TORNA LA FAVOLA DEL DEBITO PUBBLICO E DELLE PRIVATIZZAZIONI (E I REALI D’INGHILTERRA)
A quale dei tre aspiranti andrà il Casinò di Venezia? Tutti e tre operano da tempo nel settore del gioco e non hanno problemi per i 600 milioni di euro che Giorgio Orsoni, attuale sindaco della città e gestore formale della storica casa da gioco sulla laguna, prevede di incassare cedendola. I tre aspiranti sono: l’americana Caesars Entertainment che a Las Vegas ha il Flamingo e il Caesars Palace, oltre ad una catena di hotel di Atlantic City, un gruppo nato dall’unione con l’Harrah’s, fuori dalla Borsa ma in mano ai fondi privati Apollo e Tpg, il più grande complesso di case da gioco del valore di 31 miliardi di dollari; la francese Dominique Desseigne Barrière, titolare di 40 case da gioco tra Francia e Svizzera, collegata con la Société Fermière du Casino di Cannes; e una cordata di imprenditori russi che comprende il gruppo alberghiero Kempinski e che sulla laguna vanta la presenza di Yuri Korablin, patron dell’Unione Venezia Calcio.
Il dossier dell’operazione è stato affidato all’avvocato Alberto Saravalle dello Studio Bonelli Erede Pappalardo; il consulente per gli aspetti finanziari, da affiancare al Comune proprietario del 100 per 100 della casa da gioco, potrebbe essere individuato tra Bnp Paribas, Banca Imi e Goldman Sachs. Quando, il 19 maggio 2010, il veneziano Sandro Parenzo si è dimesso da presidente del Casinò dopo solo pochi mesi di carica, sono emersi i problemi della casa da gioco del Lido: «Per rilanciare il Casinò–ha spiegato allora Parenzo, abile ed esperto produttore cinematografico e televisivo–, bisogna ricostituire il capitale sociale e investire almeno 20 milioni di euro; se il Comune vuole solo continuare a mungerlo oltre le sue possibilità, non sono io il presidente adatto».
Era già certa la riduzione per il corrente anno a 70 e forse a 60 milioni di euro, dai 93,5 milioni fissati nel 2010 in base alla convenzione firmata nel 2007 con il Comune - in quanto l’autorizzazione ministeriale all’esercizio della casa da gioco è intestata all’amministrazione comunale -, riduzione dovuta alla crisi e alla minore attrattiva del Casinò veneziano rispetto a Cannes e a Montecarlo, aggravata dalla crescente concorrenza delle scommesse on line. In 4 anni, infatti, gli incassi sono calati da 211 a 168 milioni mentre il patrimonio consolidato è precipitato a un passivo di 2,4 milioni dopo le perdite di 30,4 milioni del 2009 e di 28 milioni del 2010, e con un incasso per il 2011 che è difficile da prevedere.
Sul futuro Parenzo è stato ugualmente esplicito: «Sento inviti alla possibile privatizzazione del Casinò ma vorrei capire quale privato entrerebbe con una quota di minoranza in una società che ha oltre 140 milioni di debiti e che deve versare ogni anno al proprio azionista una quota di incassi maggiore di quella che può permettersi». E ha avuto parole chiare per i dipendenti: «Devono capire che così non è più possibile andare avanti, che la partecipazione agli utili deve riguardare l’andamento aziendale e non le mance, e che la mobilità interna non può essere rifiutata perché non prevista dal contratto; in questo anche l’azionista del Casinò deve mostrare un polso diverso». Per la cessione ai privati la più accreditata appare la Caesars Entertainment, che con 8,8 miliardi di dollari di ricavi è ritenuta la più quotata tra le società attive nel gioco d’azzardo.
Sta forse per nascere, nel riserbo assoluto, un nuovo partito estraneo alle diatribe del mondo politico, con il proposito di cedere ai privati quanto è rimasto in mani pubbliche delle grandi imprese italiane, motivando l’operazione con la necessità di rimpinguare le finanze pubbliche immiserite dalla crisi e di sostenere la crescita dell’economia? Motivazione non credibile se venissero ricordate le società dello storico patrimonio pubblico gestito all’Iri, ceduto senza alcun beneficio né per la collettività né per le casse statali.
La prima nuova apparizione pubblica del neo-partito della privatizzazione è del 2009, quando il presidente della Confindustria Emma Marcegaglia ricevette nella sede di Viale dell’Astronomia il principe Carlo d’Inghilterra, ancora formalmente ritenuto l’erede al trono britannico. Non era la prima volta che rappresentanti della monarchia inglese, uomini di banca e di finanza e imprenditori del suo Paese incontravano i personaggi più in vista del mondo finanziario italiano, con il pretesto di una visita al Quirinale, al Vaticano, a Montecitorio, al Colosseo. Carlo d’Inghilterra fece la prima tappa a Venezia per un vertice sul recupero edilizio della città organizzato dal Consolato britannico con l’UK Trade & Investment; nella visita romana all’associazione degli imprenditori il principe era accompagnato da rappresentanti di aziende britanniche impegnate, almeno formalmente, nella sostenibilità ambientale attraverso il Corporate Leaders Group on Climate Change.
È palese l’interessamento dei reali britannici alla grande industria italiana, mostrato anche con l’incarico formale al principe Andrea, fratello di Carlo, di curare a livello internazionale le relazioni economico-commerciali di più alto livello con il titolo di UK Special Representative for International Trade and Investment. In passato l’incontro più importante, che non molti oggi ricordano, fu la crociera del Britannia, lo yacht reale attraccato il 2 giugno 1992 nel porto di Civitavecchia per imbarcare banchieri e grandi imprenditori italiani invitati a un incontro sul tema specifico delle privatizzazioni di imprese pubbliche italiane.
Oggi il Britannia è un museo galleggiante e il suo attuale proprietario, William Clarke, è scomparso dopo una carriera giornalistica e imprenditoriale caratterizzata dalla creazione del British Invisibles Export Council, un comitato con il compito di promuovere nel mondo l’attività di banche, assicurazioni, società di servizi e trading company britanniche. Fu Clarke a indurre la Regina a consentire l’imbarco sul proprio panfilo per un paio di giorni di imprenditori italiani e banchieri inglesi per favorirne l’incontro e promuovere gli affari della City. Sull’inconsueta crociera a bordo del Britannia circolarono anche retroscena fantasiosi, causati da un invito diffuso a nome della Regina Elisabetta ma firmato da un «Comitato British Invisibles» che aveva l’aria di una misteriosa organizzazione, ma nel mondo dell’economia «invisibles» è la denominazione corrente degli scambi di titoli finanziari, bancari o assicurativi senza passaggio di merci.
Del Britannia si scrisse poco sebbene fossero presenti un centinaio fra i più importanti imprenditori e manager pubblici italiani, alcuni politici, qualche accademico e tre giornalisti specializzati in temi economici. La crociera durò poche ore. Ad aprire i lavori fu Mario Draghi, allora direttore generale del Ministero del Tesoro retto da Guido Carli in un Governo quadripartito Dc, Psi, Psdi, Pli presieduto da Giulio Andreotti.
Terminata la presentazione delle imprese pubbliche privatizzabili il cui fior fiore era rappresentato a bordo del Britannia, Draghi tornò in porto con una lancia evitando l’incontro con i capi di banche d’affari britanniche - City Warburg, Barclay de Zoote, Coopers Lybrand, Baring e McKenna -, lasciando ad essi il compito di spiegare agli italiani i vantaggi di una campagna di privatizzazioni.
Tra i politici e uomini d’impresa italiani erano presenti Beniamino Andreatta, maestro e collaboratore di Romano Prodi e in quei giorni ai margini della politica, Mario Baldassarri allora accademico, il capo dell’Ina Lorenzo Pallesi, quelli di Agip e Snam Raffaele Santoro e Pio Pigorini, il vicepresidente dell’Iri Riccardo Gallo; i banchieri Giovanni Bazoli dell’Ambroveneta, Antonio Pedone del Crediop, Mario Arcari amministratore delegato della Comit; i direttori generali dell’Imi Rainer Masera, e della Consob Corrado Conti; il segretario generale dell’Antitrust Alberto Pera. C’era anche il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari, il più ambito dai banchieri inglesi, forse all’ultima partecipazione ad un evento pubblico prima del misterioso suicidio in carcere: con l’arresto a Milano di Mario Chiesa, aveva preso il via il drammatico biennio di «Mani Pulite», con arresti e incriminazioni di personaggi di spicco nella politica e nell’economia.
Il Governo Andreotti era caduto il 24 aprile del 1992, poco più di un mese prima dell’arrivo del Britannia. Il giorno successivo alla crisi governativa, Francesco Cossiga aveva annunciato in tv che il 28 aprile, tre giorni dopo, avrebbe lasciato la massima carica della Repubblica. Al 16esimo scrutinio il 25 maggio venne eletto al Quirinale il presidente della Camera Oscar Luigi Scalfaro. Alla doppia crisi del Quirinale e di Palazzo Chigi si era aggiunta l’asprezza di una campagna elettorale confusa e altamente competitiva, che registrò, allo spoglio, 1.288.650 schede bianche e 876.391 nulle. I maggiori partiti uscirono dalle urne ridimensionati in maniera vistosa. Anche la nuova legislatura avrebbe avuto vita breve, appena 23 mesi con due Governi, il primo guidato da Giuliano Amato per 299 giorni e il secondo da Carlo Azeglio Ciampi per 260 giorni.
A metà luglio 1992 il Governo Amato avviò lo scioglimento dell’Efim, Ente Partecipazioni e Finanziamento Industria Manifatturiera, creato nel 1962 per l’intervento pubblico a sostegno di un centinaio di società con migliaia di posti di lavoro. E alla fine dell’estate i grandi enti pubblici, a partire da Enel, Eni, Ina ed Iri furono trasformati in società per azioni: un passo necessario per attuarne la cessione al capitalismo privato. Alle soglie dell’autunno, il 13 settembre del 1992, la bufera monetaria internazionale provocò la svalutazione della lira del 7 per cento. Quattro giorni dopo il Consiglio dei ministri varò una manovra straordinaria da 93 mila miliardi di lire consistente in una «minimum tax» a carico di imprese minori e di lavoratori autonomi, in un’imposta «patrimoniale» per le grandi industrie e nell’uscita della lira dallo Sme, Sistema monetario europeo.
Alle turbolenze della moneta si aggiungevano quelle nel mondo politico. Mino Martinazzoli succedeva ad Arnaldo Forlani nella Segreteria democristiana, Claudio Martelli si dimetteva da ministro della Giustizia, sostituito da Giovanni Conso, e lasciava il Psi, seguito poco dopo dalle dimissioni dei numero uno Bettino Craxi e Renato Altissimo, rispettivamente dalle Segreterie del Psi e del Pli. Arresti e avvisi di garanzia erano annunciati e ingigantiti dal clamore continuo delle voci di corridoio. Il pool dei magistrati inquirenti milanesi era composto da Francesco Saverio Borrelli, Gerardo D’Ambrosio, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo, Francesco Grieco, ma su tutti spiccava il pubblico ministero Antonio Di Pietro che emetteva ordini di cattura per imprenditori e per uomini politici.
Il 22 aprile 1993 Amato si dimise e Scalfaro incaricò Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, di formare il Governo: il primo Governo «tecnico», non parlamentare, con 6 Dc, 3 Pds, 3 Psi, un verde, un socialdemocratico, un liberale e 9 tecnici. 12 ore dopo il giuramento, i ministri del Pds Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco, Augusto Barbera e il verde Francesco Rutelli si dimisero perché la Camera aveva rigettato 4 autorizzazioni a procedere nei confronti di Bettino Craxi per corruzione e ricettazione.
Nel Governo aumentò la presenza di tecnici. «Furono l’emergere degli scandali e la tempesta giudiziaria che decapitarono, oltre ai vecchi partiti, anche le principali aziende pubbliche, e aprirono la strada all’ondata di privatizzazioni. Ma ovviamente, e forse non solo per i complottisti, è più suggestivo pensare che sotto la coperta del Britannia manager ben visibili abbiano venduto agli inglesi ‘invisibili’ un pezzo d’Italia»: questo il commento di uno dei tre giornalisti invitati, Massimo Gaggi del Corriere della Sera.
Non erano necessarie privatizzazioni in un Paese che aveva vissuto positivamente nel 1962 la nazionalizzazione delle industrie elettriche, che il Psi aveva posto come condizione per entrare nel Governo Amintore Fanfani, arrecando effetti positivi sull’economia del Paese. «Oggi–scriveva Victor Ciuffa nel 1967 in un suo rapporto dedicato agli effetti provocati sul mercato finanziario dalla nazionalizzazione dell’energia elettrica, prima in mano ad oltre 1.200 imprese private produttrici di energia–, non si pensa più a quel provvedimento, eppure ogni giorno ne siamo interessati. Moltissime azioni della nostra vita quotidiana, innumerevoli oggetti che ci circondano hanno origine, direttamente o indirettamente dalla nazionalizzazione delle società elettriche. Possiamo affermare decisamente che il trasferimento dell’industria elettrica allo Stato è venuto ad influenzare in misura massiccia la nostra vita, le nostre abitudini, il sistema di vita».
Ma i dirigenti erano cambiati. I responsabili dell’andamento della lira e della proprietà delle aziende pubbliche nel 1993 erano Carlo Azeglio Ciampi, governatore della Banca d’Italia, e Lamberto Dini, direttore generale, entrambi poi chiamati alla guida dei due Governi tecnici che avviarono il taglio della spesa pubblica. Dopo l’intervallo di Franco Nobili colpito dall’inchiesta Mani Pulite, arrestato e infine scagionato, Romano Prodi era tornato alla presidenza dell’Iri con l’intento di proseguire la cessione delle imprese pubbliche. Nel settembre 1993 l’agenzia di rating Moody’s declassò i Bot italiani e quasi contemporaneamente il finanziere ungherese naturalizzato americano George Soros, che oggi pubblica libri di critica del liberismo e si dichiara filantropo, colse l’occasione per una consistente speculazione sulla lira che provocò una perdita del 30 per cento del suo valore, costringendo la Banca d’Italia a fronteggiarla al prezzo di 48 miliardi di dollari. Le Procure di Roma e Napoli avviarono un’inchiesta sulla svalutazione indagando su un possibile collegamento con la crociera del Britannia, ma tutto finì nel nulla.
In un clima aspro, complesso sotto tutti gli aspetti, politico, economico, finanziario, giudiziario e di ordine pubblico, furono assunte decisioni tuttora inspiegabili. Nel 1993 andò all’asta il Credito Italiano e negli anni successivi proseguirono le cessioni di aziende in quasi tutti i settori, a cominciare dall’agroalimentare con Invernizzi, Locatelli, Galbani, Ferrarelle, Peroni, Moretti, Buitoni, Perugina, a favore di società olandesi, inglesi o americane; per continuare Telecom ed Enel. In mani straniere cadde anche buona parte del sistema bancario e molte altre aziende dei settori strategici.
Nel 2000 fu la volta degli immobili della Fondazione Cariplo, di Unim, Ras e Toro, passati in buona parte in mano alla Goldman Sachs. Il debito pubblico, che i proventi di tali privatizzazioni avrebbero dovuto eliminare o quantomeno ridurre, ha continuato ad aumentare. Allora vendere per ridurre o per aumentare i debiti? Che senso ha oggi parlare di privatizzazioni? Quale l’utile per le casse dello Stato? Chi nel mondo delle banche, dei finanzieri nazionali e internazionali, dei grandi capitalisti ne verrebbe beneficato?
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