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TERRORISMO, CRIMINALITÀ E CONTRABBANDO GLI AFFARI DEI JIHADISTI IN MEDIO ORIENTE, AFRICA ED EUROPA

Droga, petrolio, tabacco, opere d’arte, migranti: non c’è contrabbando o traffico illecito in cui il terrorismo jihadista non svolga, negli scenari del Medio Oriente e dell’Africa così come in Europa, un considerevole ruolo di player e portatore di interessi. Che si tratti di imporre una “tassa di transito” ai trafficanti di uomini che conducono le carovane di migranti verso le coste dell’Africa mediterranea, di riscuotere il pagamento di un servizio di “scorta” ai carichi illeciti di droga e tabacchi, o, ancora, di contrabbandare il petrolio e le antichità saccheggiate dai teatri di guerra, i jihadisti fanno ormai parte integrante del gioco economico, ritagliandosi i propri segmenti operativi nella filiera del crimine. Ma esistono legami tra jihadismo, criminalità e mafie? In che modo la microcriminalità finanzia gli attacchi jihadisti sul suolo europeo? E quali sono gli strumenti di intelligence economica in grado di contrastare i finanziamenti illeciti del terrorismo jihadista? Al riguardo, la Fondazione ICSA ha presentato il rapporto di ricerca “Terrorismo, criminalità e contrabbando. Gli affari dei jihadisti tra Medio Oriente, Africa ed Europa”, che rientra nel più ampio progetto ICSA “Fighting terrorism on the tobacco road”, risultato vincitore nel 2016 del primo bando PMI IMPACT, un programma di finanziamento internazionale promosso da Philip Morris International a sostegno di progetti dedicati al contrasto di traffici illegali e crimini correlati a livello globale.

La ricerca, confluita in un volume di 480 pagine, partendo dall’analisi delle principali dinamiche e strategie del binomio al-Qaeda-Isis in Medio Oriente, Africa ed Europa ha esplorato in profondità l’ipotesi di un nesso tra i ricavi provenienti da diverse tipologie di traffico criminale (contrabbando di petrolio, traffico di armi, migranti e organi, tratta di esseri umani, traffico di stupefacenti e di medicinali, contrabbando di sigarette, traffico di antichità, commerci illeciti sul dark web, riciclaggio e sfruttamento illegale di money transfer e criptovalute digitali, come i bitcoin) e il finanziamento del terrorismo jihadista nelle sue molteplici forme ed attività.

L’evoluzione da al-Qaeda allo Stato Islamico: continuità, rottura e possibili convergenze future. Il rapporto ha analizzato propedeuticamente le dinamiche evolutive di al-Qaeda e dell’Isis evidenziandone gli snodi fondamentali, recenti e passati, dal punto di vista dell’organizzazione e della strategia. Al-Qaeda si è imposta, sin dall’inizio, come “al-Qaeda globale”, una struttura centralizzata sul piano ideologico, operativo, logistico e organizzativo in grado di pianificare azioni contro l’Occidente, un’entità che, attraverso una struttura reticolare a diffusione molecolare e molteplici forme di spontaneismo armato, forniva una sorta di copyright ideologico ai gruppi jihadisti disseminati in tutto il mondo.

Nascita dell’Isis e dialettica conflittuale con al-Qaeda nel teatro siro-iracheno. L’Isis non nasce improvvisamente ma è un virus che ha almeno sei anni di incubazione, dal 2006 al 2012, quando fece la sua prima comparsa nella guerra civile siriana. Nell’aprile del 2013 il sedicente Stato Islamico dell’Iraq con a capo al-Baghdadi si trasformò in Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (ISIL), poi indicato alternativamente con il nome di Stato Islamico dell’Iraq e di al-Sham o Stato Islamico dell’Iraq e della Grande Siria. Il divorzio fra al-Qaeda e l’organizzazione di al-Baghdadi avvenne nel febbraio del 2014 con la definitiva inclusione della Siria nella ridenominazione dell’ex Aqi (al-Qaeda in Iraq) in Isis (Stato Islamico dell’Iraq e della Siria), e poi IS (Islamic State) che proseguì apparentemente da solo sulla sua sanguinosa strada. Secondo l’ideologia dell’Isis, il Califfato universale deve essere ricostituito attraverso la jihad, iniziando con la realizzazione di califfati regionali, futuri poli di attrazione per i paesi confinanti. Sulla base di questo disegno strategico, l’Isis ha compiuto una travolgente avanzata surrogando di fatto al-Qaeda e rendendo la propria jihad più incisiva sull’area conflittuale, nonché più attraente per i suoi supporter, con la costituzione di uno Stato Islamico non più vagheggiato ma pienamente realizzato su un vasto territorio.

La fine dello Stato Islamico, la terza diaspora jihadista e la possibile convergenza tra al-Qaeda e lo Stato Islamico. La caduta dell’Isis (anche se vi sono ancora significative sacche di resistenza nel teatro siro-iracheno) sembra aver restituito una nuova vitalità ad al-Qaeda che oggi torna ad invocare unità di azione e di intenti per ricostituire, nel lungo periodo e con altre strategie, il Califfato. Il tentativo è di riacquisire la leadership della jihad globale riconducendola sotto linee guida unitarie, dopo anni di contrapposizione tra al-Qaeda e Isis e il reciproco scambio di accuse di “deviazionismo”. La fine del Califfato ha già provocato la terza diaspora jihadista (la prima, seguita alla cacciata dell’Urss dall’Afghanistan, la seconda, all’annientamento dell’Emirato afghano del mullah Omar, la terza, alla sconfitta del Califfato di al-Baghdadi) che andrà certamente ad alimentare i gruppi estremisti già affiliati sia ad al-Qaeda sia all’Isis, nonché le cellule dormienti nei paesi occidentali ed arabi moderati. I nuovi rientri potrebbero favorire forme aggregative ed atti di terrorismo ancor più eclatanti, in virtù di un’alleanza fra le varie metastasi jihadiste, che potrebbero rivelarsi ancor più destabilizzanti per l’Occidente. In questo contesto, al-Qaeda tornerebbe a rappresentare la “mente operativa”, mentre le cellule dell’Isis il suo braccio armato, con risorse di gran lunga superiori a quelle della vecchia al-Qaeda. Le nuove forme di aggregazione disporrebbero anche di maggiori capacità operative sia per l’esperienza maturata e le tecnologie sofisticate acquisite (come ad esempio l’impiego di droni), sia per gli schemi psicologici e di propaganda mediatica interiorizzati.

Il “terrorismo ibrido”. Dal punto di vista teorico e storico, il legame tra forme di criminalità e guerra irregolare/insorgenza non è certo una novità del XXI secolo. Tutte le campagne terroristiche del passato, così come le insorgenze, si sono sovvenzionate in modo più o meno diretto, continuativo e ampio attraverso attività criminali di varia natura: dalle rapine al contrabbando, dai rapimenti allo sfruttamento del mercato nero. Sotto l’egida e la spinta ideologico-operativa dell’Isis e degli altri gruppi di matrice qaedista, le formazioni terroristiche, nei teatri operativi del Medio Oriente ed in quelli africani (in particolare in Libia, Mauritania, Mali, Nigeria, Ciad) hanno dimostrato una significativa capacità di contemperare l’originaria connotazione ideologico-identitaria e religiosa inserendosi con successo nei contesti affaristici e dialogando efficacemente con le organizzazioni criminali, secondo le modalità del cosiddetto terrorismo ibrido. Tale concetto è declinabile come: a) terrorismo che si determina come sintesi di aspetti ideologico-religiosi e affaristico/criminali; b) terrorismo che si rappresenta come fautore di un nuovo modello socio-culturale, anche con caratteri di contrapposizione indipendentista, oltre che di intreccio tra ideologia e traffici illeciti. In questo senso, si è rivelato paradigmatico l’approccio di AQIM (al-Qaeda nel Maghreb Islamico, che, grazie al sapiente esercizio del potere economico derivante dalla gestione di traffici illeciti e criminali, è riuscita a configurarsi nel Sahel anche come sistema sociale. In questa accezione, il consenso ottenuto non solo mediante l’iniziale esercizio della violenza, ma anche attraverso un approccio inclusivo alla gestione dei traffici economico-criminali, ha innescato un processo di autolegittimazione nel contesto territoriale e sociale di azione.

Un “gioco di ruolo” transnazionale. Nel grande mare dei commerci illegali nuotano predatori di varie dimensioni ‒ microcriminalità, crimine organizzato, terrorismo ‒, ciascuno con una sua specializzazione funzionale. È un “gioco di ruolo” transnazionale (perché transnazionale è il crimine nel mondo globalizzato), in cui ogni attore fa la sua parte dal punto x fino al punto y, come in una catena di montaggio perversa ma ben oliata.

“Follow the money”: l’“approccio Al Capone” e i canali macro e micro di supporto finanziario al terrorismo. Il rapporto prende in esame non solo i canali macro di supporto economico ai gruppi jihadisti (contrabbando di idrocarburi, di reperti archeologici, di armi, di sigarette, traffico di droga, di migranti, ecc.), ma anche i micro flussi di finanziamento provenienti dallo spaccio di droga, dalla contraffazione di merci, dalle rapine e persino da attività legali (come le richieste di prestito alle banche e alle finanziarie), dai quali i jihadisti europei hanno tratto le risorse per preparare i sanguinosi attentati degli ultimi anni. Said Kouachi, uno dei due terroristi che assaltarono la redazione di Charlie Hebdo, finanziò l’attacco mediante i profitti derivanti da un traffico di Nike contraffatte. In ossequio a quello che gli esperti denominano “approccio Al Capone”, che combatte il terrorismo islamista ponendosi sulle tracce dei reati economici, anche minori (reati “spia”), compiuti dai jihadisti, il rapporto della Fondazione ICSA affronta il fenomeno jihadista in un’ottica di intelligence finanziaria con cui integrare le politiche di sicurezza in materia di counter-terrorism. Non si tratta solo di fornire stime dei traffici criminali e illegali (che possono a volte rivelarsi parziali, velleitarie e persino contraddittorie, trattandosi di commerci illeciti, per loro natura occulti e difficilmente quantificabili), ma soprattutto di ricostruirne i modelli criminali, replicabili dai terroristi indipendentemente dall’area geografica di operatività.

Tipologie di traffico criminale e forme di contrabbando: i “traffici multicarico” (multiple consignment contraband). I terroristi si sono autofinanziati (e continuano ad autofinanziarsi) attraverso traffici criminali e servendosi di rotte rotte africane, europee e mediorientali, su cui sono transitano armi, beni archeologici, stupefacenti, esseri umani e migranti, non solo per via della coincidenza e sovrapponibilità delle rotte dei traffici illeciti, ma anche a causa di quel fenomeno denominato multiple consignment contraband (“traffico multicarico”), ovvero quel traffico illecito che nella stessa spedizione movimenta beni e merci illegali di diversa natura. Il rapporto di ricerca ha evidenziato la presenza e l’impatto di diverse tipologie di traffico: dal traffico di petrolio al contrabbando di stupefacenti e di medicinali, dalla tratta di esseri umani al traffico di antichità e beni culturali, dal traffico illecito di sigarette a quello delle armi. L’analisi in questione è stata declinata tenendo conto sia delle diverse tipologie di traffici criminali sia di specifici macro-contesti geografici e territoriali, in particolare i paesi MENA (Middle East e North Africa) e i Balcani, con particolare riferimento ai collegamenti con l’Europa e l’Italia.

Il commercio illegale di idrocarburi: un affare per tanti stakeholder. Con i proventi del greggio il Califfato poteva pagare i salari di migliaia di miliziani, acquistare armi, forgiare lucrose alleanze con le tribù irachene sunnite ostili al Governo sciita di Baghdad. Secondo autorevoli fonti, i proventi delle attività petrolifere gestite dall’Isis in Siria ed in Iraq ammontavano nel solo 2015 a 400 milioni di dollari l’anno. Secondo la Guardia di Finanza, gran parte delle capacità di finanziamento dello Stato Islamico era subordinata alla sua capacità di raffinare e trasportare il petrolio. A tal fine, l’Isis ha costruito condotte interrate e raffinerie di petrolio fisse o mobili, anche se con caratteristiche rudimentali, come le raffinerie modulari (molto comuni, costruite off-site, si possono attaccare al camion o al pozzo, si possono smontare e rimontare facilmente, nonostante le piccole dimensioni sono comunque sofisticate). La Guardia di Finanza ha illustrato efficacemente le metodiche e le dinamiche di estrazione e commercializzazione degli idrocarburi che Isis ha alimentato in questi ultimi anni. Il ricavo per l’Isis della vendita del petrolio (venduto vicino al luogo di produzione) si aggirava, negli anni di massima espansione del Califfato, sui 20-35 dollari al barile (prezzo del barile riferibile al 2015), da ciò gli intermediari potevano poi giungere a prezzi di vendita pari a 60-100 dollari per barile, creando un significativo margine di guadagno per le operazioni di contrabbando. Un camion che trasporta 150 barili di greggio consentiva un guadagno da 3.000 a 5.000 dollari a seconda del grado di raffinamento del greggio. Ovviamente gli incassi di Isis hanno seguito gli andamenti di mercato del greggio, che ha conosciuto una caduta nel 2016, attestandosi in media a poco più di 47 dollari al barile. E quindi il prezzo a cui l’Isis ha venduto il greggio si è con buona probabilità ridotto di conseguenza, per risalire di nuovo a partire dalla fine del 2017. Vendere il petrolio è tecnicamente difficile perché l’Isis non disponeva, in quanto gruppo terroristico, di strutture tradizionali di esportazione o di accesso al mercato aperto. Di conseguenza, Isis doveva spedire il suo petrolio in camion al confine turco dove broker petroliferi e trader lo compravano facendo pagamenti in contanti ovvero in natura. Dati certi sugli acquirenti del petrolio di Isis non sono stati resi disponibili da fonti istituzionali, ma secondo alcuni esperti il petrolio sarebbe stato commercializzato sul mercato nero attraverso Giordania, Turchia e Kurdistan, mentre secondo altri sarebbe stato venduto soprattutto in Siria, Libano e Turchia. La vendita illegale di petrolio grezzo o raffinato da parte del Califfato veniva gestita da intermediari o società schermo che difficilmente permettono di risalire alle organizzazioni terroristiche che spesso sono dietro questo tipo di traffici. Senza considerare poi il connesso interesse della criminalità organizzata, ad esempio quella italiana, che, dati i rilevanti guadagni derivanti da queste attività illegali, da tempo investe su questo mercato.

Traffico di stupefacenti e coltivazione del papavero da oppio in Afghanistan. Secondo alcune stime del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, circa la metà delle entrate dei talebani in Afghanistan proviene dal traffico di stupefacenti (principalmente oppiacei): i talebani tassano gli introiti derivanti dalla produzione e dalla vendita di droga, e in alcuni casi sono direttamente coinvolti nel traffico. Lo Stato Islamico ha combattuto contro i talebani nel 2015 per il controllo dei profitti del narcotraffico a Nangarhar. L’Isis ora controlla solo alcuni distretti a Nangarhar e non sembra più interferire sistematicamente con la produzione di droga, anche se potrebbe ancora farlo in casi isolati. In alcuni casi, esiste una correlazione positiva tra gli attacchi terroristici e le aree geografiche dove la produzione e il traffico di droga sono più intensi. Dal punto di vista del potenziale collegamento tra produzione di droga e terrorismo, l’Afghanistan è decisamente esemplare: il 13% di tutti i decessi legati al terrorismo tra il 2000 e il 2015 a livello mondiale si è verificato in Afghanistan. I talebani si sono resi responsabili del 73% di tutte le morti collegate al terrorismo in Afghanistan nel periodo 2000-2015 e dell’84% di tali morti nel 2015. A seguire, l’Isis, a cui è attribuibile il 4% del totale dei morti per terrorismo del 2015. La coltivazione e la produzione di oppio in Afghanistan dal 2001 si è notevolmente accresciuta. Le aree coltivate a papavero da oppio nel paese sono, a vari livelli, controllate da diversi gruppi terroristici, tra cui talebani e Isis. Si stima che l’85% dell’area coltivata a papavero da oppio sia sottoposta a vari gradi di influenza talebana, mentre l’1,4% rientra in zone dove si riscontra un più o meno marcato sostegno a Isis. Un’indagine socioeconomica condotta in Afghanistan nel 2016 ha evidenziato che l’accresciuta influenza di gruppi insorgenti e il deterioramento della sicurezza nel nord del paese hanno coinciso con un incremento della coltivazione del papavero da oppio.

Terrorismo, traffico di cannabis e cocaina in Africa occidentale. Le organizzazioni terroristiche dell’Africa occidentale sono coinvolte nel contrabbando di cocaina e cannabis. Alcuni dati mostrano come al-Qaeda nel Maghreb Islamico, che opera principalmente nell’Africa settentrionale e occidentale, sia stata coinvolta nel traffico di cannabis e cocaina, e nella protezione dei trafficanti. Anche Boko Haram, organizzazione terroristica basata principalmente in Nigeria e nei paesi confinanti, ha aiutato (ed aiuta) i trafficanti di droga a contrabbandare eroina e cocaina all’interno del territorio sotto il suo controllo.

Il contrabbando di medicinali contraffatti: la “droga del combattente”. Un’indagine della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria (2017) ha portato al sequestro di ventiquattro milioni di pastiglie del farmaco “tramadolo” (o “droga del combattente”, sostanza oppiacea sintetica usata dai miliziani negli scenari bellici mediorientali) che, vendute al dettaglio, avrebbero fruttato 50 milioni di euro sul mercato nero nordafricano e mediorientale. Il farmaco era arrivato al porto di Gioia Tauro dall’India ed era diretto in Libia. Recentemente, un alto rappresentante dell’Unodc (United Nations Office on Drugs and Crime) in Africa ha affermato: «Il tramadolo viene regolarmente ritrovato nelle tasche di sospetti terroristi arrestati nel Sahel, o che hanno commesso attacchi suicidi». Il traffico di tramadolo sarebbe gestito direttamente dall’Isis per finanziare le attività terroristiche che l’organizzazione pianifica e realizza in ogni parte del mondo; parte dei proventi illeciti derivanti dalla vendita di questa sostanza sarebbero destinati a sovvenzionare gruppi di eversione e di estremisti attivi in Libia, in Siria ed in Iraq.

Tratta degli esseri umani, sfruttamento del lavoro minorile e della prostituzione. Negli ultimi dieci anni, il profilo delle vittime della tratta di esseri umani è cambiato. Pur restando dominante la componente femminile, i bambini e gli uomini sono aumentati notevolmente. Oggi la tratta di esseri umani avviene in gran parte all’interno dei confini dei paesi di origine dei trafficati e spesso la riduzione in schiavitù viene utilizzata da gruppi terroristici per avere manodopera a basso costo (e quindi rappresenta una voce in attivo) oppure come vera e propria ricompensa. In particolare, questo riguarda le donne che vengono rapite dai gruppi jihadisti. Il rapimento di oltre 250 giovani donne ad opera del gruppo Boko Haram nel 2014 è stato il fatto rivelatore di un vero e proprio commercio di donne, che mette in relazione il terrorismo di matrice islamista e lo sfruttamento della prostituzione. Le ragazze rapite nel Nord della Nigeria, infatti, non subiscono solo dei matrimoni forzati con i combattenti dell’organizzazione terroristica (matrimoni che rappresentano una ricompensa o un pagamento per le azioni di guerra); alcune di loro sono vendute alle reti nigeriane della prostituzione, molto attive in Europa. Le mafie forniscono loro passaporti e le introducono nei paesi europei. Al loro arrivo, possono essere rivendute alle tenutarie nigeriane (le maman) per 10.000 euro. Per quanto riguarda i minorenni, nell’Africa sub-sahariana il numero di ragazzi vittime di tratta è maggiore di quello delle ragazze. Questo è dovuto all’aumento della domanda di lavoro forzato, allo sfruttamento dei minori nelle zone di conflitto (bambini-soldato) e allo sfruttamento per accattonaggio.

Il traffico di antichità e di beni culturali: il “petrolio di pietra”. Dopo aver conquistato vaste aree della Siria settentrionale e orientale e dell’Iraq, Islamic State è diventato il principale attore nel contrabbando di beni culturali della regione, facendone una imprescindibile fonte di reddito, in grado di assicurare un flusso costante di denaro e di sopperire alle perdite collegate allo sfruttamento dei pozzi petroliferi, sempre a rischio di bombardamenti nemici. Tra il 2010 e il 2014 si è verificato un balzo del 412% nelle importazioni di beni archeologici e artistici provenienti dall’Iraq e diretti negli Usa. Le importazioni di monete di argento, bronzo e altri materiali nobili provenienti dalla Turchia hanno raggiunto un picco di incremento del 129%, quelle provenienti da Israele del 466% e del 676% quelle dal Libano (tutti paesi, questi, confinanti con la Siria e, nel caso della Turchia, anche con l’Iraq). Certo queste statistiche si riferiscono a esportazioni legali e certificate (per quanto, è noto come la certificazione dei reperti e dei manufatti possa venire falsificata).

Ma se questo è stato l’incremento registrato nel mercato legale, possiamo intuire un più che significativo aumento nel parallelo mercato illegale. Ed è legittimo imputare l’incremento del traffico anche legale di antichità da aree in guerra e da teatri di crisi alle attività criminali poste in essere dai gruppi terroristici impegnati nelle aree di conflitto. Esistono evidenze incontrovertibili sia del coinvolgimento diretto dell’Isis nell’escavazione di siti archeologici e nel commercio illegale di antichità, sia dell’esistenza di una struttura governativa deputata a questo scopo. Nel maggio 2015, durante un raid delle forze speciali Usa nel nord della Siria, che portò all’uccisione di Abu Sayyaf al-Iraqi, membro di alto rango dell’Isis, vennero rinvenute prove documentali dell’esistenza di un apparato burocratico del Califfato preposto al traffico di antichità. Nella casa di Abu Sayyaf vennero infatti ritrovati una collezione di reperti (monete, libri cristiani, una placca di avorio rubata dal Museo di Mosul e oggetti falsi) e documenti che facevano riferimento ad una struttura governativa, guidata dallo stesso Abu Sayyaf, chiamata “Diwan al-Rikaz”, sorta di ministero per le risorse naturali diviso in due dipartimenti: un dipartimento petrolifero e un reparto antichità (tesori archeologici e beni preziosi saccheggiati): questo evidenzia che l’Isis ha trattato i beni archeologici alla stregua di una risorsa naturale, matura per l’estrazione e il profitto, proprio come il petrolio. 

In Italia ha fatto clamore una recente inchiesta della Procura di Salerno su beni archeologici trafugati dalla Libia, arrivati da Sirte nel porto di Gioia Tauro e presumibilmente scambiati con armi (kalashnikov e Rpg anticarro) provenienti dalla Moldavia e dall’Ucraina attraverso la mafia russa. Mediatori e venditori apparterrebbero alla ‘ndrangheta di Lamezia e alla camorra campana. Il trasporto in Italia sarebbe avvenuto via mare su navi e container di armatori cinesi. Sulla vicenda, la Procura di Salerno ha aperto un’inchiesta avanzando le ipotesi di «ricettazione ad opera di ignoti con finalità terroristiche e l’intermediazione di associazioni mafiose».

Il contrabbando di sigarette: le rotte principali, gli attori coinvolti ed i sospetti di finanziamento di gruppi terroristici. Come tutti i commerci illegali e clandestini, anche il contrabbando di tabacchi, e di sigarette in particolare, rappresenta una potenziale fonte di finanziamento delle organizzazioni criminali e terroristiche che, a dispetto di proclami restrittivi, si comportano come attori economici alla ricerca del massimo profitto. Il traffico illecito di sigarette si è dimostrato spesso un buon affare anche per le organizzazioni terroristiche, come nel caso di al-Qaeda nel Maghreb Islamico, al-Mourabitoun e Hezbollah. Il sedicente Stato Islamico proibiva ufficialmente il consumo di sigarette, ma ne consentiva il commercio in nero. È spesso accaduto che gli stessi contrabbandieri denunciassero i contravventori, ai quali veniva sequestrata la merce. Salvo qualche sporadico rogo dimostrativo, la merce sequestrata da Isis rientrava nel mercato nero alimentando le casse dei terroristi.

Le rotte geografiche del contrabbando di sigarette che interessano l’Italia. Il traffico multicarico di sigarette ed esseri umani avviene principalmente su battelli provenienti dalla Tunisia. I migranti tunisini infatti giungono su piccoli natanti con a bordo alcune decine di persone che cercano di evitare i soccorsi per non essere identificati, in quanto consapevoli della difficoltà che avrebbero a vedere accolta una richiesta di asilo. I migranti tunisini tentano il viaggio verso l’Europa in completa clandestinità, viaggiando di notte per meglio sfuggire ai controlli e approdare sulle coste italiane, dove verranno poi ritrovate solo le imbarcazioni arenate senza i migranti a bordo (di qui il nome di “sbarchi fantasma”). 

Nel 2016 si è intensificato un nuovo fenomeno correlato a ingenti flussi di sigarette dirette verso la Libia. È infatti aumentato il numero dei container che seguono una rotta anomala. Le spedizioni, dichiaratamente di sigarette, partono dagli Emirati Arabi Uniti (porto di Jebel Ali), e dopo un passaggio in vari porti comunitari (in particolare spagnoli e italiani) raggiungono la Libia. Le spedizioni, caricate a Jebel Ali, risalgono il canale di Suez, passano davanti le coste della Libia, sostano lungo i porti europei in Spagna, Francia e Italia per poi giungere a destinazione a Misurata, in Libia. La rotta seguita dalle spedizioni appare antieconomica. La Direzione nazionale antimafia sostiene che la scelta di un percorso più lungo rispetto alla distanza da percorrere, in mancanza di una giustificazione economica o logistica coerente, potrebbe in realtà essere un escamotage per introdurre le sigarette nel mercato illegale. L’instabilità geopolitica della Libia e la presenza di gruppi appartenenti al sedicente Stato Islamico rendono sospetti tali flussi. Parte dei profitti di quest’attività illecita potrebbe essere utilizzata per finanziare e sostenere attività terroristiche.

Le armi dell’Isis nel teatro siro-iracheno. I dati sulle rotte e sui luoghi di origine del traffico di armi derivano principalmente dai sequestri effettuati dalle forze di polizia. È interessante citare un importante studio sulle armi dell’Isis dal titolo Weapons of the Islamic State (2017) pubblicato dall’ong britannica Conflict Armament Research (CAR), finanziata dall’UE attraverso il progetto i-Trace. I team investigativi si sono schierati lungo le linee di frontiera dell’Isis da luglio 2014 a novembre 2017 in Iraq, e da luglio 2014 a settembre 2015 in Siria. Da luglio 2014, sono state documentate 1.270 armi e 29.168 unità di munizioni in Iraq, 562 armi e 11.816 unità di munizioni in Siria. Complessivamente sono state registrate 1.832 armi e 40.984 unità di munizioni sottratte alle forze dell’Isis in tutta la regione. Il materiale documentato costituisce il campione più completo di armi e munizioni sottratte finora all’Isis.

Le forze dell’Isis, come la maggior parte dei gruppi armati non statali, hanno acquisito man mano significative quantità di armi e munizioni sul campo di battaglia: dalle armi che Isis ha raccolto alla rinfusa dalle forze di difesa e sicurezza irachene durante i primi progressi del Califfato nel 2014, a materiale militare e armamenti sequestrati da Isis durante le offensive contro le forze governative siriane. Le prove presentate nel citato rapporto, tuttavia, confermano che molte delle armi dell’Isis ‒ e in particolare le sue munizioni ‒ sono state prodotte e consegnate nella regione in periodi successivi all’inizio del conflitto siriano nel 2011. Queste armi provengono da trasferimenti effettuati da paesi stranieri a disparate forze dell’opposizione siriana schierate contro il regime del presidente Bashar al-Assad. Il materiale giunto in Siria attraverso stati cuscinetto ‒ in particolare Giordania e Turchia ‒ è entrato rapidamente in possesso delle forze dell’Isis.

Queste dinamiche non sono nuove e rientrano tra gli effetti negativi associati all’intervento internazionale nelle guerre civili. Il sostegno dell’Arabia Saudita e degli Stati Uniti alle forze non statali nel conflitto afghano degli anni Ottanta ha prodotto effetti analoghi. Si tratta del cosiddetto fenomeno del dirottamento (divertion), che si verifica quando i beneficiari governativi violano gli accordi in cui si impegnano a non riesportare armi o munizioni senza il preventivo consenso dei governi esportatori. Queste clausole di non trasferimento sono esplicitamente progettate per ridurre il rischio di dirottamento e il successivo riuso di armi da parte di forze irregolari e terroristiche a scapito della pace e della sicurezza internazionali. In tre anni di rilievi effettuati dal Car in Iraq e Siria è risultato che circa il 90% di armi e munizioni impiegate dall’Isis arriva in primo luogo da Cina, Romania, Russia e da altri paesi produttori dell’Est Europa, tra cui Ungheria, Bulgaria e Serbia.

Una delle operazioni più interessanti degli ultimi anni contro il traffico di armi connesso alle milizie jihadiste risale al 2016 ed è stata effettuata dalle forze di sicurezza di Spagna, Italia, Francia e Grecia, coordinate dall’ufficio di polizia di Europol e assistite dall’agenzia statunitense per il controllo della droga. L’operazione ha portato all’arresto di 109 persone e al sequestro di un enorme carico di armi e droga (100 tonnellate di hashish, 11.400 armi da fuoco, oltre un milione di proiettili e 10 tonnellate di esplosivi) in cui era implicata una rete di trafficanti, gestita da cittadini siriani, che vendeva droga per armare gruppi jihadisti nel bacino del Mediterraneo. Gli arresti hanno coinvolto undici cittadini ucraini e un uzbeko, 34 siriani, 26 marocchini, 14 spagnoli, turchi, indiani e altre nazionalità. La maggior parte degli arrestati erano membri dell’equipaggio a bordo delle navi, aventi l’obiettivo di ricavare un guadagno dal traffico, più che di aderire alla jihad.

Più recentemente, il 13 settembre 2018 i miliziani curdi nel nord della Siria hanno catturato un jihadista dell’Isis, Semir Bogana, identificato come un mercenario italiano che stava cercando di superare il confine con la Turchia. Secondo le Unità di protezione del popolo curdo-siriane (Ypg), Bogana è un cittadino italiano noto anche con il nome di battaglia di Abu Hureyre al-Muhajir o Abu Abdullah al-Muhajir, ed è ritenuto responsabile per le forniture di armi all’Isis attraverso il confine turco. Bogana risulta tra gli oltre 800 combattenti dell’Isis di origine europea, prigionieri dei curdi-siriani, che gli Usa hanno intenzione di rilasciare affinché vengano processati nei loro paesi di origine (vedi sotto alla voceModelli e dinamiche di de-radicalizzazione: quali scelte per il futuro?”).

Flussi e modalità di finanziamento delle cellule jihadiste. L’approfondimento dei dati sui trasferimenti internazionali di valuta e sulle transazioni finanziarie, l’analisi del giro d’affari, dell’origine e dei flussi dei proventi delle più diverse attività criminali perpetrate dai gruppi jihadisti nelle aree europee, mediorientali e africane, ha assunto da subito una rilevanza centrale nel lavoro di ricerca. Tra le modalità di finanziamento del terrorismo jihadista rinveniamo le attività legali (stipendi e risparmi personali dei jihadisti, prestiti e carte di debito, etc.), le attività illegali (furti e rapine, traffici illeciti, frodi on line, contraffazione, etc.) le forme di sostegno popolare (fundraising e crowdfunding per progetti specifici come l’acquisto di armamenti attraverso Telegram e Whatsapp) e le sponsorizzazioni statali o provenienti da organizzazioni terroristiche internazionali. L’analisi effettuata ha consentito di ricostruire i principali schemi di finanziamento utilizzati dai jihadisti per cui il rapporto è punteggiato da avvincenti case studies che illustrano le più recenti indagini giudiziarie nazionali e internazionali sui canali di finanziamento del jihadismo.

Da sottolineare come alcuni gruppi di terroristi in Europa e altrove si sono finanziati principalmente con attività legali, come ad esempio prestiti, prestiti a studenti, lavoro salariato, attività commerciali legittime e supporto da familiari e amici. Amedy Coulibaly (autore dell’attentato al supermercato kosher di Porte de Vincennes in Francia nel 2015) era riuscito ad ottenere da una finanziaria un prestito personale esibendo le buste paga (sia pure fasulle) in garanzia; ma sono numerosi i casi di foreign fighters che hanno ottenuto prestiti dalle banche senza intenzione di restituirli. In Svezia numerosi foreign fighters si sono finanziati mediante prestiti bancari non garantiti in combinazione con i cosiddetti prestiti rapidi (prestiti via SMS) e/o leasing di SUV e altre automobili. Nel Regno Unito, esistono i cosiddetti payday loans tramite cui una società finanziaria concede entro 15/20 minuti al richiedente un prestito di piccola entità, che viene poi riscosso nel giorno in cui il richiedente riceve lo stipendio. I payday loans sono stati chiamati in causa per un fallito attacco suicida nel Regno Unito nel 2012, quando quattro uomini cercarono invano di prendere in prestito denaro da istituti di credito e banche. Un prestito di 20.000 sterline era stato richiesto online a Yes Loans da un terrorista che fingeva di essere un lavoratore autonomo. Lo stesso aveva fatto richiesta di un prestito di 18.000 sterline a Barclays, mentre un altro membro aveva richiesto 15.000 sterline ad un altro ramo della stessa banca.

Le donazioni private: la jihad per procura e la sadaqa. Riguardo le donazioni private, si segnala il metodo del “Tajheez al-Ghazi” (da tajheez, “preparazione”, e al-ghazi, “guerriero”). Consiste in una sorta di jihad per procura, mediante la quale coloro che non possono o non vogliono unirsi fisicamente alla jihad possono comunque contribuirvi mediante una donazione privata. Si tratta di un metodo molto comune di “sponsorizzazione” per jihadisti e foreign fighters in tutto il mondo. Le donazioni provengono sia da ricchi benefattori che da privati cittadini, possono essere di diversa entità e anche limitarsi all’acquisto del biglietto aereo per il foreign fighter o di una parte del suo equipaggiamento. Lo Stato Islamico ha ricevuto sadaqa (donazioni volontarie) da donatori residenti nei paesi del Golfo: per esempio, lo Stato Islamico ha ricevuto, in un’unica tranche, un finanziamento di 2 milioni di dollari da donatori privati arabi.

L’entità dei finanziamenti necessari alla preparazione di un attentato terroristico. Gli attentati, tra loro collegati, alla redazione parigina di Charlie Hebdo e al supermercato kosher di Porte de Vincennes, compiuti nel gennaio 2015 rispettivamente dai fratelli Kouachi e da Amedy Coulibaly, hanno confermato l’esiguità delle somme necessarie alla preparazione di un attentato terroristico: i tre terroristi coinvolti nell’attacco a Charlie Hebdo, non avevano un lavoro regolare e per finanziarsi hanno utilizzato fonti lecite, come il credito al consumo, e illegali come trasferimenti in denaro legati alla vendita di merci contraffatte. In particolare, l’attacco fu organizzato con i proventi di un traffico di Nike contraffatte (gestito da Said Kouachi). Amedy Coulibaly, invece, si finanziò con un prestito di 15.000 euro, ottenuto da Financo (dietro presentazione di false buste paga) e mai saldato; il prestito fu utilizzato per l’acquisto di una macchina, una Mini Countryman del valore di 27.000 euro, poi rivenduta in Belgio per finanziare l’acquisto di armi.

Cyberterrorismo e supporto tecnologico, logistico e finanziario alla jihad nello spazio cibernetico. Nel rapporto non mancano squarci nell’attualità più avveniristica, come le analisi dedicate al cyberterrorismo e allo spazio cibernetico, divenuto il nuovo campo di battaglia e di competizione geopolitica ed economica per il jihadismo, il quale, con la nascita dell’Isis, è entrato ormai nell’era del cosiddetto “califfato virtuale”. Il rapporto ha individuato varie forme di supporto alla jihad nel dark web dove è più forte l’attivismo dei jihadisti che forniscono sia supporto tecnologico a fini propagandistici (banner pubblicitari per Amaq, ossia per l’agenzia di stampa e organo di propaganda dello Stato Islamico, tools per l’uso di TAILS (sistema operativo pensato per preservare riservatezza e anonimato ai suoi utilizzatori), sia supporto logistico alla jihad (campagne di mobilitazione per l’equipaggiamento di armi dei mujaheddin; siti non ufficiali dove poter monitorare localmente le battaglie del Califfato attraverso un rilascio sequenziale di video dalle zone di guerra; presenza di dark market e vendor privati per rendere possibile a lone wolves l’acquisto di armi attraverso il pagamento in bitcoin), sia, infine attraverso forme di supporto finanziario alla jihad (piattaforma di crowdfunding per il finanziamento dei mujaheddin, indirizzi di wallet di bitcoin a cui fare donazioni). Il finanziamento alla jihad viene anche propagandato attraverso le piattaforme social: twitter, facebook, post in tutte le lingue, per cui il messaggio jihadista viene diffuso all’intera comunità globale.

Movimenti speculativi, correlazione tra indici di borsa e attentati terroristici: alla ricerca di alerts predittivi nel mondo finanziario e borsistico. In futuro, la costruzione di indici antiterrorismo potrebbe rivelarsi piuttosto utile al fine di fornire tempestivamente warning di natura anche tattica agli stakeholders e di predire eventuali attentati terroristici, captando dal mondo finanziario eventuali segnali di movimenti speculativi. È stato infatti osservato in alcuni studi che il mercato delle options (principalmente PUT) e l’indice VIX (indice di borsa che stima la volatilità implicita delle opzioni sullo S&P 500, offrendo una previsione della variabilità del mercato azionario nei successivi 30 giorni) hanno reagito ad eventi successivi anticipando attentati come quelli dell’undici settembre, di Madrid, di Charlie Hebdo e di Parigi, attraverso movimenti speculativi, abnormal trades e informed trading activities, evidenziando una certa correlazione tra indici borsistici e attentati terroristici.

Esempi di connessioni strumentali/funzionali tra sodalizi criminali europei e terrorismo jihadista. Le investigazioni hanno fatto emergere, tra le altre cose, casistiche non strutturate di un intreccio di interessi tra criminalità e gruppi jihadisti, come anche riscontri di una specializzazione funzionale delle diverse realtà criminali. Non è il caso di immaginarsi cupole di potere o strutture unitarie e verticistiche in cui i rappresentanti della criminalità organizzata o delle mafie nostrane siedano assieme ai capi jihadisti, né è lecito parlare, allo stato presente delle indagini e delle inchieste giudiziarie, di una stretta connessione dei circuiti della criminalità comune, e ancor più di quella organizzata, con il fenomeno terroristico.

E tuttavia, non mancano esempi di contatti tra jihadisti ed esponenti della criminalità organizzata. È di questi giorni, ad esempio, la notizia di un terrorista dell’Isis, Nabil Benamir, arrestato a Genova, che in carcere si è rivolto ad un affiliato alla sacra corona unita per richiedere una partita di kalashnikov, detonatori ed esplosivo T4. Dal rapporto emergono inoltre casi di studio in cui gli interessi della criminalità si incrociano con quelli dei jihadisti, e accade che le rotte delle migrazioni coincidano con quelle del contrabbando di tabacchi, di droga, di armi, di opere d’arte dai teatri di guerra di Siria e Iraq, e del trasporto clandestino di jihadisti.

Al riguardo, è paradigmatica l’operazione condotta dalla Guardia di Finanza “Scorpion Fish 2” in quanto non solo illustra come diversi traffici illeciti (nel caso specifico, di migranti e di sigarette di contrabbando) possano intersecarsi e sovrapporsi in spedizioni multicarico, ma fornisce una prova dell’esistenza di pericolose congiunzioni tra sodalizi criminali e terrorismo di matrice jihadista: il 10 aprile 2018 i finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Palermo e della Compagnia di Marsala hanno eseguito, nelle province di Palermo e Trapani, 13 arresti di soggetti di nazionalità tunisina, italiana e marocchina, appartenenti ad un’organizzazione criminale transnazionale dedita al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e al contrabbando di tabacchi. L’associazione, capeggiata da pericolosi pregiudicati tunisini, consentiva agli immigrati clandestini di raggiungere, in poco meno di 4 ore di navigazione, le coste italiane, utilizzando gommoni carenati con potenti motori fuoribordo ed esperti scafisti. Ogni viaggio, per il quale venivano imbarcate dalle 10 alle 15 persone, con costi pro capite tra i 3.000 e i 5.000 euro, prevedeva anche il trasporto di sigarette di contrabbando destinate al mercato nero italiano ed in particolare a quello palermitano. Per la conduzione del traffico, che poteva fruttare complessivamente tra i 30.000 e i 70.000 euro a viaggio, era stata predisposta una efficiente organizzazione che contava su elementi tunisini, italiani e marocchini, in posizione subordinata, i quali si occupavano di fornire ai clandestini un servizio “shuttle” dalle spiagge di sbarco sino alle basi logistiche dell’organizzazione. Inoltre, il sodalizio si occupava della ricezione, dello stoccaggio e della successiva commercializzazione di sigarette di contrabbando nel mercato palermitano. Nell’ambito del gruppo delinquenziale operavano anche alcuni soggetti con orientamenti tipici dell’islamismo radicale di natura jihadista, caratterizzati da atteggiamenti ostili alla cultura occidentale, che facevano propaganda attraverso falsi profili su piattaforme social. Durante l’operazione sono stati bloccati sulla battigia, in un’azione coordinata con il Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (GICO) di Palermo e la Compagnia di Marsala, 19 clandestini e sequestrati oltre 4 quintali di sigarette di contrabbando. Si ritiene che le sigarette contrabbandate, per lo più di marche estere (“Pine Blue” e “Business Royals”), siano state smerciate nei mercati rionali palermitani al prezzo di non più di 3 euro a pacchetto, con guadagni di oltre 17mila euro per ogni quintale di “bionde” contrabbandato. Nel 2016 un iracheno di 46 anni, Aziz Ehsan, sul quale pesava un mandato di cattura internazionale emesso in Svizzera, dove era ricercato in relazione a una varietà di reati tra cui falsificazione, aggressione e possesso di armi illegali, è stato fermato presso Castelvolturno, in provincia di Caserta, con l’accusa di negoziare accordi con la camorra per il traffico di armi e di documenti falsi.

Il crime-terror nexus: passato, presente e futuro criminale dei terroristi. Sono innumerevoli i casi di terroristi di matrice islamista con precedenti penali: Amedy Coulibaly, artefice del massacro al supermercato kosher di Parigi, era stato in carcere per rapina a mano armata e successivamente per possesso di armi e di documenti falsi. L’autore dell’attacco sventato al treno Amsterdam-Parigi, Ayoub el-Khazzani, era stato condannato due volte per spaccio di droga, mentre Mehdi Nemmouche, l’attentatore del Museo ebraico di Bruxelles, era stato imprigionato per rapina. Omar Ismael Mostefai, uno dei kamikaze dell’attacco al Bataclan, aveva otto condanne per reati minori, e i fratelli Ibrahim e Salah Abdeslam, suoi sodali, erano stati condannati rispettivamente per furto e rapina a mano armata. Dietro il loro feroce operato, la “mente” Abdelhamid Abaaoud, anche lui con precedenti per rapina.

Il nesso crimine-terrore (crime-terror nexus) emerge anche da un precedente studio condotto dalla Fondazione ICSA su un campione internazionale di ben 485 jihadisti costituito sulla base dell’archivio dell’Interpol e del database dell’Icsr (International Centre for the Study of Radicalisation and Political Violence of King’s College, London). Il campione analizzato da Icsa include homegrown terrorists (i terroristi autoctoni), foreign fighters, appartenenti ad al-Qaeda, ai talebani, all’Isis e ad altri gruppi terroristici, tenendo presente che nel database di Interpol, Isis è classificato come al-Qaeda in Iraq, una delle precedenti denominazioni assunte nel corso delle sue varie configurazioni prima di imporsi definitivamente come Islamic State of Iraq and Syria. Il 57% del campione appartiene alla fascia d’età tra i 40 ed i 50 anni, con un’età media di 46 anni. Il dato impressionante è che ben il 68% dei terroristi analizzati ha precedenti penali di ogni sorta, dal crimine violento alla rapina a mano armata ai reati minori, come lo spaccio di droga o la frode fiscale. L’indagine in questione ha confermato che il crimine è un “driver” del terrorismo, accanto alla componente religiosa. Il 27% del campione era stato in prigione in patria o all’estero, evidenziando una particolare familiarità con il mondo carcerario, dove spesso si verifica la radicalizzazione e nuove reclute vengono indottrinate per unirsi alla causa della jihad. Il 32% del campione è stato coinvolto nell’uso di armi da fuoco, pistole o esplosivi. Ciò implica il contrabbando o l’uso di armi nel corso dell’attività criminale, a volte contempla il traffico di armi o esplosivi da una regione all’altra per aiutare le persone sul fronte di guerra o semplicemente per trarre profitto da questo genere di traffico. Solo il 10% del campione è stato coinvolto nel traffico di droga (ma la percentuale sale al 22% se consideriamo il sottogruppo degli homegrown terrorists): questo perché la droga è argomento divisivo tra i terroristi, che da un lato dipendono economicamente dalla sua commercializzazione (come nel caso dei talebani) e la usano come strumento di destabilizzazione delle società occidentali, dall’altro (come nel caso di Isis) ne vietano il consumo nei territori controllati. Il 32% del campione è coinvolto in reati violenti, dagli attentati ai rapimenti, un fenomeno non riconducibile solo alla loro adesione alla militanza violenta. Alcuni terroristi infatti hanno mostrato comportamenti violenti durante tutto il corso della vita. Addirittura il 55% dei terroristi homegrown è stato coinvolto in crimini violenti, mentre in organizzazioni molto più strutturate come Al-Qaeda o i talebani, rispettivamente solo il 33% e il 17% sono collegati a crimini violenti sia a livello nazionale che all’estero. Il 33% del campione è coinvolto in reati minori (tra questi, il 65% appartiene al gruppo dei terroristi homegrown). È interessante notare che il 28% del campione è stato coinvolto nel crimine finanziario, il che significa che ha finanziato la causa della jihad sfruttando tecniche sotterranee (come l’hawala). Un altro aspetto interessante è la combinazione di diversi tipi di reato, il che significa che a volte il comportamento illegale non è correlato solo a un particolare tipo di crimine, ma è la somma di diversi tipi di reati. Ad esempio, 55 terroristi su 485 hanno commesso sia crimini minori che violenti. Il 58% di essi è homegrown, il 25% di al-Qaeda e l’11% milita nei talebani.

Interessante notare come il 33% del campione analizzato sia costituito da figure di spicco in ambito religioso (ovvero mullah, membri del Consiglio della Shura, leader religiosi). Tra questi, ben il 53% ha precedenti penali. Dunque, anche tra le figure di vertice dotate di un’autorità in campo religioso il crimine non è considerato immorale, se funzionale alla causa del jihadismo. E questo dato rispecchia da vicino quell’atteggiamento apologetico verso il crimine e le attività criminali (soprattutto se condotte in ambito occidentale ) che si riscontra così spesso sulle riviste dei jihadisti.

Il jail-terror nexus: il carcere come luogo di radicalizzazione e proselitismo. Una importante sezione del rapporto è dedicata alla presenza di terroristi jihadisti all’interno delle carceri italiane. Tra il passato da criminali e il futuro da terroristi, c’è spesso l’esperienza-ponte del carcere come luogo di conversione all’ideologia jihadista. In tempi di auto-radicalizzazione digitale, in cui l’adesione solitaria al jihadismo avviene per lo più sul web, le prigioni sono oggi - molto più delle moschee e dei centri culturali islamici - il luogo fisico per eccellenza in cui la radicalizzazione avviene ancora faccia a faccia. Rappresentano peraltro anche il punto di massima vicinanza del milieu criminale e di quello jihadista; e con l’andamento crescente del numero di terroristi che ricevono condanne e vengono incarcerati, divenendo focolai di nuova radicalizzazione per i compagni di detenzione, sono destinate ad assumere un ruolo sempre più centrale nelle dinamiche del contagio islamista.

All’interno dell’amministrazione penitenziaria, l’analisi del fenomeno della radicalizzazione consiste nel monitoraggio tanto dei soggetti detenuti per reati di terrorismo che di coloro che sono segnalati dalle articolazioni periferiche per presunte attività di proselitismo e di reclutamento. Nello specifico l’attività si sviluppa su tre diversi livelli. Il primo livello - alto - raggruppa i soggetti per reati connessi al terrorismo internazionale e quelli di particolare interesse per atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e/o di reclutamento. Il secondo livello - medio - raggruppa i detenuti che all’interno del penitenziario hanno evidenziato più atteggiamenti che fanno presupporre la loro vicinanza all’ideologia jihadista e quindi, ad attività di proselitismo e reclutamento. Il terzo livello - basso - raggruppa quei detenuti che, per la genericità delle notizie fornite dall’istituto, meritano approfondimento per la valutazione successiva di inserimento nel primo o secondo livello oppure il mantenimento o l’estromissione dal terzo livello.

Secondo l’ultima relazione (2018) presentata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, il numero complessivo dei ristretti nei tre livelli menzionati è pari a 506 soggetti, su 12.775 ristretti provenienti da paesi di fede tradizionalmente musulmana. Di questi 506: 242 sono collocati al “primo livello”, 62 dei quali sono ristretti per reati di terrorismo internazionale; 114 al “secondo livello”; 150 al “terzo livello”. Nell’allocazione dei detenuti condannati per reati legati al terrorismo internazionale, l’amministrazione penitenziaria ha evitato, in linea di massima, la concentrazione in singoli istituti, prediligendo la maggiore distribuzione geografica in aree del Centro-Sud dove è minore la concentrazione di detenuti di fede islamica. Tra i soggetti monitorati alla fine del 2017, la distribuzione dei reati (da tenere presente che diverse fattispecie di reato possono coesistere) è la seguente: il 30,8% è detenuto per traffico stupefacenti, l’11,85% per favoreggiamento all’immigrazione, il 10,47% per riciclaggio, il 2,50% per falsificazione di documenti.

Modelli e dinamiche di de-radicalizzazione: quali scelte per il futuro? Approssimandosi la caduta militare del Califfato, il 17 febbraio del 2019, gli Usa, come già accennato, hanno chiesto a Gran Bretagna, Francia, Germania e agli altri alleati europei di riprendersi oltre 800 volontari europei dell’Isis, catturati in Siria, per processarli e condannarli. La richiesta è stata avanzata con un tweet dal presidente Donald Trump secondo il quale gli Usa potrebbero essere costretti a rimettere i combattenti Isis in libertà esponendo gli stati europei al rischio di un rientro massiccio di foreign fighters sul suolo europeo. Tra questi 800 detenuti, quelli di origine italiana sono il già citato Semir Bogana, Meriem Rehaily e Sonia Kediri. I tre sono tra i 138 foreign fighters che hanno lasciato il nostro Paese per combattere tra i jihadisti in Siria e in Iraq.

Che fine faranno i returnees una volta rientrati in Europa? Le leggi penali dei singoli stati europei sono attrezzate sul piano della perseguibilità e punibilità dei returnees per avere combattuto e perpetrato crimini all’estero in nome del Califfato? Il rapporto ICSA ha comparato gli attuali modelli di de-radicalizzazione dei jihadisti protendendosi verso un futuro imminente in cui i decisori politici italiani saranno chiamati a scelte responsabili e ponderate sui foreign fighters di ritorno, sui soggetti a rischio di radicalizzazione o già radicalizzati e coinvolti in attività terroristiche: i problemi relativi al loro trattamento ed alla loro eventuale reintegrazione nella società da cui si sono drammaticamente autoesclusi richiede un dibattito accademico, giuridico e mediatico su cui il nostro Paese è in ritardo, a differenza di altri paesi europei, ma anche arabi e non occidentali in genere.

Oltre ad analizzare punti di forza e criticità del modello danese di de-radicalizzazione, considerato un’esperienza di riferimento per gli studiosi del fenomeno, il rapporto passa in rassegna anche altri modelli, incentrati sul “disindottrinamento” dei jihadisti e sulla soppressione delle loro credenze giudicate “devianti”, oppure focalizzati su interventi di tipo comportamentista, che puntano a neutralizzare i comportamenti violenti dei radicalizzati senza necessariamente occuparsi delle questioni di fede o di teologia islamica.

Il rapporto non manca di considerare anche le criticità dei programmi di de-radicalizzazione già sperimentati o implementabili: fino a che punto si possono estendere le misure economiche di reintegrazione dei soggetti con trascorsi di radicalizzazione violenta perché non appaiano ingiustamente premiali nei confronti di chi ha sposato la causa del jihadismo? Come misurare l’efficacia dei modelli di de-radicalizzazione implementati o ancora da mettere a punto? E quali tipologie di soggetti sono predisposti ad un’azione di de-radicalizzazione che abbia effettive chance di successo?

Le metodologie di contrasto ed il ruolo dell’intelligence. Ogni indagine antiterrorismo presuppone l’attivazione di misure di prevenzione e di contrasto che originano dalle analisi e dalle valutazioni delle informazioni sulla organizzazione che si intende perseguire e sui suoi adepti. Due sono gli elementi importanti cui l’investigatore deve far ricorso: in primis l’osservazione, impostata scientificamente attraverso le risorse umane e quelle tecnologiche, come le intercettazioni preventive e giudiziarie, specie quelle ambientali; in secondo luogo, l’infiltrazione nel gruppo da investigare con l’ausilio di operatori addestrati per tale specifica incombenza.

La chiave per interpretare il livello di una potenziale minaccia terroristica è rappresentata aprioristicamente dall’esame del processo di adesione radicale di un individuo ad una ideologia estremistica che potrebbe indurlo all’uso della violenza. A tal fine è necessario servirsi di segnali specifici, cioè indicatori soggettivi, oggettivi e soprattutto comportamentali in capo all’individuo sospettato di adesione a disegni terroristici, che siano in grado di tracciarne il profilo.

Poiché idee radicali non necessariamente corrispondono all’adozione della prassi terroristica è bene imparare a distinguere, sia a livello investigativo che mediatico, tra “radicalizzazione ideologica” (cioè l’adesione ad ideologie radicali, che può avvenire anche entro una cornice di legalità) e “radicalizzazione violenta” intesa come adozione di propositi/comportamenti aggressivi. Confondere i due piani può dare adito all’individuazione di “falsi positivi” (soggetti ingiustamente accusati di terrorismo solo perché aderenti ad un’ideologia radicale) e alla dispersione di energie investigative, oltre che indurre risentimento e frustrazione nei soggetti accusati, sospingendoli verso l’opzione terroristica.

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