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CHE COSA SI INTENDE PER MODELLO DI DIFESA?

Luigi Francesco De Leverano

del gen. D. Luigi Francesco De Leverano, capo Ufficio generale del capo di Stato Maggiore della Difesa

In collaborazione con lo Stato Maggiore della Difesa

Districarsi nel dedalo dei termini tecnici con i quali il mondo militare comunica è sempre un’impresa ardua. Spesso l’opinione pubblica se ne disinteressa perché crede che dietro di essi si celino chissà quali marchingegni, sotterfugi o stratagemmi. Per fare chiarezza occorrerebbe elaborare un glossario che riesca a definire almeno quelli più significativi. Proviamo, a partire da questo numero di Specchio Economico, a fornire ai lettori alcune interpretazioni.
Negli ultimi mesi è sulla bocca di tutti il termine «modello di Difesa» o, meglio, l’opinione pubblica più informata è a conoscenza che «si sta studiando il nuovo modello di Difesa». Ebbene, in ambito Difesa, il termine «modello» non serve tanto a fornire una costruzione teorica esprimibile con numeri definitivi quanto, piuttosto, ad individuare un conveniente schema di riferimento, anche numerico ma non solo, attorno al quale, come all’interno di un contenitore, dovranno trovare utile collocazione tutte le categorie (capacità e assetti) dello «strumento militare», unitamente a un rinnovato adattamento del livello di ambizione nazionale, vale a dire del ruolo che il Paese intende interpretare in ambito internazionale per la pace e la sicurezza.
Per quanto attiene, invece, alle scienze dell’organizzazione, il modello consiste in un insieme di tecnologie, struttura, prodotti, obiettivi e personale specifici che possono essere accettati o respinti dall’ambiente. Ogni nuova organizzazione cerca di trovare una nicchia, ossia un ambito d’azione caratterizzato da risorse e necessità ambientali caratteristiche, che sia sufficiente a supportarla. La nicchia è solitamente di piccole dimensioni nelle prime fasi di vita di un’organizzazione, ma può aumentare di dimensioni con il tempo se l’azienda ha successo. Se non è disponibile nessuna nicchia per l’organizzazione, questa subirà un inevitabile declino e finirà per scomparire.
Pertanto, ragionando in termini induttivi, quello preso in esame è un modello cosiddetto «per fini». Le organizzazioni con pluralità di fini hanno le loro difficoltà peculiari, che derivano in parte proprio da quelle stesse caratteristiche che, a parità di altre condizioni, rendono organizzazioni di questo tipo più efficaci di quelle a fine unico. L’uso del modello basato «sui fini» non è l’unico modo di valutare i risultati ottenuti da un’organizzazione.
Piuttosto che mettere questa a confronto con un modello ideale cui essa dovrebbe assomigliare, possiamo misurarne le prestazioni semplicemente confrontandola con altre organizzazioni. Ad esempio, il modello basato sui sistemi o cosiddetto «modello sistematico». Tale modello è formato da proposizioni sulle relazioni che debbono esistere tra i vari fattori perché un’organizzazione possa essere attiva. Quindi, l’organizzazione deve risolvere anche altri problemi, oltre quelli direttamente connessi alla realizzazione del fine, e il dedicare a questi ultimi un’attenzione eccessiva può rivelarsi oltremodo dannoso per le altre attività dirette alla realizzazione del fine.
Tornando invece al modello attuale usato in ambito Difesa, disegnato dalla legge n. 331/2000 e attuato dai discendenti provvedimenti normativi, esclusivamente su base professionale, non può sottacersi che non era stato concepito come scelta prefissata, bensì come tappa finale di un processo incontrovertibile dettato dalla somma di una serie di fattori socio-economici - di seguito evidenziati - che, già dalla fine degli anni Novanta, non era più possibile ignorare e che fu, sin da subito, saldamente correlato al numero degli uomini presenti in tutte le categorie dello strumento (cosiddetto modello a 190 mila uomini):
- la crescente disaffezione verso il servizio militare obbligatorio, considerato come una grande limitazione della libertà individuale e di dubbia utilità, unita a un limitato consenso sociale e alla generale opposizione all’impiego di giovani di leva al di fuori del territorio nazionale (pur se col tempo si è dimostrata non del tutto esatta, soprattutto tenuto conto del consenso che, negli ultimi anni, i progetti tipo «Vivi le Forze Armate. Militare per tre settimane» hanno registrato fra i giovani);
- la restrizione delle disponibilità qualitative e quantitative di giovani, per effetto del notevole calo demografico e dell’incremento contestuale e silente del fenomeno dell’obiezione di coscienza, che aveva peraltro agito da «catalizzatore sociale» per l’apertura del mondo militare al servizio femminile;
- le limitatissime possibilità d’impiego dei coscritti per effetto della riduzione della ferma di leva a dieci mesi, in termini di rapporto costo/efficacia, evidenziava l’inutilità di impiegare il coscritto in una lunga ferma istruttiva che avrebbe avuto scarso riscontro in quella operativa, originando in tal modo crescenti diseconomie di scala;
- l’assunzione, da parte dell’Italia, di un ruolo di peso in seno alle organizzazioni internazionali con precise responsabilità nel mantenimento della pace e della sicurezza nel mondo e la conseguente necessità di disporre di Forze Armate funzionali, flessibili e capaci di collaborare proficuamente e, quindi, di essere interoperabili con quelle dei principali partners Nato e Unione Europea.
È interessante evidenziare che, esclusivamente in relazione al personale, il modello professionale individuato, dalle innovative peculiarità selettive per i giovani volontari, contemplava, de facto, il passaggio obbligato di un anno nei ranghi dell’Esercito, della Marina e dell’Aeronautica; il cosiddetto «patentino», prima di accedere, con percentuali progressive e ben definite, nelle carriere iniziali delle Forze di Polizia o nelle Forze Armate in maniera definitiva, ovvero in servizio permanente.
Tale innovazione nel delicato settore del reclutamento mirava essenzialmente ad aumentare la qualità del tasso di selettività dei candidati, reclutando inizialmente tutti gli aspiranti così da beneficiare anche dei migliori. Pertanto, nel citato modello di difesa, sempre in relazione al delicato e predominante aspetto del personale, venivano così a crearsi nuove figure professionali:
- volontario in ferma prefissata annuale (VFP1), impiegabile in attività operative anche all’estero in missioni cosiddette «di bassa intensità», base su cui poggia tutta la piramide del personale di truppa;
- volontario in ferma prefissata quadriennale (VFP4), ovunque impiegabile, naturale bacino da cui attingere per reclutare i volontari in servizio permanente (VSP) e «link» per l’equiordinazione economico-giuridica di comparto;
- volontario in servizio permanente, che permane in servizio attivo fino al raggiungimento del limite di età e per il quale l’incentivo è costituito dalla progressione di carriera, assicurata attraverso l’alimentazione, in via esclusiva, del ruolo sergenti e il riconoscimento, in relazione al titolo di studio posseduto, di specifiche riserve di posti per l’accesso ai ruoli dei marescialli o degli ufficiali;
- l’ufficiale in ferma prefissata - una volta detto di complemento, retaggio della coscrizione obbligatoria - nonché ulteriori figure e possibilità correlate allo svolgimento del proprio servizio in una rinnovata concezione delle «forze di completamento», vale a dire la cosiddetta «riserva selezionata».
Oggi il modello soffre di una profonda crisi endogena determinata da un lato, dall’elevato livello di impegno richiesto - con l’annessa struttura organizzativo/ordinativa all’uopo necessaria - e, dall’altro, dalle contenute risorse finanziarie rese disponibili dal Paese, vieppiù erose dai sensibili tagli al bilancio della Difesa, in particolare, alle risorse destinate al processo di professionalizzazione, previsti dalle leggi finanziarie e dai provvedimenti di contenimento della spesa pubblica susseguitisi nel corso degli ultimi anni.
Sempre in merito alla «componente personale» del modello, è interessante notare che non ci si è inventati niente di nuovo, in quanto già dai tempi dell’impero romano si usava personale volontario per completare i ranghi dei coscritti. Infine, nell’asserire che si potrebbe essere tratti facilmente in inganno sul «modello» riferendosi solo al dimensionamento numerico in termini generali, è evidente che risulta più conveniente, e non solo in ambito Difesa, riferirsi a tale termine secondo i più moderni principi dell’organizzazione aziendale, cioè archetipo strutturale inteso come schema di riferimento connesso alle diverse categorie che lo compongono, fra cui il personale che, soprattutto nel settore della difesa e della sicurezza, rimane fattore principale di successo istituzionale.

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