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INNAFFIARE LE IMPRESE PER TORNARE A CRESCERE

La via d’uscita dalla crisi esiste. Eccome. Il problema è crederci. Anche se non è di facile soluzione, dato il quadro economico generale e il delicato momento politico e sociale attraversato dal nostro Paese. È come se ci trovassimo tutti in un impegnativo percorso di trekking, complicato da mutazioni della morfologia del terreno. Alcune delle quali, per quanto prevedibili, si sono manifestate con contorni difficilmente gestibili nell’immediato. Rendendo l’equipaggiamento inadeguato. Costringendoci a inventare soluzioni per procedere.
Ebbene, di sentieri da imboccare per superare l’impasse ve ne sono più d’uno. Tanto che provare ad individuarli in modo metodico può essere esercizio davvero virtuoso in questo momento di sbandamento collettivo. Si tratta di ritrovare quella strada carraia interrotta dalla frana, che poi condurrà alla mèta; la strada della crescita, percorsa oggi da escursionisti di Paesi emergenti, brasiliani, indiani, su cui ancor prima della frana noi avevamo incespicato, anche tra i cespugli della proliferazione normativa, e a volte c’eravamo addirittura seduti.
Adesso dobbiamo guardare la carta topografica: i dati. Occorre inquadrare bene la situazione per non compiere passi falsi. E qui non si può nascondere il grado di difficoltà. Progressivamente ci siamo avvicinati a un precipizio. Questo 2011 che si sta chiudendo non verrà purtroppo ricordato nella storia del nostro Paese soltanto come l’anno delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità, ma anche come quello del rischio di collasso che ci ha investiti insieme a tutto l’Occidente industrializzato.
I dati dell’Ice ad esempio forniscono sufficienti elementi di preoccupazione: nel 2010 il saldo della bilancia commerciale ha toccato il record di 29,3 miliardi, il peggior risultato dal 1985 in termini reali, ossia tenendo conto che allora esisteva ancora la lira. Da che dipende? Certo, possono incidere fattori come la bolletta energetica, o l’intervenuta impossibilità di usare l’arma impropria della svalutazione della moneta per recuperare terreno sul fronte dell’export. Ma il nodo è molto più ampio e ingarbugliato.
La scarsa competitività internazionale del Sistema Paese e delle imprese manifatturiere ha altre origini, come purtroppo certifica anche il recente Rapporto annuale sulla competitività stilato dall’Unione Europea. Vi si legge ad esempio che le imprese minori italiane pagano l’elettricità più cara delle concorrenti europee, salvo a Malta e a Cipro, ma anche che l’80 per cento delle imprese tedesche innova rispetto al 55 per cento delle italiane e che il tasso di agevolazione normativa delle attività in media è 3,5 contro il 2,5 del nostro sistema.
In Europa c’è un gruppo di Paesi all’avanguardia, tra cui figurano Germania, Francia, Belgio e Finlandia; un gruppo di serie B, tra cui siamo anche noi, accompagnati da Grecia e Portogallo; poi vengono i Paesi dell’Est in recupero come la Polonia; e infine le nazioni baltiche e la Romania. Ma per produttività l’Italia è solo 13esima dopo Irlanda, Olanda, Grecia, Spagna. Dovrebbe, consiglia il Rapporto, far crescere di dimensione le società, puntare su ricerca e innovazione ecologica, impostare snellimenti gestionali e nelle procedure.
Esiste un fondo di 40 miliardi di euro destinato alle imprese, che lo Stato italiano annualmente versa loro. In momenti difficili come questo sarebbe giusto riepilogare nel dettaglio il modo in cui vengono distribuiti. Questo è un altro sentiero da percorrere, poiché sprecare queste somme in futuro può essere un suicidio economico, politico, sociale. Oggi invece accade che esperti siano appositamente pagati per riuscire a garantire fondi pubblici ad imprese che in realtà non li meriterebbero. Ma passiamo oltre.
Proseguendo con le giaculatorie riguardanti i nostri ritardi - che sono certamente noiose ma fanno parte del rito espiatorio dei peccati commessi finora - arriviamo agli studi di Unione Europea, Ocse, Confindustria, il cui Centro studi segnala che il nostro livello di pressione fiscale è destinato in breve a raggiungere il dato record del 44,1 per cento. La disoccupazione, dice il Rapporto Ocse, è in Italia del 27,9 rispetto al 17,3 per cento della media dei Paesi più sviluppati ma soprattutto va notato che il 46,7 per cento dei giovani che lavorano ha un impiego temporaneo.
Il «problema principe» del lavoro va però ulteriormente analizzato. I dati rivelano che gli italiani, pur lavorando più della media Ocse - come gli americani e più dei giapponesi - guadagnano meno. Le donne hanno un tasso di occupazione fermo al 46,3 per cento mentre la Banca d’Italia sostiene che, se si rispettasse l’obiettivo di occupazione femminile previsto dal Trattato di Lisbona, il prodotto interno lordo potrebbe aumentare del 7 per cento. Complessivamente ci stiamo impoverendo tutti e il reddito pro capite è tornato ai livelli del 1999.
Ciò vuol dire che bisogna cambiare rapidamente qualcosa nelle norme che regolano il lavoro, sia sul piano delle norme d’ingresso e di uscita che su quello della tassazione dell’attività lavorativa. È inutile nasconderlo: attualmente non sono contenti né i lavoratori né le imprese che, per sopravvivere, si vedono costrette a porre in atto processi di delocalizzazione. Questi ultimi, per quanto coerenti con la logica della globalizzazione, se attuati «in difesa» sono destinati a favorire una marginalizzazione complessiva del nostro sistema economico.
Il peggioramento del contesto economico, assieme alle prospettive di incertezza dell’economia, si è accompagnato a un deterioramento del clima di fiducia. L’indice riguardante le imprese ha perso 4,1 punti a settembre, riducendosi ancora dal 94,5 al 94 di ottobre, con un deterioramento più intenso della fase seguita al fallimento della Lehman Brothers. Un’analisi dell’ufficio studi della Banca Nazionale del Lavoro mostra che l’indice dei consumatori è sceso a 92,9, avvicinandosi al minimo registrato durante la recessione del 2008, anche per le persistenti difficoltà del mercato del lavoro.
Dunque percorrere il sentiero della legislazione intelligente in materia di lavoro si può e si deve. Perché il lavoro è alla base del patto di coesione nazionale. Ma soprattutto perché è un fattore senza cui è impensabile ritrovare l’energia necessaria a riprendere il cammino verso la strada della crescita. Perché crea fiducia nel futuro, mentre oggi l’indice di diffusione dello scetticismo è al livello record del 62 per cento. Se gli italiani non ci credono per primi, non si può pensare che riescano a superare da soli il momento difficile, come ha detto Mario Draghi, oggi governatore della Banca Centrale Europea.
Una legislazione intelligente su lavoro è quella che premia competenza, merito, coraggio. Il clima di corruzione che traluce dalle cronache non favorisce la convinzione che oggi in Italia questo sia un sentiero percorribile. Ma occorre uno scatto d’orgoglio: non è più possibile accettare passivamente che i nostri migliori cervelli debbano abbandonare l’Italia per evitare di essere sopraffatti da logiche clientelari nella ricerca del lavoro e di spazi imprenditoriali. Perché in Italia gli ostacoli, anche solo burocratici, al «fare impresa» sono così elevati?
Il tema è così scottante che perfino il Premio Strega di letteratura - vinto quest’anno da Edoardo Nesi con «Storia della mia gente» - l’ha consacrato alla riflessione della gente e non solo degli addetti ai lavori. Si potrà essere in disaccordo sulle ricette. Ma più o meno è ormai di pubblico dominio l’idea che le nostre imprese minori siano state letteralmente costrette a saltare nel cielo della sfida produttiva globalizzata senza paracadute normativi, senza strategie di sistema, senza strumenti di competitività.
E non parliamo solo delle imprese proiettate nei mercati di oltre confine, ma soprattutto di quelle italiane che potrebbero attirare capitali stranieri. Il riferimento va alle imprese meccaniche emiliane che da sole coprono un quinto dell’export nazionale del settore. Ma anche a quelle del terziario avanzato, tutto da valorizzare. Per ambedue, tanto per fare un esempio, è mancata una scuola pubblica capace di insegnare le lingue, almeno l’inglese se non, con un minimo di lungimiranza, il cinese o il portoghese.
Una ricerca della Fondazione Nordest che ha riguardato 800 imprese di marketing, comunicazione, consulenza fiscale e amministrativa, servizi legali e notarili, rivela che solo il 2,6 per cento di queste imprese ha una proiezione internazionale. Ossia negli ultimi tre anni hanno dimostrato di sapersi difendere anche in presenza di marcati marosi economici, aumentando nel 27,7 per cento dei casi il fatturato e tenendo le posizioni nel 36,7, ma solo grazie alla buona reputazione fra la clientela locale, provinciale.
Si registra un deficit di prospettiva: la globalizzazione dei mercati richiederebbe una strategia di lungo respiro, con alleanze e crescita dimensionale, con investimenti tecnologici e in professionalità capaci quantomeno di accompagnare, se non di stimolare, le imprese clienti a compiere un salto di qualità nei mercati internazionali. Ma come è possibile chiedere a queste imprese di evolversi se a livello centrale manca la capacità di orchestrare l’evoluzione con opportuni incentivi e adeguate proposte formative?
Per non parlare dello scandalo rappresentato dall’assurda incapacità nazionale di valorizzare il settore turistico. Possediamo oltre il 60 per cento del patrimonio artistico mondiale e lo lasciamo andare in disfacimento. Dal 2003 a Pompei si sono verificati oltre 18 crolli ma non si riescono a dirottare fondi verso la salvaguardia del patrimonio ambientale e culturale. Per fortuna, ancora esistono imprenditori illuminati che, consapevoli di un proporzionato ritorno d’immagine, stanziano di tasca propria soldi per restaurare monumenti di valore universale.
Politiche per rilanciare il turismo, per rendere competitiva l’ospitalità alberghiera, per trasformare le città in supermarket della cultura vanno pensate e adottate con urgenza. Così come una pianificazione nazionale per il riassetto dei siti più importanti sotto il profilo turistico che sia degna di questo nome, affidata ad esperti di tutti i colori e a tecnici vogliosi di lavorare e non di arricchirsi. Il disastro delle Cinque Terre non ha lesionato solo il territorio ma anche la nostra immagine all’estero, più delle cronache giudiziarie.
Merita attenzione, anche se con la dovuta prudenza, la neonata Assemblea nazionale dei movimenti per la terra e il paesaggio, che, al grido di «Salviamo il paesaggio; difendiamo i territori», punta a responsabilizzare le comunità locali, a raccogliere contributi ed energie per attirare l’attenzione delle istituzioni su problemi che riguardano tutti e che finora sembrano essere stati dimenticati. Una gestione più consapevole del territorio è un impegno che tutti noi dobbiamo assumere per rispetto a quanti, figli e nipoti, ci seguiranno.
La crescita, al di là della manovra, è una questione di cultura. Di cultura d’impresa, prima di tutto, perché per crescere occorre investire in capitale umano, tecnologia e marketing. E questo non è possibile a piccole imprese incapaci di allearsi, fondersi, sviluppare le proprie dimensioni fino a raggiungere un quoziente competitivo. Ma se crescono, gli imprenditori escono dalla fascia protetta che, in base all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, consente loro di ridimensionare all’occorrenza la forza lavoro.
Così in Italia restano piccoli costruttori, piccoli alberghi, piccole strutture commerciali e artigianali, che non creano occupazione stabile e regolarizzata, che non contribuiscono al bene comune perché spesso e volentieri indugiano nell’evasione fiscale. Un’evasione fiscale così diffusa che è stato ipotizzato arrechi più danni al gettito di quanto non facciano i grandi evasori o i grandi elusori. Ed è l’intero Sistema-Paese a risentire in modo letale di questo atteggiamento culturalmente retrogrado sotto il profilo economico.
C’è infine una cultura della cittadinanza da recuperare e rilanciare. Un’etica del lavoro e dell’osservanza delle regole che ormai è stata smarrita. Una mancanza che da sola produce danni gravissimi con ferite difficilmente rimarginabili sul piano della speranza di riscatto. Di questa crisi di cultura molta responsabilità hanno i tradizionali agenti educativi, la scuola e la famiglia, che hanno smarrito i valori necessari a rintuzzare gli stimoli negativi prodotti dai mutamenti sociologici: lealtà, solidarietà, senso collettivo nel rispetto delle persone.
Per tornare sulla strada della crescita occorre certamente un recupero di produttività. Ma per questo ci vuole il giusto equipaggiamento di volontà. La situazione è drammatica. L’Italia dovrà salvarsi da sola? Al di là delle manovre, ammonisce il «past governor» della Banca d’Italia, c’è un altro sentiero da percorrere, che può portarci fuori dal guado: un salto di qualità culturale, complessivo, generalizzato, per il quale dobbiamo allenarci quotidianamente adottando comportamenti diversi, migliori di quelli del passato.

Tags: dicembre 2011 Enrico Santoro

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