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Torniamo a parlare di progresso, di dinamismo, di ideali, di futuro

bandiera unione europea

Il passato è quasi un genere di conforto. Sappiamo cosa è accaduto e lo rimpiangiamo. Ma poi ci manca il futuro. A furia di rimpiangere intere generazioni passano, invecchiano e si estinguono.

L’Italia è immobilizzata, impantanata, rassegnata. Nei confronti dei giovani dilaga un atteggiamento di grande comprensione per i loro problemi, per le loro difficoltà ad affermarsi nei gangli vitali, nelle organizzazioni sociali, nella politica, nelle professioni, nella cultura. Ci si entra solo se si è cooptati, spesso se si è figli o parenti di qualcuno. Il merito scompare, non serve a nulla, la preparazione e la qualità professionale evaporano. Eppure queste ultime qualità hanno nel passato avuto un peso nelle carriere.
L’hanno avuto in almeno due momenti storici della nostra vita collettiva. In un contesto drammatico alla fine della seconda guerra mondiale quando il paese si è rimboccato le maniche ed ha riguadagnato la posizione eretta dopo essere stato messo in ginocchio. Sono stati anni fecondi: la ricostruzione, il miracolo economico, il primo centrosinistra con le riforme, il benessere diffuso, il welfare, i diritti civili, l’Europa. Siamo diventati poi negli anni settanta e ottanta un pezzo di quella che John Kenneth Galbraith definì la società «opulenta».
Nel 1985 l’Italia era la quarta potenza industriale nel mondo dopo gli Stati Uniti, la Germania e la Francia e, in occasione della propria presidenza di turno dell’Unione Europea mise in minoranza Margaret Thatcher per consentire l’ingresso in Europa alla Spagna, al Portogallo, alla Grecia.
Poi lentamente, progressivamente, quasi inesorabilmente si è spento il fermento innovativo e via via ci si è ridotti a scegliere il meno peggio finendo per difendere e per proteggere aree sempre più ristrette dei cittadini. È caduto il Muro di Berlino. La politica, il sociale, l’economia non hanno capito e non ne hanno governato le conseguenze. Sulla scena sono entrati come protagonisti il mercato, la globalizzazione, la tecnologia. La sinistra politica invece di ritrovare forme di coesione e di unità si è divisa in una rincorsa sfrenata animata dall’ansia di legittimazione esaltando il mercato, la liberalizzazione, la privatizzazione.
Le conseguenze in Italia sono state pesanti. È stata demonizzata la prima repubblica. È stata mistificata la lettura economica e sociale di quegli anni. Si è civettato con l’antiparlamentarismo. Si sono irrise le forze intermedie. Si è inseguita la moda dei populismi senza idee e senza principi. Si sono presi molti applausi, ma poi sono mancati nelle urne i voti. Il bilancio è pesante. Si sono alimentati i populismi e si è frenato il progresso. Occorre ora un’analisi attenta. Occorre una visione che riaccenda la passione politica e che mobiliti le nuove generazioni. Non è sufficiente l’inclusione, è necessario tornare a parlare di progresso, di dinamismo, di nuove idee. Insomma il destino dei nostri figli e dei nostri nipoti non può, non deve essere peggiore di quello che abbiamo avuto noi.
È un sogno? È solo una speranza? No, può essere una realtà. Il mercato, la globalizzazione, la tecnologia hanno creato ricchezza, ma hanno anche creato diseguaglianze e povertà. La ricchezza finanziaria privata continua a correre in tutto il mondo, ma in Italia subisce una battuta d’arresto. Secondo il report «Global wealth 2017: trasforming the client esperience» di The Boston Consulting Group (BCG), lo scorso anno, la ricchezza mondiale ha raggiunto la cifra di 166.500 miliardi di dollari, in aumento del 5,3 per cento rispetto al 2015, e superiore al 4,4 per cento registrato l’anno precedente. Il nostro Paese ha però registrato una battuta d’arresto (-2,4 per cento a 4.500 miliardi di dollari) riconducibile principalmente alla riduzione di valore (cosiddetto effetto mercato) delle partecipazioni azionarie dirette e degli investimenti obbligazionari che avevano come controparte istituzioni finanziarie.
L’Italia conta 307 mila famiglie milionarie, pari all’1,2 per cento del totale, che possiedono il 20,9 per cento della ricchezza finanziaria italiana. Nel 2021 saranno 433 mila, l’1,6 per cento del totale e con uno stock pari al 23,9 per cento. A livello globale il numero di famiglie milionarie è cresciuto in un anno del 7 per cento, arrivando a quota 18 milioni. Si tratta dell’1 per cento delle famiglie che detengono il 45 per cento della ricchezza. Si riduce il welfare, aumenta il lavoro precario, scricchiola il sistema pensionistico, aumenta a dismisura il numero dei lavoratori che perdono il potere di acquisto.
È la conseguenza di un sistema nel quale c’è molta finanza e poca attività reale, c’è capitale ma non c’è lavoro, c’è tecnologia con tanti robot e pochi lavoratori. Il futuro è inquietante: crescendo dell’1 per cento all’anno siamo arrivati nel 2015 al reddito che avevamo del 2007. Avremo perso così 18 anni. Cosa fare? Non bastano gli aggiustamenti. Occorre una strategia. Occorre una visione forte di progresso. Occorre mobilitare risorse per dare al paese combustibile sufficiente per una crescita sostenuta. Occorre una iniezione di ottimismo da trasmettere alle nuove generazioni. Occorre anche meno improvvisazione, un lavoro di squadra, una capacità di coinvolgimento di tutto e di tutti.
Il populismo made in Italy, basato sulla negazione, sul contro tutti, cieco, fatto di esclusione, può essere battuto con dei progetti politici veri. La politica del meno peggio non è capace né di mobilitare né di realizzare grandi condivisioni. È fragile. È inconsistente. Non ha respiro. Nelle scelte programmatiche sono tre i capisaldi: il primo è il lavoro. Il jobs act non ha funzionato. Va fatta una verifica. È una emergenza che non può essere ignorata. I giovani non hanno lavoro in Italia. I più preparati vanno all’estero. Sono tanti. Sono troppi. A differenza dei loro genitori che andavano via con la valigia di cartone legata con uno spago, oggi i nostri giovani vanno via con l’iPad, il pc e con una forte preparazione professionale. E quelli che rimangono in Italia hanno come offerta un lavoro precario a vita o un lavoro in nero con la concorrenza di una emigrazione disperata e impreparata.
Il welfare va ridiscusso. L’attuale sistema di finanziamento è superato. Mette fuori mercato le imprese e i giovani. Occorre ripensare le forme di finanziamento. Drasticamente. È improcrastinabile la divisione tra assistenza e previdenza. Occorre diminuire il peso dei contributi sul lavoro; la solidarietà non può essere espressa solo da chi dà lavoro e da chi lavora, deve essere generale.
Sulla politica fiscale non si possono riproporre come risolutive le vecchie tasse del passato (direi del passato remoto) come la patrimoniale e come l’imposta di successione. Oggi il mondo è cambiato e i contribuenti più scaltri hanno modo di trovare modelli elusivi per sfuggire e per vanificare quelle tasse. Occorre invece intervenire con più efficacia, con una politica fiscale intelligente, nel campo della finanza nel settore delle imprese globalizzate.
Occorre, infine, realizzare una serie di interventi pubblici per adeguare le infrastrutture, per sostenere l’innovazione tecnologica, per mettere in sicurezza il territorio, per valorizzare e rendere fruibile il nostro patrimonio culturale.
Tutto ciò impone al nostro Paese la necessità di fare una politica vera a livello europeo ed internazionale. Eugenio Scalfari, in un recente editoriale su La Repubblica, osservava amaramente che in Italia si ha una visione provinciale dei problemi. L’attenzione si concentra sul Governo, sul PD, su Berlusconi, su Salvini, su Maroni e Zaia, su Alfano, sulla sinistra italiana, sull’immigrazione. Il nostro Paese, insomma, sembra ignorare che la globalizzazione obbliga a vedere e a risolvere i problemi in una visione europea, anzi internazionale.
Sono state sprecate già due occasioni. L’anniversario del sessantesimo della firma dei Trattati di Roma, è stata una inutile messinscena. Il Vertice di Taormina dei sette paesi maggiormente industrializzati è stato solo un’occasione di goffa mondanità. I ruoli che rivestono gli italiani negli organismi europei non sono sinora riusciti ad essere incisivi. Penso alla presidenza del Parlamento Europeo (Antonio Tajani), alla presidenza del PSE nel Parlamento Europeo (Gianni Pittella), al responsabile della politica estera della Unione Europea (Federica Mogherini), al segretario generale della CES (Luca Visentini). Sono inutilizzati. Sono impotenti. Subiscono la leadership della Germania. Non riescono nemmeno a fare gioco di squadra.
L’Europa è giudicata purtroppo negativamente dalla maggioranza degli italiani: è ritenuta responsabile della crisi che caratterizza l’infinita transizione dalla prima alla seconda repubblica. L’Italia in un periodo di ripresa costante anche se stentata dell’economia mondiale è cresciuta meno di chiunque in una Europa anch’essa poco dinamica. Bini Smaghi, in un suo interessante libro («La tentazione di andarsene. Fuori dall’Europa c’è un futuro per l’Italia?») osserva che si continua a parlare dell’Unione Europea in terza persona, quasi come se al risveglio da un incubo si fosse precipitati per caso nel mezzo di un processo di cui si è vittime, non elementi costitutivi.
L’Europa, immaginata e costituita, come una realtà economica e sociale è diventata uno spazio di libero commercio: «L’assenza di cultura europea - per Bini Smaghi - è riflessa dal vuoto di contenuti che gonfia gli ordini del giorno di vertici che si chiudono lasciando irrisolti i problemi che dovevano affrontare».
Ecco perché è strategica la proposta di sospendere il fiscal compact. Si deve ritornare per cinque anni ai parametri di Maastricht, con il rapporto deficit/Pil al 2,9 per cento; così si potranno avere a disposizione 30 miliardi di euro l’anno per ridurre la pressione fiscale e per rimodellare la strategia di crescita, portando la dinamica del Pil reale al 2 per cento. Nel contempo si taglierà il debito pubblico con alcune limitate privatizzazioni del patrimonio pubblico, rimettendo in pista il piano Astrid e il progetto Unicorn.
Raddoppiare la crescita reale è un obiettivo sicuramente ambizioso. Un deficit al 2,9 per cento per cinque anni, se fosse in grado di innescare la dinamica auspicata, portando la componente reale dall’1 per cento al 2 per cento e l’inflazione stabilmente intorno al 2 per cento e quindi ad una crescita nominale annua del 4 per cento, sarebbe compatibile con una sia pur moderata riduzione del rapporto debito/Pil, nell’ordine dell’1 per cento annuo, per merito del raddoppio della componente reale della crescita.
Il meccanismo del Fiscal Compact si è dimostrato troppo severo, troppo complesso e di applicazione troppo incerta. Veniamo da una cura da cavallo, che ha portato più danni che altro. Ciò che serve non è una tregua nel processo di stabilizzazione delle economie europee, ma un metodo condiviso che si adatti meglio alle diverse circostanze ed ai diversi paesi. Un limite al deficit annuo che sia pari al 75 per cento della crescita nominale potrebbe essere sufficientemente severo per contenere il debito senza però strangolare la dinamica dell’economia: la proposta di Matteo Renzi ci rientrerebbe a pieno.
È bene avere presente la serie di accordi che in 25 anni ha ristretto il campo di gioco dei governi: prima ci sono stati i vantaggi dell’euro, poi gli svantaggi, disastrosi, ahimè, per l’Italia dell’austerity. Ecco innanzitutto una sintesi delle decisioni che hanno impantanato l’Europa: 1992 viene siglato il trattato di Maastricht che getta le basi dell’Unione Monetaria e fiscale fissando le regole per le adesioni; 1997 viene siglato il patto di stabilità e di crescita per rafforzare le regole di Maastricht (deficit/Pil 3 per cento; soglia massima debito/Pil 60 per cento); 1999-2002 entrata in vigore dell’euro, in circolazione dal 1° gennaio 2002); 2005: riforma del patto di stabilità (correzione annuale di almeno 0,5 punti del deficit strutturale; convergenza rapida verso l’obiettivo di medio termine); 2011: Six Pack (obbligo per chi ha un debito oltre il 60 per cento del Pil di ridurlo ogni anno di un ventesimo della differenza tra il debito/Pil reale e il 60 per cento; limiti dell’aumento delle spese); 2012: fiscal compact (obiettivo deficit strutturale dello 0,5 per cento del Pil per i paesi con debiti oltre il 60 per cento; regole del pareggio in Costituzione); 2013:Two Pack per rafforzare la sorveglianza (invio anticipo al 15 aprile del DEF e del Programma Nazionale di Riforme; presentazione alla UE della bozza della legge di stabilità entro il 15 ottobre di ogni anno).
Ecco le conseguenze in Italia sull’indebitamento: rapporto in per cento debito pubblico/Pil: 1980 Spadolini 56,8 per cento; 1983 Fanfani 69,40 per cento; 1984 Craxi 74,90 per cento; 1987 Goria 89,11 per cento; 1989 De Mita 93,31 per cento; 1992 Andreotti 105,49 per cento; 1993 Amato 115,66 per cento; 1994 Ciampi 121,84 per cento; 1995 Berlusconi 121,56 per cento; 1996 Dini 116,34 per cento; 1997 Prodi 113,76 per cento; 2000 D’Alema 105,11 per cento; 2001 Amato 104,73 per cento; 2005 Berlusconi 101,94 per cento; 2007 Prodi 99,79 per cento; 2009 Berlusconi 112,54 per cento; 2012 Monti 123,36 per cento; 2014 Letta 129,03 per cento; 2015 Renzi 132,05 per cento.
L’Europa è bloccata «dal dilemma del prigioniero», ossia dall’incapacità di cooperare in vista di un obiettivo comune. Bisogna guardare oltre. L’obiettivo di tornare a Maastricht, cioè a regole semplici, deve essere accompagnato dalla realizzazione dell’Unione fiscale per l’Eurozona. Occorre istituire una istituzione politica in grado di emettere bond per gestire la domanda aggregata e intervenire in caso di rischi sistemici, usando come garanzia i flussi del gettito fiscale futuro ceduti dai paesi aderenti. «Questo - osserva Tommaso Nannicini - significa cedere sovranità. Ma cedendola ad una politica europea che superi la logica intergovernativa. Altro che ritorno all’Italietta del deficit spending».
Il futuro dell’Italia è nell’Europa. Non c’è alternativa. Non si può rimanere nel guado. La politica dell’austerità non ha risolto i problemi; li ha complicati; li ha ingigantiti. Si deve voltare pagina. Eugenio Montale nella sua raccolta di poesie Ossi di Seppia diceva «Ma sarà troppo tardi; ed io me ne andrò zitto tra gli uomini che non si voltano, col mio segreto». No, non è troppo tardi per le nuove generazioni. Occorre, invece, andare avanti lasciando indietro chi non si volta, chi vive con superficialità, chiuso nelle proprie false certezze, chi ha paura di scoprire e di immaginare il futuro.         

Tags: Giorgio Benvenuto Settembre 2017

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