MAGISTRATURA. I NUMEROSI PROBLEMI LEGATI AL REATO DI CLANDESTINITÀ
di COSIMO MARIA FERRI, Componente del CSM - Consiglio Superiore della Magistratura
L’introduzione di nuove fattispecie di reato porta sempre con sé alcuni problemi: non vi è solo quello dell’efficacia di tali norme e dell’effettività delle pene da esse previste, ma anche l’emergere di questioni organizzative che si riflettono sul funzionamento della macchina della giustizia, determinandone il rallentamento. Anziché limitare l’area degli illeciti penali alle condotte realmente gravi, deflazionando e decongestionando le aule di giustizia in modo da fluidificarne i lavori, si sceglie la strada della creazione di nuove figure di reato nel convincimento, spesso errato, che ciò possa costituire un freno a condotte criminose o a condizioni di vita criminogene. Eppure, accanto al mancato raggiungimento di tale obiettivo, si delineano anche conseguenze pesanti per il carico di lavoro degli operatori della giustizia, che si riverberano sull’attività giudiziaria nel suo insieme.
Indubbiamente, alla luce dei primi giorni di applicazione (assai problematica), ciò vale anche per il reato di ingresso e soggiorno di stranieri clandestini, introdotto dalla nuova legge in tema di sicurezza n. 94 del 2009. Le premesse politiche e sociali dell’intervento legislativo sono certamente connesse all’esigenza, avvertita dal Governo, di dare risposte forti di fronte al problema dell’obiettiva frequenza di forme criminose ad opera di soggetti extracomunitari clandestini, particolarmente avvertito nelle principali realtà urbane: è noto, infatti, che un’elevata percentuale di reati, anche particolarmente gravi, è riconducibile ad ambienti criminogeni composti da stranieri irregolari sul territorio.
In tale chiave il Governo si è mosso nel perseguimento dell’obiettivo della sicurezza dei cittadini, cardine delle riforme approvate dall’esecutivo in tempi recenti, superando le obiezioni che, da più parti, sono state mosse alle scelte governative in funzione del rispetto di principi umanitari con i quali, secondo tali voci critiche, anche il nuovo reato si porrebbe in contrasto. Nel parere espresso sul testo della legge prima della sua approvazione, il Consiglio Superiore della Magistratura, ebbe a formulare molte riserve sull’introduzione di tale figura di illecito: a parte i profili più strettamente giuridici e quelli più squisitamente umanitari e politici, l’organo di autogoverno evidenziò fin da subito, prevedendoli, anche i problemi di attuazione della normativa sia sul piano processuale, sia sul piano sanzionatorio, sia infine sotto il profilo organizzativo.
Le riserve allora espresse dal CSM, alla luce delle prime applicazioni della nuova ipotesi di reato, si stanno rivelando fondate. In primo luogo, si stanno evidenziando i problemi organizzativi derivati dall’approvazione della norma, dovuti innanzitutto al numero di nuovi procedimenti che stanno già affollando le aule dei giudici di pace, ma anche alle difficoltà interpretative e operative, queste ultime legate al fatto che si procede con un rito assimilabile a quello per direttissima, senza che però il clandestino venga arrestato. In prima battuta ciò sembra poter dare luogo a un elevato numero di giudizi nei quali l’imputato, prima di essere chiamato davanti al giudice, ancorché nel giro di pochi giorni, ha la possibilità di far perdere le proprie tracce e riguadagnare così la condizione di clandestinità precedente; giudizi che, tuttavia, andranno ugualmente celebrati, con quello che ne consegue in termini di inutile rallentamento degli altri procedimenti.
Anche sotto il profilo del rispetto del principio di effettività della pena le preoccupazioni espresse dal CSM appaiono, in prospettiva, giustificate: se è vero che la finalità della pena è anche la deterrenza, deve rilevarsi che ben difficilmente una pena pecuniaria, sia pure elevata, potrà costituire un fattore di dissuasione per persone che sono spesso trattenute nel nostro territorio in condizioni economiche precarie, e per le quali non costituisce una spinta all’allontanamento un’ammenda che ben difficilmente pagherebbero in caso di giudizio. Perciò, fermo restando il principio di obbligatorietà dell’azione penale - che ovviamente non è in discussione, non essendo giuridicamente sostenibili eventuali forme di disapplicazione, anche in via di fatto, della norma -, le procure e gli uffici dei giudici di pace si troveranno nella necessità di attivare una volta di più processi destinati in concreto a concludersi con un nulla di fatto.
È ben vero che viene prevista l’espulsione come sanzione sostitutiva: ma tale soluzione, peraltro già prevista anche in via amministrativa in presenza di situazioni di clandestinità, è stata fino ad oggi resa difficile da obiettivi limiti organizzativi, ed anche finanziari, che ne hanno notevolmente limitato l’impiego; perciò è agevole prevedere che gli ulteriori casi di espulsione determinati dall’applicazione della nuova figura di reato incontreranno analoghe, se non maggiori difficoltà all’atto pratico.
Come, peraltro, è stato già autorevolmente osservato, la strada da percorrere è quella di realizzare al più presto tutti gli strumenti che le norme stesse individuano per rendere fluide e chiare tutte le procedure. La classe politica ha l’interesse e il dovere di farlo, così come credo che debba tener in debito conto i suggerimenti dei magistrati che, senza alcuna volontà polemica, evidenziano problemi e suggeriscono soluzioni avendo a che fare direttamente e ogni giorno con la concreta applicazione della legge.
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