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ENAC: TROPPI E CON TANTI SPRECHI OCCORRE UN PIANO STRATEGICO

Le ali di una cangiante farfalla sono in grado di librarsi nell’aria con volute preziose, in un minuetto fascinoso, eppure incapaci di sorreggere altro peso se non quello elegante dell’essere che le muove. Così, nel migliore dei casi, si presentano gli aeroporti italiani. Terminal aerei autoreferenziali, centri di traffico al servizio di interessi locali, collocati troppo spesso in territori la cui vocazione sociale ed economica appare del tutto insufficiente a garantirne lo sviluppo. Nati e prosperati per interessi campanilistici che poco o nulla hanno a che fare con un moderno sistema di trasporto aereo, tenuti in vita da un assistenzialismo di Stato mascherato, che si accolla gli ingenti costi di funzionamento, dal controllo del traffico aereo ai vigili del fuoco, dal garantire la sicurezza aerea con personale specializzato ai servizi di frontiera, solo per citare alcune aree di costo che metterebbero il piombo nelle ali non solo nei bilanci di decine di aeroporti dislocati in tutta la penisola.
Questa è l’Italia: il territorio policentrico dei mille Comuni, ognuno geloso custode delle proprie radici culturali o delle prerogative, disposto a contrastare il vicino in nome di un effimero primato, incapace di pensare in grande, di costruire insieme un sistema più efficiente e utile a tutti, meno costoso per la comunità, magari integrato con le altre reti. I vizi noti sono acuiti dalla politica nostrana che, lungi da proporsi come qualificata mediazione degli interessi, ha invece esasperato quel concetto di piccolo e bello di certo non adatto ai grandi volumi di traffico, alle realtà complesse come quella del trasporto aereo che, per natura e per vocazione, si esprime nel modo migliore nei grandi numeri, con un retroterra sociale e produttivo di grande capacità e ampiezza.
La grande assente nel nostro Paese è sempre stata la programmazione, ancor più quando si parla di reti fondamentali, quelle di trasporto in particolare. La politica della mobilità capace di costruire un sistema integrato di servizi per cittadini e imprese rappresenta l’araba fenice della nostra storia unitaria. Così sono sorti in Italia dal secondo dopoguerra oltre cento aeroporti per interesse delle comunità locali, delle associazioni d’impresa, per favorire il turismo o promuovere il territorio.
Non si è guardato al mercato, tantomeno alla sostenibilità economica o alla produttività degli investimenti, bensì al ritorno di immagine, ad effimeri posti di lavoro, ad interessi localistici della politica e delle imprese ancorate al territorio. Si è pensato, nei casi migliori, di compiere un apparente balzo in avanti che ha addossato al trasporto aereo il compito di supplire alla congenita arretratezza degli altri vettori, si pensi alle ferrovie, alle strade, alle autostrade e ai porti.
La politica locale ha voluto, in ogni modo, accaparrarsi investimenti pubblici per realizzare o ampliare gli scali. Non contenta, ha preteso di gestire le società favorendo la nascita di enti di gestione aeroportuale a totale o maggioritario capitale pubblico in mano a Comuni, Province e Regioni, chiamando a raccolta tutti gli interessi del territorio. Ciò ha garantito per altro, e continua a farlo, non solo in una miriade di scali medi o piccoli, la nomina di presidenti e consigli di amministrazione e tenuto saldamente i cordoni della borsa e i proventi ove realizzati a livello territoriale.
Si è così costruito un intreccio di interessi, attorno a questo o quell’aeroporto, che ha impedito sino ad oggi di mettere ordine nel trasporto aereo italiano dando vita ad un vero efficiente sistema nazionale. Ogni volta che si prova a mettere ordine, a tracciare un bilancio dei costi e dei benefici, ecco insorgere la rivolta dei Municipi, delle Province o delle Regioni. La difesa spasmodica di quello che si considera un bene proprio viene anteposta ad ogni altra valutazione, come se il trasporto aereo non fosse elemento strutturale di un servizio alla mobilità, ma una ricchezza intrinseca da tutelare e difendere da chi, a livello di governo nazionale, intenda perseguire una riorganizzazione strategica dei sistemi aeroportuali italiani.
L’Enac, Ente Nazionale Aviazione Civile, ha molto opportunamente commissionato di recente uno studio su 48 aeroporti nazionali a un consorzio specializzato composto da OneWorks, KPMG Advisory e Nomisma, per lo sviluppo futuro della rete aeroportuale italiana, con il compito di analizzare in dettaglio tutti gli elementi necessari per delineare un futuro intervento strategico di riassetto del comparto.
Prima di sintetizzare i risultati della ricerca, ci preme comprendere quanto la fragilità della rete aeroportuale italiana funzioni da freno allo sviluppo del traffico aeronautico. L’Italia ha visto negli anni scorsi sbriciolarsi la propria compagnia di bandiera.
L’Alitalia, gloriosa in tempi di monopolio, non ha saputo reggere la competizione scaturita dalla liberalizzazione dei cieli, sino a smarrire tutte le opportunità concesse dalla proprietà pubblica, con notevole dispendio di denaro e di energie. Una gestione sciagurata negli anni, spesso irresponsabile e piegata alle esigenze di più centri di potere, anche sindacale, soprattutto da parte dell’associazione dei piloti Anpac, naufragata per altro con il fallimento della compagnia, si è dispersa in modo oltremodo dannoso tra i due presunti hub di Fiumicino e Malpensa.
Una scelta stolida voluta da una politica miope che ha pensato fosse possibile immaginare un grande aeroporto per traffici intercontinentali a Malpensa, tra Varese e Milano, mantenendo aperto lo scalo di Linate amatissimo dai milanesi, per di più senza dotarlo di un sistema infrastrutturale integrato in grado di soddisfare le esigenze dei viaggiatori e del mercato. Tutto ciò ha condizionato per anni le azioni di mercato dell’Alitalia, obbligata dalla politica a tenere in piedi due grandi basi senza averne la capacità sia per la flotta, sia per qualità e dimensione dell’offerta di collegamenti, soprattutto dopo il fallimento della fusione con l’olandese KLM.
È la rappresentazione più plastica, in ambito trasporto aereo, di quanto negativo per i traffici e la sostenibilità economica possa essere il mantenimento di aeroporti entro un bacino geografico limitato, magari in concorrenza con altri scali vicini, meglio strutturati o in grado di esercitare una maggiore capacità attrattiva per i vettori internazionali. La necessità di dover contare su costanti flussi di traffico ha finito, negli ultimi anni, per giuocare un’altra carta negativa per diversi aeroporti: quella di offrire alle compagnie, prima di tutto low cost, prezzi e servizi di tutto favore pur di acquisirne i collegamenti.
La Ryanair, tanto per citare la più diffusa, ha ottenuto da numerosi scali italiani condizioni di dumping aeroportuale di grandissimo beneficio, mentre l’Alitalia nello stesso scalo doveva sopportare tariffe di riferimento ben più alte, garantite nel tempo e non rinegoziabili. Queste e molte altre distorsioni gravano ora sulla gran parte degli aeroporti italiani, rendendo assai difficile indirizzare gli investimenti là dove garantiscono remunerazioni e ricadute positive per l’economia a più ampio spettro.
Unita alla fragilità delle gestioni, la frammentazione compromette, in una delicatissima quanto negativa congiuntura economica internazionale, la qualità e l’efficacia dell’intero sistema del trasporto aereo italiano, così decisivo per esercitare un’attrazione e un ruolo propulsivo nel rilancio delle imprese italiane, come degli investimenti mondiali. Dobbiamo sottolineare, a questo proposito, quanto esigui essi siano stati sino ad oggi. La struttura pubblica dell’azionariato non è valsa a premiare una logica solidamente imprenditoriale, bensì la necessità conservativa di produrre utili, dove è stato possibile, da ripartire a beneficio degli enti locali azionisti.
I processi di privatizzazione messi in atto per i grandi aeroporti, si pensi alla società ADR che gestisce gli scali di Fiumicino e Ciampino, sono risultati ancor più perniciosi, almeno sotto il profilo degli investimenti. Una pagina ormai ben nota delle dismissioni «all’amatriciana» confezionate negli anni 90. Il monopolio naturale di un grande aeroporto intercontinentale, il primo in Italia per flusso di passeggeri come il Leonardo da Vinci di Fiumicino, e la relativa concessione quarantennale furono acquistati dalla cordata capeggiata allora da Cesare Romiti con l’accensione di un debito rilevante.
Per pagare il quale per anni si sono drenati buona parte dei ricavi di gestione dell’aeroporto, senza che gli investimenti programmati e più volte annunciati con grandi titoli dai giornali diventassero mai realtà. Da allora l’Adr è passata più volte di mano, oggi è in quelle solide del Gruppo Benetton, ma prima di mettere mano al portafogli per realizzare roboanti trasformazioni, illustrate con dovizia di particolari traguardando scenari al 2040, si attende sempre la determinazione di nuove tariffe, il rinnovo della concessione ed ogni sorta di adempimenti formali e sostanziali. Tradotto in soldoni, gli investimenti si realizzano solo dopo che cittadini e operatori commerciali cominciano a pagare. Un modo comodo e sicuro di fare impresa, lucrando sulla redditività di un monopolio naturale, senza che la componente del rischio cresca.
I risultati sono sotto i nostri occhi di viaggiatori, di operatori logistici, di industriali, di addetti al turismo o ai servizi. Gli aeroporti italiani più grandi e importanti sono arretrati rispetto agli standard internazionali, poco funzionali, ancor meno efficienti. Non li paragoniamo agli omologhi asiatici, fantastici centri di interscambio dotati dei più sofisticati e innovativi sistemi, architettonicamente pregevoli, ove qualità dei servizi e integrazione modale assicurano a tutti i viaggiatori elevati comfort e opportunità; ma neppure agli scali europei di Parigi, Londra, Francoforte, Monaco di Baviera, Amsterdam o Madrid, rinnovati costantemente, funzionali, ampliati secondo le esigenze del mercato.
Vediamo ora dove si è concentrata l’attenzione dello studio promosso dall’Enac per un indispensabile piano nazionale degli aeroporti. Sono stati presi in considerazione 48 scali italiani sottoponendoli all’analisi e alla verifica dei requisiti che rispondono ad elementi cardine attorno ai quali costruire un sistema integrato aeroportuale. Lo studio ha dapprima suddiviso gli scali secondo l’area geografica (nord-ovest, nord-est, centro, sud e isole) per definirne il bacino di utenza e i connessi fattori di sviluppo. È emersa una classificazione degli aeroporti su tre parametri: scali strategici, primari, complementari.
La prima configurazione individua quegli aeroporti definiti «strategici» perché rispondono efficacemente alla domanda di trasporto aereo e sono in grado di garantire nel futuro questo ruolo per capacità delle infrastrutture e possibilità di potenziamento, senza limitarsi a una stretta valutazione del traffico aereo attuale e di quello ipotizzato al 2030. Sono stati individuati in questa categoria Roma Fiumicino, Milano Malpensa, Milano Linate, Venezia, Bergamo, Bologna, Firenze, Pisa, Napoli Capodichino, Lamezia Terme, Bari, Palermo, Catania e Cagliari. Scali in grado di assicurare il ruolo di «Gate Intercontinentale» per l’ingresso in Italia in virtù del volume e del bacino di traffico, unitamente ai livelli di collegamenti internazionali e intercontinentali, al grado di accessibilità e di integrazione con le altre reti della mobilità.
Altri dieci aeroporti sono stati classificati dallo studio come «primari»: Torino, Verona, Treviso, Trieste, Genova, Viterbo (in futuro se si realizzerà il progetto), Brindisi, Alghero, Olbia e Trapani. Senza tener conto dei flussi di traffico, queste infrastrutture non raggiungono allo stato attuale i requisiti di scali strategici a causa di numerose limitazioni come i vincoli ambientali, l’inadeguata accessibilità, gli ostacoli allo sviluppo di nuove infrastrutture. Possono tuttavia contribuire a soddisfare la domanda di traffico aereo dei loro bacini di riferimento, nonché assicurare una sussidiarietà agli scali strategici.
Vengono, infine, definiti «complementari» i restanti 24 aeroporti di Aosta, Albenga, Ancona, Brescia, Bolzano, Comiso, Crotone, Cuneo, Foggia, Forlì, Grosseto, Lampedusa, Marina di Campo-Elba, Pantelleria, Parma, Perugia, Pescara, Reggio Calabria, Rimini, Roma Ciampino, Salerno, Siena, Taranto e Tortolì. Strutture che rispondono a una domanda di traffico per lo più locale con un bacino assai limitato, in zone remote o non adeguatamente servite da altri scali, ragione per la quale possono essere usati come elementi complementari della rete di trasporto aereo nazionale. Aeroporti che, stando allo studio, non hanno i requisiti come fattore di sviluppo, in grado per altri versi di assicurare nel lungo periodo il ruolo di riserve di quote di capacità per flussi aggiuntivi di traffico rispetto agli altri scali strategici che insistono nella stessa area geografica di riferimento.
Lungi dal proporre soluzioni efficaci come aprire nuovi aeroporti o chiuderne altri, lo studio spazia su una problematica generale capace di fornire agli investitori una prospettiva futura per creare un vero sistema nazionale degli aeroporti, o per suddividerli per area come una sorta di «federalismo demaniale» in modo che potrebbero eventualmente essere trasferiti a Comuni, Province, Regioni o Città metropolitane. Un elemento di fondamentale importanza in chiave di sviluppo di cui sentiremo parlare di sicuro nei prossimi anni.
Il ministro dello Sviluppo economico, delle Infrastrutture e dei Trasporti Corrado Passera è recentemente intervenuto sul tema, indicando la necessità di incidere sul taglio degli scali minori, per non disperdere i già scarsi finanziamenti pubblici e privati. Si prefigura finalmente la decisione di lasciare che questi aeroporti camminino solo sulle proprie gambe e facciano affidamento sulla esclusiva solidità della compagine azionarie e gestionale. Solo così potrà essere costruito un sistema aeroportuale italiano competitivo, capace di creare valore reale e ampliare i flussi di traffico e le ricadute economiche, contribuendo a un pieno sviluppo degli scali strategici per l’Italia.
Lo studio ritiene necessario ripetere su base triennale l’analisi tecnica per verificare gli eventuali mutamenti del mercato del trasporto aereo o le diverse condizioni sociali ed economiche e di integrazione modale con gli altri vettori, prima di tutto le ferrovie. Qualcosa, comunque, sembra muoversi in un panorama asfittico, per troppo tempo trascurato, nonostante il rilievo strategico che il trasporto aereo svolge nelle dinamiche geopolitiche e industriali contemporanee. Gli investimenti, autentica araba fenice, ora assumono nuova concretezza; la società ADR starebbe per mettere in campo circa un miliardo di euro per il periodo 2012-2016, cui se ne aggiungerebbero dopo meno di 2 miliardi per il quinquennio 2017-2021 sino a sfiorare per l’intero periodo i tre miliardi di euro, di fronte, è ovvio, a nuove tariffe, autorizzazioni al massiccio ampliamento dello scalo di Fiumicino, decollo di quello di Viterbo, rimodulata convenzione.
La SEA, società di gestione degli aeroporti milanesi, prevede in analogia interventi nei due scali di Linate e Malpensa nel periodo 2011-2015 per poco più di 690 milioni di euro, cui si aggiungeranno circa 820 milioni per il 2016-2020 giungendo a un totale di oltre un miliardo e mezzo di euro nel decennio. Volare più in alto per l’intero sistema è possibile, occorre affrontare i nodi strutturali, uscire da gestioni localistiche non sempre efficienti, fare rete e lasciar crescere gli operatori più qualificati e professionalizzati. Va letta in questa direzione la scelta degli azionisti pubblici della SEA di privatizzare una quota del pacchetto di controllo, aggiudicato, nel caso della società milanese, per il 29,75 per cento alla F2i di Vito Gamberale, una compagine pubblica che già controlla il 70 per cento della Gesac di Napoli che gestisce lo scalo partenopeo. Segnali positivi di un riassetto orientato al mercato che costituisce la premessa per un intervento sistematico di rilancio e sviluppo integrato dall’aeroportualità italiana.
Molti altri nodi restano, tuttavia, da sciogliere. Lo dimostrano le difficoltà di scali come quello del Catullo di Verona e di Brescia Montichiari, o di Genova, solo per citare i casi più noti. Il trasporto aereo in Italia soffre di autoreferenzialità e scarsa integrazione modale, come tutti i sistemi della mobilità. Ignora quali potenzialità possano raggiungersi coniugando in rete le specificità di ognuno. Si spiega solo così come un aeroporto intercontinentale di primario fascino, come il Leonardo da Vinci di Fiumicino, non disponga nel 2012 di un collegamento diretto con l’alta velocità e che i Frecciarossa siano un miraggio distante per i viaggiatori che arrivano da ogni parte del mondo. Analogo discorso vale per Malpensa la cui collocazione decentrata l’ha di fatto reso marginale nella scacchiera dei collegamenti internazionali, nonostante l’impegno e la buona volontà di aprire nuove rotte del presidente leghista Giuseppe Bonomi.
Occorre porre un’attenzione indispensabile alla rete dei trasporti, perché senza integrazione sarà sempre più difficile attirare flussi di traffico e risorse economiche in grado di generare valore aggiunto. Possiamo pensare di mantenere, ad esempio, solo nell’area padana, senza specializzarne la vocazione e i traffici una decina di aeroporti che distano tra loro meno di cento chilometri - Genova, Torino, Malpensa, Linate, Bergamo, Brescia, Verona, Treviso, Venezia, Trieste e Bologna -, quando esiste una linea ferroviaria ad alta velocità che oggi tocca Bologna, Milano e Torino, e che giustamente è progettata per raggiungere Genova su un versante e Venezia e Trieste sull’altro?
Che dire poi delle pressioni politiche per realizzare uno scalo a Grazzanise vicino Caserta, quando quello di Napoli richiederebbe interventi urgenti? Altro caso eclatante, a nostro modesto giudizio, è quello di Viterbo, ove si pensa di far sorgere il terzo aeroporto di Roma quando, per renderlo agibile con facilità, sarebbero necessari investimenti infrastrutturali, stradali e ferroviari, superiori ai due miliardi di euro, mentre si trascura la realizzazione di una nuova pista a Fiumicino, per vincoli ambientali o indennizzi di aree pregiate, trascurando un’ottimale valorizzazione dello scalo e un suo raccordo con le reti metropolitane e ferroviarie del territorio e della regione?
La nostra risposta è chiara: si tratta di un’inutile dispersione di risorse incapace di generare vera crescita economica e sociale. Il trasporto aereo non può essere, almeno in aree ad alta antropizzazione, un succedaneo delle carenze infrastrutturali della mobilità e del trasporto terrestre. Possiede caratteristiche proprie che vanno opportunamente sviluppate in una rete di traffici internazionali e intercontinentali che sempre più saranno cruciali per le sorti geo-politiche del Paese.
Le carenze strutturali degli aeroporti italiani si coniugano, d’altro canto, con quelli delle compagnie. Le vicende complesse e non concluse dell’Alitalia proiettano ombre e rendono evidenti le fragilità. È appena stato collocato al vertice della compagnia un nuovo amministratore delegato, dopo l’uscita di Rocco Sabelli che ne ha retto le sorti con ruvida efficacia nel momento più difficile della sua storia, sfiorando il pareggio di bilancio e avviando un’integrazione con due piccole compagnie italiane - come Blu Panorama e Wind Jet -, i cui contorni sono tutti da definire, con dei risvolti e una posizione strategico di mercato, che richiede impegno e una notevole dose di coraggio e propositività. Questo è un tema, in tutta evidenza, di grande attualità per il trasporto aereo italiano. Lo affronteremo a breve con l’umiltà e l’energia che contraddistingue, da sempre, il nostro editore e l’autorevolezza della testata.

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