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Vertice di Taormina: momento di mondanità, occasione persa

Kennedy e Trump; Delors e Juncker: quanto sono cambiati in questi anni sia gli americani sia gli europei. Purtroppo in peggio. John Kennedy nel suo discorso di insediamento il 20 gennaio 1961 diceva: «Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi, chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese» e aggiungeva «concittadini del mondo non chiedete cosa l’America può fare per voi, ma cosa possiamo fare, insieme, per la libertà dell’uomo». E Trump? L’America prima di tutto: «America first»! È l’espressione di un egoismo che ormai, con la globalizzazione e la finanziarizzazione dell’economia, si afferma in ogni stato, in ogni istituzione, in ogni famiglia, in ogni tribù.
Il 2017 doveva essere l’anno della svolta. Gli appuntamenti (i sessant’anni della costituzione dell’Europa e il vertice a Taormina dei sette paesi maggiormente industrializzati) dovevano essere l’occasione per dare una risposta ai problemi della diseguaglianza, della disoccupazione, dell’emigrazione, del terrorismo, dello sviluppo. Non è stato così.
L’Italia, che per una serie di fortunate e casuali circostanze ha avuto un ruolo strategico (ha presieduto sia le celebrazioni del Trattato istitutivo dell’Europa a Roma sia il vertice di Taormina; italiani sono il presidente del Parlamento europeo, il portavoce della politica estera dell’Unione europea, il presidente del gruppo del PSE al Parlamento europeo, il segretario generale della Confederazione europea dei sindacati; l’Italia fa anche parte del Comitato di Sicurezza dell’ONU che presiederà nel prossimo mese di novembre) non ha svolto un ruolo determinante. Il Governo Gentiloni si è trovato ad operare in splendida solitudine in un Paese distratto sui temi di politica internazionale perché interessato esclusivamente a risolvere le beghe domestiche (la legge elettorale, i voucher, il Tar, Equitalia, etc).
Il vertice di Taormina è stato deludente. Un piccolo passo in avanti è stato compiuto solo nella lotta al terrorismo. Si è deciso di chiedere ai grandi «provider» di Internet di rimuovere immediatamente tutti i contenuti che possano promuovere o amplificare gli atti terroristici. Le grandi imprese della rete dovranno togliere il materiale che manipola con false notizie i giovani per avvicinarli alla jihad. Sarà avviato un lavoro di intelligence, con scambio di informazioni, ricorrendo alla «cyber sicurezza». Saranno stroncati i traffici e tutte le forme di finanziamento del terrorismo.
Invece sulle altre tre questioni presenti nell’ordine del giorno nell’agenda del vertice del G7 (scambi commerciali, protocollo di Parigi sul clima ed immigrazione) non si è fatto, non si è chiarito, non si sono stabiliti impegni precisi.
Nel comunicato finale del G7, sulla questione della liberalizzazione degli scambi commerciali, gli Usa hanno addirittura ottenuto di attenuare, anzi, di rendere vaghi gli impegni a non ricorrere a chiusure protezionistiche per tutelare le categorie e le forze economiche e sociali colpite dalla globalizzazione. Nel comunicato finale del vertice la frase originaria «lotta contro ogni forma di protezionismo» è stata sostituita dalla frase «lotta contro il protezionismo» rimarcando che «il commercio libero va corretto e deve essere di reciproco vantaggio e che deve rimanere fermo l’impegno a contrastare tutte le pratiche di commercio iniquo».
Anche sull’emigrazione la «patata bollente» è rimasta nelle mani dell’Italia. Si dice nel documento finale che bisogna assistere i rifugiati, chiarendo però, che ogni paese manterrà il diritto sovrano di controllare i propri confini e di sviluppare politiche tenendo conto dei propri interessi nazionali e della propria sicurezza.
Sul clima Trump si è tenuto le mani libere; l’accordo di Parigi è ormai azzoppato. Si vedrà. I tecnici dovranno rifare tutte le valutazioni sul riscaldamento del pianeta per trarne tutte le conseguenze.
Silenzio su Putin. Sono riconfermate le sanzioni alla Russia per la questione Ucraina; si minaccia un loro appesantimento, ma si è «disponibili a impegnarsi in un negoziato con il Cremlino». Più o meno lo stesso metodo è stato seguito per la Siria, confermando che si è pronti a lavorare assieme per risolvere il conflitto.
Ci sono stati screzi con la Merkel durante il vertice. Ha prevalso la diplomazia. Trump non ha partecipato alla conferenza stampa finale. È andato a Sigonella. Macron si è lamentato per il passo indietro degli Usa sull’ambiente ma non ha calcato la mano. Anzi ha ringraziato Trump per averlo appoggiato nelle recenti elezioni. In una intervista il nuovo presidente francese si è lasciato andare ad alcune affermazioni importanti («Basta con il dumping sociale dei Paesi dove gli operai hanno bassi salari e nessun diritto; basta con i lavoratori delocalizzati. Ci deve essere reciprocità tra i nostri Stati; non si giustificano i privilegi fiscali») di cui non si trova traccia nel documento ufficiale del vertice.
La Merkel non è stata loquace. Anche lei non ha partecipato alla conferenza stampa finale. Ha fatto trasparire la sua insoddisfazione. Evidentemente tenta di riaprire la partita al vertice del G20 che presiederà tra un mese ad Amburgo.
Insomma è stato un vertice interlocutorio. È stato definito un momento di vacanza e di mondanità. Trump ha twittato: «A nome mio e di Melania, grazie per la meravigliosa cena e per la serata, presidente Sergio Mattarella». Gli interlocutori si sono, come fanno i cani, annusati. Non ci sono state decisioni. Non c’è stata la svolta. Sono mancate le soluzioni politiche.
Settanta anni fa l’America varava il Piano Marshall per permettere all’Europa, uscita a pezzi dalla seconda guerra mondiale, la ricostruzione e la crescita. Oggi, invece, prevale negli Stati Uniti l’isolazionismo. Le posizioni di Trump (protezionismo, disinteresse se non ostilità nei confronti dell’Europa, etc.) stridono ad esempio con quelle della Cina. Quasi in contemporanea al vertice di Taormina il Governo cinese ha lanciato «la sfida del Dragone di Ferro». Il 14 e 15 maggio il presidente della Cina Xi Jinping ha presentato a Pechino il progetto «One Belt, One Road» (OBOR) per realizzare infrastrutture intercontinentali su piani che mettono assieme ferro e mare. Sono stati invitati al grande Forum 28 capi di Stato e di Governo, tra essi il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni. Tra il porto di Rotterdam ed il grande porto industriale Chengdu il tempo per il trasporto merci che copre la distanza di ottomila chilometri sarà ridotto dagli attuali 40 giorni via mare ai 15 giorni per ferrovia.
Il progetto cinese è interessante per l’Italia, che già dal giugno 2016 può utilizzare il nuovo traforo del Gottardo. Per il nostro Paese diventano importanti anche la direttrice sud-nord (Genova, Trieste, Rotterdam) e le autostrade del mare nel Mediterraneo, con potenziamento dei relativi porti, per collegarsi a Gioia Tauro dove arrivano, attraverso il canale di Suez da anni raddoppiato, le grandi navi di trasporto dall’Asia.
Il progetto del «Dragone di Ferro» e la nuova Via della Seta su rotaia cambierà non solo le prospettive della Cina, ma inciderà anche sulla struttura dei trasporti in Europa; la superferrovia intercontinentale cinese farà crescere il ruolo di Rotterdam e l’Italia ne sarà positivamente coinvolta.
Bisogna, per inciso, considerare che l’Unione europea è ora il primo partner commerciale della Cina. Gli interscambi hanno superato i 600 miliardi all’anno ed è previsto che arrivino a mille nel 2020. Quasi metà delle importazioni dell’UE viene dalla Cina che rappresenta anche il suo secondo mercato.
Insomma è stata opportuna la presenza di Gentiloni in Cina: c’è grande interesse verso l’Italia. Se nell’antichità Venezia era uno dei terminal della Via della Seta, nel progetto «One Belt, One Road» potranno essere coinvolte le infrastrutture portuali di tre città: Venezia, Trieste e Ravenna.
In questo scenario in grande movimento l’Europa ha delle occasioni straordinarie. Non le può perdere.
Il populismo può essere battuto. Non è invincibile. Lo hanno dimostrato i risultati delle elezioni in Olanda ed in Francia. Tra poco si voterà in Germania e probabilmente anche in Italia.
Le proposte di Juncker sono modeste. Sono inadeguate. L’Europa deve fare il salto per arrivare all’integrazione politica per ricostituire una sua centralità. L’Europa ha la dimensione ideale e necessaria per affrontare le questioni dello sviluppo nel confronto mondiale e tra gli europei nel contesto dell’Unione. Ci sono ancora degli appuntamenti importanti. Va superata la linea dell’austerità. L’Europa deve riprendere il cammino verso l’integrazione politica. Occorrono modifiche istituzionali. L’euro non può essere il punto di arrivo del progetto europeo. Vanno date vere funzioni e precisi poteri al Parlamento europeo. Vanno fatte politiche comuni nei campi fiscale, sociale, economico. Insomma, occorre interrompere la spirale delle diseguaglianze sociali, occorre dare dei contenuti programmatici all’accoglienza e all’integrazione, occorre definire una governance operante ed operosa nelle istituzioni europee.
L’Europa è nata sociale. Alla fine della seconda guerra mondiale, in presenza di una drammatica spaccatura del mondo in due blocchi contrapposti, divisi da una cortina di ferro tra Est ed Ovest, ci si rifiutò di dare all’Europa uno sbocco militare. Non passò il progetto di fare la CED (Comunità europea di difesa). Si fece la CECA (Comunità europea carbone e acciaio), poi il MEC (Mercato comune europeo) e poi la CEE (Comunità economica europea). Fu una scelta vincente. Ai sei Paesi fondatori si aggiunsero Grecia, Spagna e Portogallo, che avevano nel frattempo recuperato la libertà e la democrazia sconfiggendo le dittature di stampo fascista.
Nell’Europa dell’Est si affermarono altri principi. Il COMECOM fu una maldestra imitazione del Mercato comune. Si fece invece una alleanza militare (il patto di Varsavia) e gli Stati dell’altra Europa rimasero a sovranità limitata satelliti dell’Urss. Era una situazione che non poteva durare. Lo sbocco non poteva essere che quello che è stato: la caduta del muro di Berlino.
La nuova Europa si è però fermata. È impacciata. È incapace di far fronte alle drammatiche conseguenze della globalizzazione e della finanziarizzazione. Si stanno propagando disordine, instabilità, poca sicurezza, molte diseguaglianze. L’Europa deve reagire, deve agire, deve fare. Deve volare alto. Deve soprattutto ricostruire una coesione ed una solidarietà per ridare speranza e fiducia nel futuro.
Non a caso, ma in modo appropriato, Papa Francesco un anno fa, il 7 maggio 2016, quando Angela Merkel gli consegnò a Roma il premio Carlo Magno, disse tra l’altro: «Sogno un’Europa giovane, capace di essere ancora madre (...). Sogno un nuovo umanesimo europeo (...). La creatività, l’ingegno, la capacità di rialzarsi e di uscire dai propri limiti appartengono all’anima dell’Europa (...). Che cosa ti è successo Europa? Dov’è l’Europa umanistica, paladina dei diritti dell’uomo, della democrazia e della libertà? Che cosa ti è successo, Europa terra di poeti, filosofi, artisti, musicisti, letterati? Che cosa ti è successo Europa, madre di popoli e nazioni, madre di grandi uomini e donne che hanno saputo difendere e dare vita per la dignità dei loro fratelli? (...). È ora che ti risvegli! I padri fondatori seppero cercare strade alternative, innovative (...). Essi osarono cercare soluzioni multilaterali ai problemi che a poco a poco diventavano comuni. I progetti dei padri fondatori, araldi della pace e profeti dell’avvenire, non sono superati: ispirano, oggi più che mai, a costruire ponti e abbattere muri. Sembrano esprimere un accorato invito a non accontentarsi di ritocchi cosmetici o di compromessi tortuosi per correggere qualche trattato, ma a porre coraggiosamente basi nuove, fortemente radicate».
Non si può non essere d’accordo. È l’unica alternativa che abbiamo. Facciamola.   

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