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L’Atac non faccia come l’Alitalia: la nuova finanza non basta a curare mali antichi, ci vuole la fiducia dei creditori

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Le strade di Alitalia, azienda di trasporto aereo considerata strategica per il Paese, e di Atac, azienda di trasporti romani vitale per la vita della Capitale, conducono per ambedue ad approdi concorsuali, caratterizzati per entrambe dalla necessaria continuazione dell’attività d’impresa, senza la quale importanti assets si volatizzerebbero, con grave danno per il servizio pubblico rispettivamente fornito, dei creditori e degli stakeholders, tutti; restando dall’insolvenza accomunati, ovvero dalla incapacità di far fronte con normali mezzi di pagamento alle obbligazioni assunte.


I numeri delle passività di entrambe le aziende sono impressionanti, e fanno anche capire come le rispettive situazioni di crisi che appaiono oggi assolutamente ingovernabili con mezzi ordinari hanno radici profonde che affondano in anni assai risalenti, quando le strutture societarie rispondevano a logiche più socio politiche che economiche.
Per Alitalia balza agli occhi di tutti che non si possono sostenere le spese di gestione ed in particolare l’onere mensile di 13 mila stipendi, solo con il ricavato dei voli di circa 140 aerei. Il che mi sembra - considerando anche i costi del carburante - davvero irrealizzabile. Per l’Atac il quadro di riferimento è analogo. Da notizie di stampa abbiamo appreso che i mezzi circolanti sono circa mille su un totale di 2.500. Infatti, circa 1.500 mezzi sono da sostituire. Ebbene il loro impiego dovrebbe soddisfare gli stipendi di 11.600 dipendenti, oltre al resto. Altro che mago Merlino! La sostituzione dei 1.500 mezzi non funzionanti - ci dice Vincenzo De Sensi, docente di Diritto della crisi d’impresa alla Luiss (su «Il Sole 24 Ore», settembre 2017) - costerebbe circa 500 mila euro, il che porterebbe a circa 2 milioni il debito di Atac da rimborsare, appunto, con i ricavi della circolazione dei mille mezzi utilizzabili.
Un’ulteriore anomalia accomuna le due imprese: la sproporzione tra il numero del personale viaggiante per Alitalia dei piloti, delle hostess, degli steward e quello enorme del personale di terra, tra amministrativi, commerciali, finanziari, contabili etc. Per l’Atac questa constatazione è ancora più accentuata: gli autisti sono davvero una minoranza così come i controllori, ciononostante i servizi dati in «outsourcing» sono numerosi. Anche l’alternanza delle dirigenze e la discontinuità nelle governances, in questi ultimi anni tristemente accelerata nelle due società, hanno inciso negativamente sulle possibilità di una riduzione dei costi, anche per le incertezze intervenute nella esecuzione dei rispettivi piani industriali di risanamento.
L’epilogo della vicenda Alitalia con il commissariamento di qualche anno fa, malgrado la cospicua iniezione di capitale del neo socio Etihad, ha dimostrato, con la volatilizzazione di oltre 1 miliardo di mezzi finanziari freschi, che la nuova finanza non basta a curare mali antichi. Certamente il numero dei dipendenti è stato e continuerà ad essere un tema centrale, delicato e complesso in qualsiasi ipotesi di risanamento.
Per l’Atac la riduzione del numero ufficiale dei passeggeri, con un gettito annuo di 260 milioni di euro, costituisce un ulteriore segnale d’allarme che sottolinea la necessità di intervenire non solo con costanti controlli a bordo ma con moderne soluzioni tecniche di accesso ai mezzi di trasporto pubblici. Il 13 per cento di assenteismo medio e un trend al ribasso degli incassi derivanti da biglietti e abbonamenti la dicono lunga sulla necessità di un’urgente inversione di tendenza. Sono abitudini queste, degli utenti, purtroppo stratificate, che non è facile eliminare ma i meccanismi e la tecnologia che utilizzano altre grandi metropoli consentono di scegliere tra diverse soluzioni. Dalle telecamere in dotazione ai controllori, alla sbarra sulla porta d’accesso all’autobus che si solleva solo con l’obliterazione del biglietto, estirpando così la possibilità di salire sul mezzo spesso e volentieri senza titolo di viaggio.
Di fronte a questo ben più complesso quadro, la scelta per Atac del concordato preventivo in continuità permetterebbe non certo «senza tagli di stipendi e posti di lavoro» - come recentemente auspicato dal sindaco capitolino Raggi - di compiere un primo importante passo per la necessaria riorganizzazione aziendale. La realtà anche internazionale ci dimostra che tali obiettivi sono realizzabili ed evitano la cannibalizzazione degli assets propria del fallimento.
Certamente la «cura» del malato grave non può affidarsi all’aspirina. Gli standards che vengono utilizzati in situazioni del genere e le best practicies realizzate dimostrano che con le «pezze calde» non si curano le malattie davvero gravi come quelle che affliggono l’Atac.
La letteratura della Commissione permanente delle Nazioni Unite (Uncitral)  -in cui sono presente quale delegato italiano da oltre dieci anni nel Gruppo di lavoro che si occupa della regolamentazione delle vicende di carattere fallimentare- dimostra che le procedure di risanamento impongono dure scelte che devono essere effettuate in un’area di condivisione tra debitore e creditori che riguarda gli obiettivi da raggiungere, i mezzi finanziari necessari, le priorità da assicurare, i sacrifici che vanno accettati da creditori e fornitori.
Concordato significa negoziato, accordo, condivisione. I creditori in tutte le loro componenti e categorie, anche se privilegiati come il fisco, i dipendenti, i professionisti ed a maggior ragione i chirografari, devono essere convinti che l’impresa debitrice può, se alleggerita dai debiti e dai costi di sovrastrutture non essenziali, continuare a creare valore. In tal caso, la prospettiva di continuare a lavorare e fornire mezzi e servizi, di contare su pagamenti futuri regolari in una nuova dimensione di equilibrio economico riconquistato attraverso la ristrutturazione dell’impresa, nonché la continuazione dell’attività d’impresa in via di risanamento o risanata, possono compensare il sacrificio dei propri crediti anche in percentuali elevate.
Certamente la fiducia nel debitore e nella sua capacità di «rialzarsi e ripartire» costituisce un elemento essenziale per poter accettare di essere di nuovo al suo fianco, e da controparte-creditrice trasformarsi in «partner».
I quesiti, quindi, ai quali è difficile dare risposte, riguardano innanzitutto l’elemento fiduciario che si declina in tre modi: fiducia nell’azienda, nella sua governance e nel piano di ristrutturazione che per l’Atac ancora non è dato conoscere. Già nel passato, specie per quanto riguarda l’Atac, piani industriali che prevedevano più di qualche inevitabile «lacrima» ed un po’ di «sangue» furono portati all’esame dell’azionista unico, che è il Comune di Roma, ma risultando «impopolari», essendo scarsamente sensibili alle «rationes» politiche, furono ritenuti non percorribili.
Il ruolo del sindacato che in questa azienda, anche recentemente, ha avuto manifestazioni di impermeabilità al necessario cambiamento, oggi è più maturo per non rispondere semplicisticamente, con scioperi ed altre manifestazioni che impoveriscono l’azienda ed allontanano eventuali soluzioni, alle necessità di riportare in equilibrio economico un’azienda che tra breve difficilmente sarà in grado di pagare gli stipendi? Questo ci domandiamo. E ancora: le banche creditrici che sorreggono finanziariamente l’azienda da anni continueranno a sostenerla in attesa di tempi migliori? I fornitori resteranno al suo fianco concedendo l’indispensabile elasticità dei pagamenti, vitale per un debitore in gravi difficoltà che intende continuare l’attività d’impresa? La pazienza degli utenti resisterà ai disagi che l’azienda in difficoltà inevitabilmente provocherà? I passeggeri presteranno la collaborazione necessaria lungo il percorso non breve, ma necessario ad assicurare un livello di servizi essenziale per la cittadinanza, che oggi è ben lontano dal poter essere considerato soddisfacente?
Certamente il piano di concordato e il piano industriale di risanamento si presentano complessi e dovranno risultare approfonditi, credibili e davvero realizzabili. Gli investimenti che sono stati fatti in questi anni hanno dimostrato che non si può investire su ciò che non funziona, perché in tal caso gli investimenti rischiano di fare peggio, non curano il male ma vi si sovrappongono e ne vengono assorbiti. Il palazzo pericolante può essere puntellato fino ad un certo punto, superato il quale va abbattuto e ricostruito, facendo tesoro dell’esperienza pregressa.
Di fronte alla forza dirompente dei numeri c’è da sperare in un’assunzione di responsabile partecipazione con spirito di sacrificio da parte di tutti gli interessati, pensando che il fallimento delle iniziative in corso sono preferibili - se serie e realizzabili - alla liquidazione fallimentare. Infatti il mondo del turismo internazionale guarda a Roma come a una bella concorrente. Nel caso in cui avvenisse il fallimento dell’Atac, il trasporto urbano subirebbe un inevitabile arresto, o comunque conseguenze gravi per i cittadini e per i turisti. Tutto ciò andrebbe a vantaggio di altre capitali, e voglio sperare anche di altre stupende città italiane. Speriamo che i tempi della «lotta dura» siano finiti, perché non è questa la soluzione.
Il concordato preventivo in continuità potrà costituire un utile strumento per conoscere a fondo la realtà aziendale, le sue zone d’ombra, le cause dei disservizi e delle perdite, e per definire con chiarezza l’entità del passivo ed il numero dei suoi creditori; oltre a ciò, servirà a far render conto delle economie organizzative, strutturali e logistiche che possono essere realizzate, identificando, definendo e quantificando l’attivo, ovvero il reale patrimonio rappresentato dalle proprietà della società e dalle componenti aziendali. Potrà costituire anche l’occasione per prendere in esame la reale remuneratività di tratte divenute troppo onerose per l’Atac, che com’è avvenuto in molti casi per il trasporto provinciale sono state concesse a linee private, introducendo così un’iniziale concorrenza tra le stesse.
Data la situazione così complessa e difficile, non dobbiamo attenderci dal concordato in continuità aziendale soluzioni miracolistiche e neppure definitive. Per i fenomeni complessi non esistono soluzioni semplici ma comunque, sotto il controllo dei commissari giudiziali che il Tribunale dovrà nominare, verrà attuata quella necessaria chiarezza sulla reale possibilità di ristrutturazione e di ritorno a condizioni di sostenibilità dell’azienda, e sul riparto dei relativi oneri. Ben venga l’identificazione degli obiettivi, fossero anche obiettivi transitori e distribuiti in più anni che possano prevedere una successiva ed una ulteriore messa a punto.
La nuova normativa sul concordato preventivo dà ampio spazio a soluzioni che possono assicurare ai creditori strumenti nuovi per partecipare attivamente al risanamento dell’impresa. È consentito, ad esempio, al debitore offrire, nel piano di risanamento, l’emissione di nuove azioni finalizzate alla conversione dei crediti da parte dei creditori e, pensando al ceto bancario, potrebbe essere previsto il loro riacquisto dopo un triennio, o meno, ad un prezzo predefinito.
La fantasia con contenuti giuridico-finanziari trova ampio spazio di realizzazione nella nuova formulazione dell’art. 160 della legge fallimentare. I giuristi sono chiamati a far lavorare i loro neuroni e sinapsi, ma ciò che resta indispensabile è ricostruire la fiducia tra i protagonisti: debitore e creditori di questa vicenda. Senza questo ingrediente essenziale non c’è «minestra» nel futuro di Atac.
Gli oppositori, che non mancheranno, dovrebbero sapere che laddove l’azienda non operi più in continuità aziendale, ancorché con dimensioni ridotte, ovvero laddove la gestione ordinaria in continuità finisca per bruciare ricchezza, generando ulteriori debiti e passività, non c’è altra soluzione che la liquidazione, con l’inevitabile conseguenza di vedere distrutto il valore di numerosi assets specie se intangibili, e con la necessità di rifondare il trasporto urbano su basi diverse, in una prospettiva di maggiori privatizzazioni e di concorrenza.
Ma quanti anni di disagi ben più gravi degli attuali, in tal caso, sarebbero necessari? Oggi è interesse di tutti che il piano di concordato venga sorretto dal «consenso» degli interessati e che sia in grado di recuperare la necessaria «fiducia» nella sua realizzabilità.    

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