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C. K. PRAHALAD: CINA E INDIA, UNA RIVOLUZIONE E UNA GRANDE OPPORTUNITÀ

Professore di Business Administration, Corporate Strategy e International Business nell’Università del Michigan, esperto in management strategico, in commercio internazionale, in competizione, ruolo e valore aggiunto del top management, Premio Nobel per l’Economia, C.K. Prahalad svolge anche un’intensa attività di consulente economico. Lo scorso dicembre gli è stato conferito a Venezia il «Prize for Leadership on Business and Economics Thinking», riconoscimento con cui la Telecom Italia in collaborazione con la Promostudio premia ogni anno uno studioso distintosi negli studi sull’economia di impresa, e che negli anni precedenti era stato assegnato a Robert Kaplan, Edward De Bono e Richard Normann. In questa intervista Prahalad espone una lucidissima e incontestabile, anche se rivoluzionaria, prognosi dell’economia mondiale, in riferimento in particolare alle prospettive di sviluppo dei più popolosi Paesi del mondo, la Cina e l’India.

Domanda. I Paesi occidentali possono trarre vantaggio dai bassi costi di produzione e dalla concorrenzialità cinese e indiana?
Risposta. L’interrogativo reale per noi è come e con quali strumenti avere accesso a un mercato costituito da 5 miliardi di persone. Ad esempio fornendo servizi nel campo della microfinanza o dell’energia, o prodotti della moda e del comparto alimentare. Abbiamo dinanzi un’opportunità immensa e sta già emergendo come una delle componenti principali del mercato, perché lo sviluppo economico all’interno della Cina e dell’India comporta l’aumento dei redditi familiari e quindi dei consumi di prodotti e servizi che via via la gente povera potrà permettersi, favorita anche dal ricorso a sistemi di pagamenti rateali e dalla realizzazione di prodotti che costano poco. Se osserviamo la storia passata, vediamo che dinanzi a Paesi ricchi esistono sempre Paesi poveri, e questa è la situazione attuale. Allora immaginiamo cosa succede quando i poveri sono più numerosi dei ricchi. Oggi esistono circa 5 miliardi di poveri e solo un miliardo di ricchi, per cui appare evidente la convenienza di sfruttare questo mercato. Esiste una notevole differenza nei costi, quelli in atto nei Paesi ricchi sono notevolmente superiori a quelli esistenti nei Paesi poveri; questo fatto è destinato a influenzare anche il modo di vivere dei ricchi. Assistiamo già a questo fenomeno per esempio nei settori delle calzature e dei prodotti tessili: in Cina i salari percepiti dai lavoratori sono bassissimi, ma si sta creando ugualmente un mercato di questi prodotti per i poveri, e di conseguenza le strutture dei loro costi dovranno essere notevolmente diverse. Ritengo che in Europa si comprenda in pieno l’effetto che questo fenomeno e questo nuovo modello potranno avere sui posti di lavoro e sugli stili di vita.

D. A quale effetto si riferisce?
R. Abbiamo assistito alle conseguenze di questo fenomeno negli Stati Uniti dove con appena una trentina di dollari si può acquistare un lettore di dvd o un telefonino. Questi prodotti non sono stati inventati per i ricchi, ma per i poveri: magari si tratta di un telefonino che non avrà incorporata la macchina fotografica, ma la qualità di base è la stessa. In Cina e in India saranno venduti 500 milioni di telefonini, è un mercato dalle dimensioni più vaste di quello degli Stati Uniti e dell’Europa insieme, per cui Cina e India dovranno essere consultate in sede di definizione degli standard tecnologici da adottare.

D. Saranno quei Paesi a orientare la produzione?
R. Lo sviluppo di prodotti basati sulle tecnologie più avanzate, come i cellulari e il comparto della telefonia senza fili, avverrà ormai solo grazie ai Paesi poveri; senza l’apporto di questi la crescita sarebbe molto ridotta. In Europa essa è pari soltanto al 2-3 per cento; in India il numero degli abbonati aumenta di due milioni al mese e la tariffa che si paga per minuto di conversazione è inferiore a un centesimo di dollaro; il servizio telefonico costa meno che altrove, e questa è la seconda formidabile componente dello sviluppo.

D. Con queste prospettive che devono fare i Paesi occidentali?
R. Ricercare nel mondo i migliori talenti e i più bassi costi. Oggi le aziende sono disposte a dividere e trasferire le loro attività, per cui possono raggiungere rapidamente economie di scala, riduzioni di costi e aumenti di qualità, puntare su tutti questi elementi simultaneamente e conseguire notevoli vantaggi. Le grandi aziende mondiali come Siemens, Philips, Nokia, Motorola, cambieranno i sistemi interni di gestione e impiegheranno talenti in Cina, in India e nei Paesi dell’Europa orientale. Ma in questi ultimi non in larga misura, sia perché la popolazione non è così numerosa come nei primi due, sia perché i loro costi di produzione stanno salendo con grande rapidità e si stanno sviluppando le stesse abitudini di lavoro esistenti nell’Europa occidentale: puntano a lavorare 35 ore alla settimana anche loro, mentre in Cina e in India sono disposti a lavorarne anche 50 o 60.

D. C’è qualche analogia con fenomeni del passato?
R. Sia pure a distanza di tempo, in Cina e in India si creeranno innovazioni come un tempo avveniva negli Usa. Nel XIX secolo in Europa la Germania e l’Inghilterra avevano il predominio industriale; nel XX secolo la leadership in questo campo è passata agli Stati Uniti, che hanno costruito le aziende più grandi e importanti del mondo come Ford, General Motors, Ibm. Oggi stiamo per assistere allo spostamento della leadership, a un cambiamento, a una transizione verso la Cina e verso l’India.

D. Quale sarà allora il futuro?
R. Nei prossimi 20 anni mi aspetto di vedere nascere aziende mondiali anche in questi Paesi. Esistono già esempi di marchi globali nella Cina, che ha comperato ad esempio l’attività dei computer della Ibm. Il mondo sta diventando ogni giorno più uniforme ed anche i Paesi poveri possono partecipare al processo di innovazione. Pertanto per le aziende europee è ancor più necessario essere presenti nei mercati e comprendere gli sviluppi in corso. La maggiore infrastruttura dedicata alla ricerca e allo sviluppo, quella della General Electric, non è situata negli Stati Uniti ma in India. Lo stesso per l’Intel e per la Motorola, che hanno centri di ricerca sia in India sia in Cina, Paesi che stanno impiantando attività industriali sempre più grandi in tutto il mondo.

D. Che fanno l’Europa e il Giappone?
R. Sia le aziende giapponesi sia quelle europee reagiscono con lentezza e la maggior parte di quelle esistenti nell’Europa meridionale sono ancora più lente di quelle dell’Europa settentrionale. Questo si spiega con la necessità di difendere i posti di lavoro in questa parte del mondo, ma così si perde la capacità di restare competitivi. Non dobbiamo considerare lo sviluppo dei Paesi asiatici come un’esportazione verso di essi di posti di lavoro, ma come una possibilità di importare da essi competitività. Secondo il vecchio modello, i Paesi industrializzati e sviluppati dovrebbero sempre dominare i Paesi in via di sviluppo; secondo quello nuovo, i Paesi emergenti possono diventare maggiori o uguali rispetto ai Paesi sviluppati. La maggiore azienda elettronica del mondo, la Samsung, è della Corea del Sud; vent’anni fa questo era un Paese poverissimo e senza alcuna tradizione di sviluppo industriale.

D. Come stanno reagendo i Paesi occidentali?
R. Pensano di poter far fronte a questo fenomeno sviluppando la ricerca di prodotti altamente tecnologici che non saranno disponibili per le grandi masse cinesi e indiane, ritenendo che nel mondo esisterà sempre un mercato sufficiente per noi. Questo è il concetto esistente in Europa e in Italia. Inoltre si cerca di stimolare in Cina e in India la formazione di movimenti di obiezione e di protesta diretti a rivendicare il riconoscimento dei diritti dell’uomo e quindi a imporre un aumento dei costi di produzione. Anche a prescindere da questa tendenza, le leggi sull’economia insegnano che, aumentando i redditi familiari e il prodotto interno della Cina e dell’India, aumenteranno anche i consumi e quindi i costi, per cui in un certo numero di anni si giungerà a un’equiparazione con la situazione occidentale.

D. Non avvenne lo stesso in Italia?
R. Negli anni 50 l’Italia, distrutta dalla guerra finita nel 1945, nel giro di 10 o 15 anni giunse rapidamente al massimo dello sviluppo economico, tanto da incontrare, nel 1963, la prima crisi economica. E non c’erano la motorizzazione, la globalizzazione, le strade e i mezzi di comunicazione di oggi. Nonostante l’immenso territorio di cui dispone e il miliardo circa di abitanti, la Cina, con il 10 per cento di aumento annuo del prodotto interno che registra, andrà presto incontro agli stessi fenomeni che hanno conosciuto l’Europa e gli Stati Uniti.

D. Si possono superare questi problemi riducendo i consumi?
R. Questi sono più desideri, perché vogliamo sviluppare, anzi, telefonini sempre più sofisticati. Ma per realizzarli dobbiamo produrre il software. Senonché la popolazione d’Europa sta invecchiando, non c’è più un numero sufficiente di studenti in Ingegneria, per cui il software può essere prodotto solo in quei Paesi in cui vi sono molti giovani ingegneri. Non so quanti ingegneri si laureano ogni anno in Italia; in India sono qualche centinaio di migliaia e si vuole arrivare a un milione l’anno. Per questo non potremo fare a meno di andare in quel Paese a sviluppare prodotti sofisticati. C’è un esempio italiano, costituito dal software della Ferrari elaborato dalla Data Consulting. Noi possiamo sviluppare telefonini extralusso, tempestati d’oro e di diamanti, ma questo non costituisce ricerca e sviluppo. A differenza degli Stati Uniti, il problema maggiore in Europa è rappresentato dall’invecchiamento della popolazione e dall’incapacità di attrarre un’immigrazione di qualità; quella avvenuta e in atto è costituita da persone addette a lavori di basso livello, mentre negli Stati Uniti l’immigrazione è molto più selezionata e costituita da laureati e professionisti che vi si recano per svolgere lavori di alto livello. Quindi in Italia braccia e mani, negli Stati Uniti solo cervelli. Anche se l’Europa volesse sviluppare prodotti sofisticati, avrebbe bisogno di una base in Asia. In Europa non esiste un solo produttore di televisori al plasma, a schermo piatto, che vengono sviluppati e prodotti in Asia, nella Corea del Sud, a Taiwan, e venduti in Europa.

D. Ritiene infondata la speranza in una crescita dei diritti dei lavoratori?
R. I grandi gruppi mondiali stanno mettendo a punto programmi per garantire che le loro aziende rispettino i diritti dei lavoratori, ma non si può concedere a questi di lavorare solo per 35 ore a settimana. Magari non lavoreranno 70 ore, ma arriveranno almeno a 48. Comunque il problema dei diritti del lavoratore viene sempre risolto prima dagli Stati Uniti, nel senso che attualmente anche i manager americani lavorano più di 50 ore a settimana. Solo in Europa si pensa di poter lavorare 35 ore a settimana. Ogni manager americano lavora almeno il 40 per cento in più dei colleghi europei. Bisogna separare il problema dei diritti dell’uomo da quelli dei salari e dell’orario di lavoro.

D. Ritiene quelle popolazioni così sorde alle sirene del consumismo?
R. Esiste un’offerta di manodopera così abbondante che, anche in caso di aumento dei redditi, è improbabile che i salari salgano ai livelli europei almeno per un lungo periodo. Il prodotto interno medio pro-capite è tra i mille e i 1.500 dollari in Cina; forse a Shanghai e a Pechino è di 3 mila, ma occorrerà molto perché arrivi a 25 mila dollari, per cui a lungo i cinesi godranno del vantaggio dei bassi costi di produzione. Per cui il mio suggerimento è questo: non speriamo che il problema scompaia, semmai durerà più a lungo e diverrà più grande. Come mi diceva mia madre, gli amici possono andare e venire, ma i nemici si accumulano e aumentano; così sono i problemi.

D. Ci sarà ancora sfruttamento di Paesi a danno di altri?
R. C’è un altro aspetto. Ho scritto un libro intitolato «The future of competition», ovvero il futuro della concorrenza, che si rifà al primo modello cui ho fatto riferimento; il secondo testo che ho scritto è intitolato «La fortuna alla base della piramide» e in esso sostengo che si può combattere la povertà attraverso l’utile e il profitto; è stato tradotto in molte lingue, non so se esista una versione in italiano. Ne sto scrivendo un altro che non uscirà prima del 2007 e che tratta della contrapposizione tra consumatore e azienda. Un quarto fa riferimento ai Paesi poveri ed emergenti rispetto al gruppo dei Paesi sviluppati. Quello del colonialismo è il problema su cui tutto il mondo si è primariamente concentrato; nella prossima fase dovremmo democratizzare il commercio in modo che tutti gli esseri umani, ovvero ciascuna persona, abbia la possibilità di partecipare all’economia mondiale. Se consideriamo i modelli cui abbiamo fatto riferimento, vediamo che potremo liberare le energie della gente e che il potere delle grandi aziende sarà annullato in modo da consentire alle persone di creare le proprie esperienze e di partecipare al commercio globale, per cui i poveri potranno beneficiare di prodotti e servizi di alta qualità.

D. Quali vantaggi hanno lo sviluppo cinese e quello indiano per l’umanità?
R. Oltre che a uno sviluppo, stiamo assistendo a una svolta. Non la considero un problema ma un’opportunità. Il primo diritto di ogni uomo è vivere con dignità e con la possibilità di scegliere; il commercio mondiale sta aiutando la Cina e l’India a far sì che la gente conosca la dignità e la libertà di scelta. Dieci anni fa, quando pensavamo all’India, l’unica immagine che veniva in mente era quella della povertà; adesso si pensa alla sua produzione di software. È un cambiamento rilevante. Certamente c’è ancora povertà in India, ma la gente sta meglio e pensa di poter essere anche essa una parte del mondo; e questo, secondo me, è un diritto fondamentale dell’uomo: il privilegio di sentirsi bene.

D. Di fronte a questa potenza emergente della Cina, i Paesi occidentali per continuare ad emergere economicamente e politicamente avranno interesse di far riprodurre il fenomeno, verificatosi nell’Unione sovietica, di frammentazione in una serie di Stati e di etnie diverse. Non ritiene reale questa prospettiva?
R. L’India è molto più vicina all’Europa di quanto sembri; vi si parlano 15 lingue ufficiali, ma è anche una vera democrazia. Ha una comunità musulmana più grande dell’Indonesia, 800 milioni di indù, più 50 milioni di cristiani, più zoroti, ebrei ecc.: un panorama estremamente variegato e complesso dal punto di vista sociale. E registra anche delle tensioni. Ma un Paese fondamentalmente indù come cultura, ha un presidente musulmano, e la maggior parte della popolazione neanche lo sa; il primo ministro è un sik, quindi rappresenta una minoranza; il capo del partito del Congresso è un cattolico italiano, la signora Sonia Gandhi; l’uomo più ricco è un musulmano. In quale altro Paese del mondo si ritrova una situazione del genere? Il numero uno e le prime tre persone più importanti non appartengono alla religione della maggioranza. È come eleggere un ebreo presidente degli Stati Uniti. Quando fu eletto John F. Kennedy, scoppiarono contestazioni perché era cattolico. In India la situazione è più complessa, ma attraverso la democrazia essa è riuscita a fronteggiare il problema della diversità.

Tags: Cina India anno 2006

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