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Occupazione e disoccupazione: le politiche attive del lavoro

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Gli incentivi alle assunzioni, soprattutto per i giovani, non bastano se non vengono accompagnati da innovazioni sul versante delle imprese e da efficaci servizi di formazione e riqualificazione del personale

I mesi da qui alla fine della legislatura, che dovrebbe auspicabilmente essere quella naturale, sono carichi di scadenze importanti per il Paese. Il Governo Gentiloni è impegnato a portare a conclusioni diverse riforme da tempo istruite: dalla legge sulla concorrenza, alle misure per il sostegno all’innovazione produttiva, la cosiddetta Industria 4.0, al sostegno per l’occupazione, in particolare giovanile, alla cosiddetta Ape nella versione ordinaria.
Dare seguito a queste riforme permetterà all’Italia di capitalizzare i segnali di ripresa economica che già si sono rivelati più incoraggianti di quanto si prevedesse. Segno che in questi anni si è seminato bene, anche se non in tutti i campi. Un campo ancora da coltivare è quello - da sempre trascurato - delle politiche attive del lavoro. Queste servono per rendere fruttuose le stesse modifiche normative introdotte dal Jobs Act. Gli incentivi alle assunzioni, anzitutto per i giovani, che ora opportunamente il Governo vuole rendere strutturali, non bastano se non vengono accompagnati da innovazioni sul versante delle imprese e da efficaci servizi di formazione e riqualificazione del personale.
Recuperare lo skill gap che penalizza i nostri lavoratori rispetto ai competitors è altrettanto urgente che recuperare il gap e gli investimenti nelle nuove tecnologie. L’alternanza scuola/lavoro è uno strumento decisivo, perché serve a orientare i giovani, a integrare la loro formazione di base e a migliorare le loro possibilità di entrata nel mercato del lavoro, come mostrano le migliori pratiche europee. La sfida è di renderla effettivamente funzionante e utile alla generalità degli studenti, al di là dei casi di eccellenza. Per questo scuola e imprese devono imparare a parlarsi e tutti gli operatori del mercato del lavoro, a cominciare dall’Apal e dalle Apl, devono sostenerli in questo compito.
Un’altra urgenza per le politiche del lavoro è di affrontare in modo attivo e tempestivo le crisi aziendali, invece di limitarsi a usare passivamente gli ammortizzatori sociali come è stato finora. Un’esigenza rilevata anche nelle migliori pratiche europee è di anticipare per quanto possibile le iniziative necessarie a prevenire e se possibile evitare le ricadute occupazionali di queste crisi sia con la riqualificazione professionale del personale sia con attività di riposizionamento delle imprese. Senza questa seconda operazione gli interventi solo sul lato dell’offerta di lavoro rischiano di essere vani.
In queste esperienze europee tutte le iniziative di politica attiva e la stessa gestione delle flessibilità interne all’azienda sono finalizzate all’obiettivo di favorire la «retention» delle persone nell’impresa o di facilitare le transizioni da posto a posto di lavoro all’interno dell’azienda senza passare per periodi di disoccupazione o riducendoli al minimo.
Il dibattito aperto dall’articolo di Nannicini e Leonardi su Il Sole 24 Ore del 26 maggio - che si richiama all’accordo del 1° settembre 2016 fra Confindustria, Cgil, Cisl e Uil - ha fornito indicazioni utili in questo senso. In particolare ha sottolineato l’importanza di intervenire tempestivamente nelle crisi aziendali con un mix di misure di riqualificazione dei lavoratori sia per favorirne la permanenza nell’azienda sia per sostenerne la ricollocazione in altre imprese, con risorse sia pubbliche sia private. In particolare ritengo importante che le imprese contribuiscano alla ricollocazione dei lavoratori a rischio di licenziamenti collettivi non solo con risorse economiche ma con servizi di accompagnamento basati sulla loro conoscenza del mercato del lavoro. Questi servizi sono essenziali per rendere accessibile la ricollocazione sia individuale sia collettiva, che non è attuabile senza un’opera assidua di convincimento e di assistenza.
Un punto critico riguarda le procedure e gli strumenti per la ricollocazione. Anche in Italia si è progressivamente affermata l’idea che i contributi alla ricollocazione, sia collettiva sia individuale, debbano essere pagati a risultato, cioè a fronte dell’esito positivo totale o parziale del percorso. Questo esito dipende da tante variabili e quindi non può essere predeterminato con sicurezza. Per questo l’esigenza di certezza che segnalano le imprese ma anche i lavoratori non può essere soddisfatta in assoluto. Garantire esiti certi al percorso di ricollocazione, tanto più se la garanzia è richiesta in anticipo, rischia di essere illusorio, ovvero di contraddire la logica delle politiche attive e di scoraggiare l’attivazione delle persone.
La sfida di adottare politiche innovative in questo campo è difficile, tanto più in Italia dove deve sconfiggere una tradizione contraria; ma è necessario affrontarla se ci si vuole mettere al passo con l’Europa e risolvere le crisi con politiche efficaci e condivise, senza ricorrere a deroghe inutili e costose.    

a cura di Tiziano Treu

Tags: lavoro occupazione confindustria cgil sindacato formazione industria 4.0 giovani Luglio Agosto 2017 Tiziano Treu disoccupazione Cisl Uil lavoratori

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