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SUPERARE IL TABÙ DEL LICENZIAMENTO PER GARANTIRE L'OCCUPAZIONE

di ENRICO SANTORO
Professore, avvocato

Uscire fuori dal labirinto che sta impedendo agli italiani di trovare lavoro: è certamente questo il «problema-principe» del nostro Paese, che proprio nel lavoro pone il suo fondamento costituzionale; invece, più passano gli anni e più questo vede assottigliarsi le condizioni necessarie a ritrovare dinamismo, progettualità, occupazione; mentre, come in un videogioco, spuntano a destra e a manca sempre nuovi ostacoli, da rimuovere quanto prima per poter sperare di proseguire e vincere la partita.
Il quadro attuale è davvero desolante. Il tasso di disoccupazione in Italia è pari all’8,6 per cento secondo l’ultima rilevazione Istat disponibile, risalente a novembre 2011; ma questo dato di sintesi - peraltro in crescita - va opportunamente sezionato. Solo così si scopre che il tasso di occupazione si aggira attorno al 57 per cento rispetto a una media europea del 64 per cento e a punte vicine al 70 per cento in Germania. I senza lavoro sono 2,1 milioni, e gli occupati in meno - anno su anno - sono 670 mila, senza contare che su 100 disoccupati ce ne sono oltre 52 che hanno perso il lavoro da oltre un anno.
Per non parlare dei giovani o delle donne. Qui il dente duole davvero. Peggio di noi in Europa stanno solo Grecia, Irlanda e Spagna. Un giovane su tre è senza lavoro e nel Sud lo sono 40 donne su 100. Il tasso di occupazione giovanile in Italia è del 19,6 per cento rispetto a una media europea del 33,5 (secondo rilevazioni Eurostat) ricavata da livelli di occupazione giovanile anche pari al 63,4 per cento in Olanda, al 47,2 per cento in Germania, al 30,2 per cento in Francia. Insomma dietro di noi c’è solo la Grecia con il 16,4 per cento. E non abbiamo ancora considerato il fattore precariato.
Qui il discorso certamente si complica. L’incertezza sta bloccando il futuro di molti giovani, occupati sì, ma cui le banche non concedono mutui per comprare casa. È proprio su questo punto che però bisogna ragionare con molta attenzione. Poiché il «filo d’Arianna» per uscire dal labirinto è qui, in una riforma del lavoro che sappia coniugare intelligentemente la flessibilità in entrata ed in uscita con le prospettive di ripresa. Creando prospettive occupazionali diverse da quelle conosciute fino ad oggi, ma non per questo meno valide.
Ci sono molte ricette per trasformare gli ingredienti di partenza (un 70 per cento di rapporti di lavoro a termine per gli under 34; un 49 per cento di giovani con contratto a termine rispetto una media europea del 42 per cento; un 24 per cento di ragazzi che non vanno più a scuola né cercano lavoro) in una soluzione «commestibile». La migliore sembra proprio quella proposta dal neonato Governo Monti che ha per base una filosofia ampiamente condivisibile, quella di tutelare la persona piuttosto che il posto in sé e per sé. Con tutte le sfaccettature del caso.
In Europa il posto fisso non è la regola. Dal 2003 al 2010 i lavoratori a scadenza sono passati da 63 a 124 milioni. L’Italia si colloca in posizione mediana come numero di lavori precari. Ma ci sono Paesi come Germania, Francia, Spagna, Svezia che ne hanno di più e Paesi come Romania, Regno Unito, Bulgaria che ne hanno di meno. La differenza quindi non è nella prosperità delle singole economie ma piuttosto nella bontà delle norme che accompagnano la precarietà. In Italia mancano e il disagio è più sentito.
Si tratta perciò di superare il tabù del licenziamento introducendo un modello di contratto unico capace di garantire l’occupazione dell’individuo, a prescindere dalla sorte dell’azienda in cui egli presta la propria opera: se questa chiude, il lavoratore può avere un indennizzo, spostarsi altrove, accettando di riconvertirsi, cambiando magari città e casa, se occorre, in ogni caso senza perdere la retribuzione. E soprattutto senza entrare in quel comprensibile stato di depressione, di caduta dell’autostima, che spesso si lega alla perdita totale del lavoro.
Se davvero si riuscisse a realizzare questa novità, la difesa dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori - che a onor del vero sta diventando un’ossessione esagerata, sia da parte degli abolizionisti che dei conservatori - diventerebbe una battaglia di retroguardia. Perché, anche se non è vero che sono stati i mercati a chiederla, anche se è una norma di tutela del lavoratore, rappresenta pur sempre un istituto che appare in stridente contrasto con la dinamica del mercato del lavoro attuale, fatta di grande mobilità.
L’equità dell’impostazione governativa in materia, ben rappresentata dal ministro del Lavoro Elsa Fornero, si ritrova anche sull’altro fronte, quello delle tutele dell’impresa, che non debbono essere di peso per la società. La cassa integrazione ad esempio, se fruita per periodi pluriennali, diventa una droga sia per l’imprenditore, che si adagia sullo status quo, sia per il lavoratore che prende soldi senza produrre, alimentando nel contempo il mercato del lavoro nero poiché per tener occupato il proprio tempo fa lavori non fatturabili.
Altrove hanno avuto il coraggio di abolire istituti obsoleti, basti pensare alla Spagna dove esisteva una norma che rendeva un prepensionamento fino a 5 anni più conveniente della permanenza al lavoro, con il risultato che tutti andavano via prima del tempo aggravando il bilancio pubblico. Non si capisce perché da noi non debba essere riscoperto dalle parti sociali - attenzione, non a spese di una sola parte - il gusto d introdurre meccanismi legislativi al passo con i tempi e forieri di migliori potenzialità occupazionali.
Si tratta oltretutto di difendere - abolendo questi istituti appartenenti ad un’epoca finita - anche chi il lavoro non ce l’ha. Creando un sistema in cui i disoccupati, se hanno sussidi decenti e voglia di ricominciare, possono rimettersi in gioco. Gli investimenti anche esteri, con un mercato del lavoro dinamico possono tornare E l’art. 18 che tutela solo 9 milioni di lavoratori già ipergarantiti mentre tutti gli altri già ne fanno a meno, essere aggiornato da norme che rendano la permanenza al lavoro - non in un singolo posto - davvero ininterrotta.
Il tema lavoro ha però tante altre sfaccettature. Si è polemizzato in questi giorni sulle battute di Monti, Fornero, Cancellieri, Martone, che sono tutte analizzabili con sguardo diverso, come il mezzo bicchiere: odiose oppure di sprone. È vero infatti che la monotonia del posto di cui parla Monti vorrebbero averla in molti, ma è anche vero che avere un lavoro a tempo indeterminato, magari adattandosi a svolgerlo in più di una realtà aziendale può effettivamente risultare meno noioso, e offrire esperienze variegate nell’arco della vita lavorativa.
E se è vero che bisogna fare un salto di qualità culturale come sostiene il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri e non volere il posto vicino a mamma e papà, è anche vero che molti giovani italiani in gamba, a migliaia, vanno già all’estero per cercare, e quasi sempre trovare, quel lavoro e quell’apprezzamento che il loro Paese natìo nega loro; e che ogni anno, stando ai dati Svimez, 60 mila giovani laureati si spostano da Sud a Nord per cercare occupazione. Occorre dunque stare attenti a non trasformare le esortazioni in inutili provocazioni.
Non bisogna neanche dire ai nostri giovani che, se a 28 anni non sono ancora laureati, sono sfortunati, almeno non prima di aver creato a chi cerca oppure offre lavoro seri strumenti per favorire l’incontro delle rispettive esigenze; introducendo le norme indispensabili a rendere efficace questo mercato, cominciando con una formazione d’avanguardia, partendo dalla scuola, e con un orientamento coerente con le esigenze effettive della società rispetto ai singoli mestieri, onde favorire un assorbimento adeguato delle professionalità formate.
In questo senso vale la pena di assegnare, alle imprese che assumono i giovani, incentivi, detrazioni fiscali, maggiori servizi. Utile è anche la nuova impostazione dell’esperienza dell’apprendistato, così come il tentativo di collegare gli studi compiuti dal giovane e le esigenze delle imprese con formule meno aleatorie degli stage o dei vari tipi di contratto precario. Ma occorre anche monitorare le proposte formative - chiudendo se occorre le centinaia di università e di pseudo master - affinché i giovani non si illudano.
Oggi il mercato chiede qualifiche diverse. Secondo uno studio di Unioncamere, con interviste a ben 100 mila aziende, per gli under 30 la laurea è indispensabile solo nel 14,8 per cento dei casi; nel 48,4 per cento basta il diploma per essere assunti, nel 17 per cento la qualifica professionale, nel 23,8 per cento nulla. Si cercano operai, commessi, parrucchieri, segretari; si scartano chimici e ingegneri, che hanno studiato senza analisi dei trend del mercato del lavoro. I giovani dovranno essere disponibili ad aggiornarsi sempre. Anche per cambiare professione se occorre.
Bisogna ben spiegare loro non solo a parole ma con incentivi, proposte, comunicazioni efficaci, che i settori tradizionali - manifatturiero, finanziario, agricolo, commerciale - in tutta Europa sono ormai diventati incapaci di creare nuova occupazione. E che al loro posto si fanno largo gli ambiti della salute, dell’istruzione, del benessere, dei servizi alle persone. E che in tali ambiti si aprono delle opportunità che possono essere colte anche attraverso un’idea imprenditoriale.
Fondamentale in questo quadro diventa non soltanto spiegare che il posto fisso appartiene ad un’altra epoca - anche perché bastano i dati a confermarlo: oggi 70 nuovi posti su 100 sono precari - ma anche pensare a nuove soluzioni, come allungare il periodo di prova o prevedere che nei primi 3 anni a salario ridotto si possa espellere il neolavoratore che non si inserisce nella produzione senza problemi. Abolendo l’attuale «far west» per i precari, o le dimissioni «in bianco» per le donne, senza togliere alle imprese spazi per organizzare la loro squadra.
Altro imperativo è usare i risparmi ottenuti con la riforma pensionistica per il sostegno del reddito - che annualmente costa 18 miliardi di euro - introdurre un contratto prevalente a tutele progressive per togliere di mezzo i ben 34 contratti atipici, che producono incertezza e allontanano la stabilizzazione, trasformare gli ammortizzatori sociali che hanno un costo notevole - 914 milioni di ore di cassa integrazione nel 2009, 1,2 miliardi nel 2010, 953 milioni nel 2011 - in mezzi di una politica attiva del lavoro.
E ancora introdurre: formazione permanente, che impegni sia la buona volontà del lavoratore e del giovane ma costringa anche l’azienda ad investire in ricerca e qualificazione dei dipendenti; flessibilità, che sia costosa non solo per il lavoratore ma anche per l’azienda incapace di programmare il proprio sviluppo e quindi di quantificare la forza lavoro di cui ha bisogno; revisione degli ammortizzatori sociali in una logica di sviluppo, introducendo nuove formule condivise; coinvolgere le Regioni per le specificità territoriali.
Ma oltre alla creatività su orari, stipendi, welfare aziendale, bisogna tornare soprattutto a rendere semplice ed economico creare una nuova impresa. Quando un imprenditore costruirebbe una fabbrica capace di offrire 300 nuovi posti ma aspetta i permessi da 4 anni, c’è qualcosa da cambiare subito. Non è solo questione di domanda in calo, di esuberi, di mancanza di commesse: la burocrazia italiana - spesso aiutata dalla criminalità economica - riesce a bloccare letteralmente la creazione di lavoro, l’iniziativa.
Se ne può uscire però. Ad esempio sfruttando bene i fondi strutturali europei - 28 miliardi di euro oggi spesi appena al 53 per cento -, peggio di noi fa solo l’Ungheria con il 60 per cento - per creare lavoro. O insegnando ai giovani - di ambedue i sessi, per evitare a monte le disparità - ad avere fiducia in sé, ad imparare a creare lavoro con strumenti e incentivi fiscali ad hoc, a sfruttare le potenzialità offerte da internet e dalla tecnologia, che oggi sono esponenziali e differenziano la nostra crisi da quella del ‘29. Insomma si può fare molto. Tutt’è volerlo. Il Governo la propria parte sembra conoscerla.

Tags: lavoro datori di lavoro occupazione laureati disoccupazione Ministero del Lavoro lavoratori Enrico Santoro aprile 2012

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