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Giustizia. La cassazione suona l’allarme sull’impunità fiscale e delle banche

di ANTONIO MARINI

Il primo gennaio scorso è stata depositata la sentenza con la quale la Corte di Cassazione il 19 settembre del 2012 aveva confermato il dissequestro di 245 milioni di euro nei confronti di Unicredit, nell’ambito dell’inchiesta conclusasi con il rinvio a giudizio dell’amministratore delegato e di altre 19 persone, 16 manager di Unicredit e 3 del gruppo bancario Barclays, con l’accusa di frode fiscale. La banca ha poi patteggiato con il Fisco versando 260 milioni circa di euro per chiudere tutte le pendenze con l’Agenzia delle Entrate.
La Suprema Corte ha respinto il ricorso del Procuratore della Repubblica di Milano contro la decisione con la quale il Tribunale del riesame, il 22 novembre 2012, aveva annullato, su ricorso presentato dalla difesa di Unicredit, il decreto di sequestro preventivo della suddetta somma, emesso dal Giudice delle indagini preliminari presso quel Tribunale, quale profitto del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, previsto dall’articolo 3 del decreto legislativo del 10 marzo 2000 n. 74. Reato commesso con tre articolate operazioni finanziarie, tra cui la cosiddetta operazione Brontos.
Attraverso tali operazioni venne compiuta, tra il 2007 e il 2008, una fraudolenta dissimulazione degli interessi passivi, ottenuti per effetto di un contratto di finanziamento interbancario, trasfigurati quale dividendi da investimento in strumenti partecipativi di capitali - titoli in lire turche - emessi da società lussemburghesi appartenenti al gruppo bancario Barclays. In quanto tali essi erano sottoposti a tassazione per il 5 per cento del loro ammontare lordo, con esclusione della restante parte dell’utile, pari al 95 per cento, dal computo del reddito imponibile, con conseguente risparmio di imposta su tale ammontare, in riferimento agli esercizi 2007 e 2008.
Nella sentenza si rileva, innanzitutto, che è principio ormai pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, quello secondo cui la confisca «per equivalente», prevista dalla legge finanziaria del 2008, ha natura «eminentemente sanzionatoria», per cui la stessa non può essere applicata ai fatti precedenti l’entrata in vigore della legge stessa. L’infelice formulazione del comma 143 dell’articolo 1 della legge 244 del 2008, che richiama genericamente l’articolo 322 del Codice penale, ha aperto un dibattito in dottrina, relativo all’ampiezza di tale richiamo: se cioè lo stesso debba considerarsi compiuto in riferimento al primo comma, ovvero all’intera disposizione.
Il più recente orientamento della Suprema Corte è ormai attestato nel senso di ritenere possibile che la confisca per equivalente nei reati tributari operi in riferimento sia al prezzo che al profitto del reato. Al riguardo vale la pena di ricordare che la giurisprudenza di legittimità aveva inizialmente ritenuto possibile che il sequestro preventivo in relazione a reati tributari potesse attingere anche i beni riferibili a una persona giuridica, non solo quando l’entità giuridica fosse stata creata strumentalmente per farvi rifluire i profitti degli illeciti fiscali, dando luogo al fenomeno delle cosiddette società schermo, ma in ogni altro caso.
Successivamente, nonostante qualche voce di segno contrario, la Corte aveva affermato il diverso principio secondo cui il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente, previsto dall’articolo 19 del decreto legislativo n. 231 del 2001, nei confronti delle persone giuridiche, non può essere disposto sui beni di qualsiasi natura appartenenti alla persona giuridica ove si proceda per le violazioni finanziarie commesse dal legale rappresentante della società, sulla base della legge del 2007.
Questo perché gli articoli 24 e seguenti del citato decreto legislativo non prevedono i reati fiscali tra le fattispecie in grado di giustificare l’adozione del provvedimento, salva sempre l’ipotesi in cui la struttura aziendale costituisca un apparato fittizio, usato dal reo per commettere gli illeciti: in tal caso, infatti, il reato non risulta commesso nell’interesse o a vantaggio di una persona giuridica, ma a diretto vantaggio del reo attraverso lo schermo della società.
Nella sentenza viene evidenziato, inoltre, il problema aperto dalla più attenta dottrina, relativo alla difficoltà di delineare una nozione di profitto negli illeciti penali tributari omologa a quella che scaturisce dalla disposizione di cui all’articolo 322 ter del Codice penale, richiamata a fondamento della confiscabilità «per equivalente» dal già menzionato comma 143 della legge finanziaria del 2008. Alcuni autori ritengono che nessuna delle nozioni in cui si articola il nostro sistema penalistico - prezzo, prodotto, profitto - sia in grado di descrivere in maniera puntuale il vantaggio economico conseguente all’evasione fiscale.
Quanto alla giurisprudenza di legittimità, essa ha già avuto modo di rilevare che il profitto confiscabile, anche nella forma «per equivalente», nel caso di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, è costituito da qualsiasi vantaggio patrimoniale direttamente conseguito alla consumazione dell’illecito, e può quindi consistere anche in un risparmio di spesa, come quello derivante dal mancato pagamento degli interessi e delle sanzioni dovute in seguito all’accertamento del debito tributario.
Peraltro, nella sentenza si precisa che gli illeciti penali tributari non figurano nel novero dei reati-presupposto che, commessi da soggetti apicali o subordinati della persona giuridica, nell’interesse e a vantaggio della stessa, danno luogo a responsabilità dell’ente da reato in base al citato decreto legislativo, circostanza che consentirebbe di ricorrere allo strumento della confisca «per equivalente» per l’ammontare del prezzo o del profitto del reato sul patrimonio dell’ente medesimo, strumento previsto dall’articolo 19 dello stesso decreto. Né in nessun altra fonte di legislazione primaria è prevista tale responsabilità della persona giuridica, come invece espressamente stabilito, in relazione ai reati a carattere transnazionale, dall’articolo 10 della legge n. 146 del 2006. Tale legge prevede a sua volta un’ipotesi speciale di confisca, con riferimento ai reati transnazionali, disponendo che il giudice, quando non sia possibile la confisca delle cose che costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo del reato, possa ordinare la confisca «per equivalente» di somme di denaro, beni od altre utilità di cui il reo abbia la disponibilità, anche per interposta persona fisica o giuridica, per un valore corrispondente a detto prodotto, profitto o prezzo.
Né una responsabilità degli enti per i reati tributari può essere fatta derivare, attraverso un’interpretazione estensiva in violazione dell’articolo 25 della Costituzione, da quella assegnata dalle persone giuridiche nel diritto tributario. Al riguardo, si rileva in sentenza che il sistema del diritto penale tributario deve essere letto e interpretato nell’ambito del complessivo sistema del diritto penale, e non può essere ritenuto un mero apparato sanzionatorio di disposizioni tributarie, avente vita a se stante ed avulso dal generale sistema punitivo, quasi una sorta di sistema speciale. Non risulta percorribile, infatti, se non a costo di insormontabili dubbi di legittimità costituzionale, la tesi che tale sistema troverebbe, nella legge del 2007, la conferma della propria autosufficienza e autonomia dal resto delle disposizioni legislative in materia penale, in particolare avendo a riferimento la previsione della responsabilità da reato degli enti.
Tra l’altro si specifica nella stessa sentenza che l’interesse protetto dalle disposizioni penali tributarie non si identifica semplicemente, e soprattutto non si esaurisce, con la tutela della pretesa tributaria, ma include la veridicità delle dichiarazioni dei redditi e delle altre dichiarazioni fiscali, unendo con particolare rigore quelle modalità fraudolente di dissimulazione del patrimonio o degli utili, ed anche di simulazione di costi, volte ad eludere l’adempimento degli obblighi tributari gravanti sui contribuenti in forza della legge e, ancor prima, del precetto costituzionale, connotandosi come vulnus agli interessi finanziari dello Stato e, per quanto concerne l’Iva, anche a quelli dell’Unione Europea.
D’altra parte non può neppure essere ritenuto idoneo, per un’efficace tutela nei confronti delle frodi fiscali poste in essere nell’interesse e a vantaggio della persona giuridica, il sistema sanzionatorio amministrativo in materia tributaria quale delineato dal disposto dell’articolo 11 del decreto legislativo n. 472 del 1997. In base a questo, nei casi in cui la violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo, sia stata commessa dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore, anche di fatto, di società, associazioni o enti, con o senza personalità giuridica, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata.
La mancanza di una previsione che consenta di poter ritenere la persona giuridica responsabile per gli illeciti penali tributari posti in essere nel suo interesse ed a suo vantaggio non può essere ritenuta mera conseguenza di una scelta discrezionale del legislatore. Il quale, peraltro, ha finito per differenziare, niente affatto ragionevolmente, le fattispecie, anche sotto il profilo dell’aggressione ai patrimoni illeciti, a seconda della natura transnazionale o meno di un reato, con la conseguenza che per quelle indagini su reati tributari compiuti nell’ambito di fenomeni associativi a carattere transnazionale sarà possibile ravvisare la responsabilità della persona giuridica ed operare la confisca «per equivalente» dei beni della società coinvolta.
Un analogo intervento non sarà, invece, possibile nei confronti di una società che, magari di fronte a un ammontare maggiore di imposte evase, non si connoti per la natura transnazionale del reato. Di fronte a ciò nella sentenza si stigmatizza come l’attuale sistema punitivo, e soprattutto quello volto al recupero dei proventi del reato attraverso la confisca di valore, nella materia dei reati tributari, sia inefficace ed evidenzia una disparità di trattamento in relazione alla previsione della confisca non solo tra le persone fisiche e le persone giuridiche, ma tra le stesse persone giuridiche, a seconda che esse rappresentino un’emanazione meramente strumentale delle persone fisiche che hanno commesso il reato, ossia un comodo e artificioso schermo al cui riparo agire indisturbati, ovvero siano persone giuridiche di una certa dimensione, rispetto alle quali il contributo delle persone fisiche non può mutarne a tal punto la natura, sicché per quest’ultime può ben parlarsi di «impunità fiscale» rispetto alle prime.
Insomma, ad avviso della Corte le attuali norme in tema di confisca per i reati tributari societari violano il principio di uguaglianza e parità di trattamento, perché danno un vantaggio di impunità alle grandi compagini societarie, risultando nello stesso tempo inadeguate a sottrarre a banche e a società i frutti dell’evasione fiscale. Nel caso di specie, ove è fuori discussione la piena autonomia della struttura societaria di Unicredit, non v’è dubbio secondo la Corte, che sussistono gravi indizi a carico degli imputati, alcuni dei quali in rappresentanza della banca hanno posto in essere la complessa trama fraudolenta in danno dell’Erario, a vantaggio e nell’interesse delle società bancarie poi confluite nell’Unicredit.
E tuttavia essa, pur non risultando affatto estranea ai reati tributari, non può essere chiamata, secondo la normativa vigente, a rispondere per tali reati, in quanto, come detto, nessuna norma prevede espressamente tale responsabilità. Di conseguenza la società Unicredit e i suoi beni non possono essere destinatari di provvedimenti cautelari di sequestro preventivo, finalizzato alla confisca del profitto dei reati tributari pur commessi a suo vantaggio.

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