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UNIVERSITÀ ULTIMA SPIAGGIA. «CERVELLI» ITALIANI ALL'ESTERO ACCETTATI SOLO IN BASE A FORMAZIONE E PREPARAZIONE

di LUCIO GHIA

L’università in Italia è davvero all’ultima spiaggia? I giovani che fuggono all’estero, gli studenti che, purtroppo per noi, sono i migliori, sono coloro che si mettono in discussione, affrontano sacrifici per imparare un’altra lingua, per confrontarsi con culture, con metodi di studio, con orizzonti formativi ed occupazionali diversi. Sono proprio coloro che accettano la sfida e che ce la farebbero anche in Italia; sono risorse che noi abbiamo, il nostro capitale intellettuale all’estero, e che, se cambiano le condizioni, possono rientrare.
Su circa 18 mila dottori di ricerca, 1.300 si sono spostati all’estero, secondo lo studio dell’Istat sulla mobilità dei dottori di ricerca nel biennio 2009-2010, ovvero il 7 per cento circa del totale; di questi lo 0,6 per cento risiedeva già all’estero. Come si vede la percentuale non è particolarmente elevata, mentre va registrato un timido ma significativo fenomeno di segno contrario. L’Italia, malgrado tutto, riesce anche ad attrarre «cervelli» e professionalità straniere.
È il caso di alcuni medici; un nome per tutti quello del prof. Elia Stupka, che ha lasciato il prestigioso University College di Londra per continuare le proprie ricerche nel San Raffaele di Milano, incurante del periodo difficile che l’Istituto stava attraversando. Ma questi casi, rispetto alla quantità di giovani che operano fuori dall’Italia, costituiscono una minoranza non significativa. Va perciò registrato con favore il progetto che il ministro degli Affari esteri, l’ambasciatore Giulio Terzi di Sant’Agata, ha affidato a Gioacchino La Vecchia, amministratore delegato della Crowd Engineering che si occupa di organizzare risorse umane condivise attraverso reti telematiche mondiali. Si tratta di realizzare una particolare organizzazione scientifica per i cervelli italiani itineranti all’estero. L’idea è affascinante e merita tutto l’appoggio possibile.
Così come va salutata con entusiasmo la circolare 14/E del 4 maggio 2012 dell’Agenzia delle Entrate che chiarisce il «pacchetto di norme» relativo alle agevolazioni fiscali dedicate al rientro in Italia dei cittadini dall’Unione Europea. Di fronte al dato più generale che le statistiche evidenziano senz’altro c’è da interrogarsi più a fondo: «È davvero figlia della globalizzazione questa scelta?». È la risultante del declino del nostro Paese acceleratosi in questi ultimi anni? O la cornice dalla quale questo fenomeno, in realtà antico, necessita di approfondimenti e di una messa a fuoco diversi?
Un fatto è certo: all’estero tutti ci invidiano la cultura dell’arte e della bellezza, la qualità della vita, l’eleganza, la generosità e la cordialità che sappiamo esprimere meglio di altri popoli. Per non parlare della cucina, dei cibi italiani, dei vini che rendono unico e illuminano con le opere d’arte l’intero Paese. Talvolta a questi apprezzamenti si aggiunge un sorriso di sufficienza, o apertamente ironico, per il periodo che il nostro Paese sta attraversando, per la sua immagine politica e per l’insufficiente affidabilità del Sistema Italia. Infatti, gli aspetti che riguardano i rapporti di lavoro, la «filosofia» che caratterizza talune condotte negli «affari» di alcuni italiani, con le dovute eccezioni, Sergio Marchionne in testa, determina suggestioni negative, sull’onda di ritardi, inadempienze e scorrettezze.
Certamente la «furbizia italica» è il difetto che, più di altri, appanna la nostra immagine. È l’eccessiva disinvoltura di taluni concittadini, sono le scorciatoie, il mordi e fuggi, la sicurezza di farla franca, che completano il quadro negativo. In realtà in molte culture l’affidabilità, il buon nome, la reputazione intesa come percezione di un contraente corretto, rappresentano l’investimento più sicuro, più stabile, che raccoglie i propri frutti nel tempo e per generazioni.
Ricordo, a riguardo, un episodio che avvenne più di trent’anni fa, quando da giovane avvocato muovevo i primi passi nel campo internazionale. Fui invitato a cena dal mio corrispondente americano, che aveva un figlio più o meno dell’età di mia figlia, circa dieci anni all’epoca. Quando, con mia moglie e mia figlia, giunsi a destinazione, una bella casa nel New Jersey a mezz’ora di auto da Manhattan, percepimmo subito un’atmosfera pesante, quasi luttuosa, tanto che non riuscii a trattenere la domanda: «Ma è successo qualcosa»? Con grande imbarazzo il padrone di casa mi disse: «Proprio oggi siamo stati chiamati a scuola di nostro figlio perché durante un compito era stato sorpreso a copiare». Sorrisi pensando alle prassi scolastiche italiane: copiare non mi sembrava, nelle Elementari, un comportamento così scorretto e grave. Il nostro ospite ci spiegò che per la scuola e per la formazione del bambino questa era una grave mancanza che investiva la responsabilità di tutta la famiglia, tenuta ad assicurare un’educazione corretta, rivolta appunto a modelli di lealtà, di etica, di comportamenti virtuosi che andavano inculcati proprio a quell’età. E così il piccolo era stato punito; chiuso nella sua stanza e non avrebbe cenato insieme a noi. Mia figlia, pertanto, si dovette accontentare di un puzzle.
Io e mia moglie ci interrogammo su tale severità, pur consapevoli che la formazione della lealtà sociale e dell’affidabilità reciproca passa per strade educative di questo tipo, da noi in verità non molto praticate. In realtà dalla scuola italiana, e più ancora dalle nostre famiglie, dovremmo attenderci, oggi che «i muri sono crollati» e che facciamo tutti parte del villaggio globale, un forte investimento etico in questa direzione. Ma per tornare al problema della fuga dei cervelli, certo il fenomeno risponde a una logica facilmente comprensibile. I giovani in gamba, che possono dare buoni risultati, riescono, non certo senza sacrifici, a collocarsi all’estero, perché ricevono maggiori soddisfazioni, non solo economiche. Anche mia figlia, Emanuela, oggi affermata biologa che ormai da 6 anni lavora nell’università La Jolla di San Diego, grande centro di ricerche dove si occupa di leucemie, mi ha confermato le essenziali differenze esistenti rispetto ad ambienti omologhi italiani, spiegandomi perché nel loro istituto tutti coloro che partecipano alla ricerca sono fortemente motivati, vogliono e, in un certo senso, sono costretti a dare il meglio.
C’è il contributo di tutti coloro che partecipano alla ricerca. Chi deve fornire i reagenti non fa la cortesia di concederli, magari dopo mesi; chi collabora ad una ricerca è fortemente motivato nel dare il suo contributo al risultato finale, ogni giorno consolida il proprio futuro lavorativo. Ciascuno, infatti, viene considerato per quello che vale, per l’impegno che mette quotidianamente nella propria attività, per gli obiettivi che raggiunge.
Non vi sono rendite di posizione, dal professore all’ultimo componente dell’equipe, in una competizione che deve produrre i risultati voluti. Tutta la struttura, infatti, ruota intorno ai cosiddetti «grants», cioè ai finanziamenti privati che sostengono la ricerca. Le singole industrie alle quali è collegata l’università, investendo nel settore medico-sanitario, attendono di poter produrre poi nuovi medicinali, nuove possibilità di cura, nuovi brevetti per le medicine del futuro. È chiaro che questo mondo libero da contributi, sussidi, finanziamenti, normalmente privo di raccordi con il potere politico, non vive di tangenti, e raccomandazioni, e si muove secondo la logica del risultato, secondo modelli che sono molto lontani dalla nostra realtà.
Il professore, direttore di questo centro, riesamina e completa con partecipazione gli scritti scientifici dei propri collaboratori, perché accrescano la fama dell’istituto, ma sono gli autori ad avere diritto al cosiddetto «primo nome», sono coloro che firmano per primi l’articolo, la monografia, lo studio. Gli altri, poiché il lavoro di squadra ha una grande importanza nella ricerca, vengono nominati successivamente in ragione del contributo che ognuno di loro ha dato allo studio. Alla fine c’è anche il nome del capo dell’equipe, del professore, perché quella ricerca o quello studio costituisce un valore raggiunto con l’impegno di tutta la squadra. Non bisogna fare i conti, quindi, con il parente del professore, con le mogli o le amiche, e quindi il nome dell’autore della ricerca non diventa l’ultimo della fila, ovvero un «altro» nome.
Corollario, in questo contesto, è che l’autore della ricerca è invitato ai convegni internazionali in prima persona, presenta direttamente i propri risultati con le soddisfazioni, le responsabilità, la maturazione e la pubblicità che ne conseguono. Ebbene questo è senz’altro un modello virtuoso al quale anche l’Università italiana e le imprese devono ispirarsi e verso il quale devono aprirsi. I potentati di famiglia e le baronie universitarie devono cedere il passo all’efficienza, alla qualità della formazione, alla specializzazione e alla capacità di fornire risultati concreti. Per quanto mi riguarda, come professore straordinario di Diritto del Commercio internazionale nell’Università Guglielmo Marconi di Roma da molti anni, devo aggiungere anche che l’università italiana riesce ancora a formare in modo egregio chi abbia voglia di studiare e di approfondire. Infatti la cultura che fornisce, il metodo di ragionamento, la capacità di apprendere le nozioni necessarie, tutto ciò permette poi a questi giovani di misurarsi con il mondo. Oggi per essere accettati in questi luoghi di lavoro all’estero, ambiti da tutti, ci si confronta con cinesi, indiani, europei e americani; se si riesce a prevalere, ad essere accettati, ciò avviene sulla base della qualità della propria formazione e preparazione.
Di ciò va dato merito alla «parte buona» della nostra università. Ma è anche vero che per molti, per coloro che escono dall’università «brandendo» il risultato dei loro modesti studi, in particolare la cosiddetta laurea breve - secondo me un vero disastro -, la preparazione universitaria e la sua ricaduta in termini di formazione e di capacità di entrare utilmente nel mondo del lavoro e delle professioni si rivelano deludenti e inadeguati. Vedo, per restare nel mio ambiente di avvocato, giovani praticanti che non solo non hanno neppure una vaga idea di cosa sia un atto di citazione, ma che non sanno confezionare neppure una lettera, che non sanno compiere una ricerca di giurisprudenza, redigere l’indice dei documenti di un fascicolo, per non parlare dell’ordine per materie della biblioteca dello studio. In realtà sono completamente da «costruire» come professionisti, dall’abbigliamento spesso imbarazzante alla partecipazione a una riunione collegiale, a un incontro con il cliente, manifestando un’assoluta inadeguatezza, ingiustificatamente negativa, anche per lo studio legale che li ospita.
Ricordo giovani che durante le riunioni guardavano nel vuoto, non sapevano prendere appunti né stendere la minuta di un incontro basata sull’identificazione dei partecipanti e sulla sintesi di quanto affermato da ciascuno. La realtà lavorativa, oggi così convulsa, evidenzia che le imprese, i professionisti e anche gli studi legali hanno sempre meno tempo per fare «formazione». La cultura dell’«accompagnamento», della protezione, dell’assistenza sul luogo del lavoro è ormai un retaggio che, se mai sia stato premiante, non può essere più coltivato. La concorrenza schiaccia le necessità formative (spesso solo apparenti). È evidente che nell’odierno mondo del lavoro bisogna porsi in discussione quotidianamente, apprendendo continuamente, cercando di acquisire la maggiore conoscenza professionale possibile per risultare efficienti e risolutori. La volontà di riuscire, la passione che non teme il sacrificio, costituiscono la differenza. Ecco perché i migliori vanno via, proprio perché spesso si vedono superati con manovre scorrette, con procedure che non premiano la qualità ma, appunto, la famiglia, le relazioni, la politica, il malaffare, l’approssimazione, la furbizia se non peggio.
Incominciamo a far valere il valore delle nostre radici migliori, essenziali e attraenti per chi lavora all’estero, creando i circuiti necessari per una sana competizione, per un effettivo processo di modernizzazione, in ambienti di lavoro resi più asettici dalla capacità di accettare e rispettare le regole della corretta formazione e del merito, per determinare un’inversione di tendenza che, partendo dalla scuola, riesca ad irradiarsi in una classe dirigente meno furba, più preparata, meno concentrata nel proprio interesse e più attenta a realizzare ciò che gli altri, il mondo, attendono da noi.
Qualità nel lavoro, merito nelle professioni, capacità di competere a testa alta difendendo la nostra immagine e il nostro modello, che esprima il nostro talento e che tenga conto della nostra storia migliore, che sappia dare risposte e fornire prodotti unici, proprio perché coerenti con le nostre radici più autentiche. È questo il futuro che auguro ai nostri giovani e che è nelle mani di tutti noi. I «cervelli» da un Paese che rispetti questi canoni di sviluppo non fuggiranno più.

Tags: Lucio Ghia università cervello giugno 2012

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