi, del tutto residuale, di richiesta di una delle parti di discutere oralmente la causa in base al secondo comma dell’articolo 352 . Tale modifica renderebbe del tutto inutili le novelle introdotte con gli articoli 342 e 348 bis del decreto «Crescitalia», che dovrebbero essere conseguentemente abrogate. 

Tags: Febbraio 2013

© 2017 Ciuffa Editore - Via Rasella 139, 00187 - Roma. Direttore responsabile: Romina Ciuffa