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RIDURRE LE DISEGUAGLIANZE E RICOSTRUIRE LA COESIONE DEL PAESE

Proposte per una possibile agenda del Governo

di GIORGIO BENVENUTO, presidente della fondazione Bruno Buozzi

Nella storia della Repubblica per la terza volta si costruisce un Governo con il consenso di tutte le forze politiche. È avvenuto una prima volta tra il 1943 e il 1947, quando si trattò di sconfiggere il nazifascismo, di ricostruire il Paese, di avere una nuova forma dello Stato con l’approvazione della Costituzione. Si ripeté una seconda volta tra il 1976 e il 1979, nel momento più buio della storia della Repubblica, quando si dovette uscire dalla drammatica crisi economica del Paese e quando si sconfisse il terrorismo.
Si sta riprovando ora per la terza volta con il Governo Monti per rientrare in Europa, risalendo dal precipizio nel quale il Paese è finito per l’incapacità di fare le riforme. Lo scenario nel quale ci si muove è allarmante. L’opinione pubblica avverte le insufficienze dello Stato, teme la decadenza dell’economia, guarda con preoccupazione il fenomeno della globalizzazione. È insofferente sull’atteggiamento dei partiti. Alcuni ignari, altri ignavi. La frantumazione dei conflitti ha portato i diversi e i molteplici gruppi di potere a concentrarsi sui propri interessi, a scapito di quello generale.
L’appannarsi e l’affievolirsi delle dottrine e delle ideologie politiche appaiono come l’espressione di un mondo che non vive ma sopravvive, incapace com’è di suscitare passioni e di ispirare suggestioni per guardare avanti, per costruire con coraggio, senza vittimismi, senza opportunismi, il futuro. La mancanza di idee e di ideali ha immiserito la lotta politica. E così i partiti, nella concezione prevalente dell’opinione pubblica, finiscono per apparire tutti eguali, o meglio differiscono nella maggiore o minore demagogia, nella maggiore o minore truculenza, nella maggiore o minore ignoranza, nel maggiore o minore opportunismo.
Il Governo Berlusconi, che pure aveva ottenuto una formidabile maggioranza nelle elezioni del 2008, confermata nelle elezioni amministrative ed europee, non ce l’ha fatta. Si è frantumato il blocco economico e sociale che lo sorreggeva. La crisi degli Stati Uniti ha contagiato l’Europa. L’Italia, per l’enormità del proprio debito pubblico, ha sofferto e soffre più degli altri, ed è incapace di realizzare quelle riforme che sono inevitabili se si vuole tornare a crescere, a svilupparsi.
In questi ultimi anni si è dimenticato che la politica va considerata come sforzo della ragione e creazione del pensiero. Riformare l’esistente non può essere mai un espediente per lasciare le cose come stanno. Fare le riforme significa migliorare la situazione di qualcuno a scapito di altri. Il Governo Berlusconi ha dovuto gettare la spugna, incapace, come si è dimostrato, di fronteggiare la crisi economica; isolato dal contesto dell’Europa e del mondo industrializzato; inadatto a proporre e a costruire strategie di crescita; travolto da contraddittori e casuali espedienti congiunturali.
L’iniziativa del Capo dello Stato è stata opportuna. Necessaria. Abile. Rispettosa degli interessi generali. È stata così favorita con un’accorta moral suasion la formazione del nuovo Governo con un largo, larghissimo consenso parlamentare. È auspicabile che Monti sia capace di trovare, nello scorcio della legislatura, spazi politici per impegnare le proprie energie nella ricostruzione di obiettivi ideali per il futuro del Paese. È stato compiuto un primo passo nella giusta direzione. Occorre ora una svolta.
Bisogna ritrovare il gusto per il confronto, per la discussione, per il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte economiche e sociali che sono necessarie per riprendere lo sviluppo e per rimanere in Europa. È attuale riproporre l’appello di John Kennedy: «Non chiedete solo allo Stato, ma dite quello che siete disposti a fare per il Paese». Ferruccio Parri, il primo presidente del Consiglio dell’Italia liberata dal nazifascismo, diceva: «Sono un conservatore disperato, perché non trovo molto che meriti di essere conservato». I cittadini vogliono delle riforme. Avvertono con impazienza la necessità di un cambiamento. È attuale la proposta che Bruno Visentini fece nel momento più difficile della prima Repubblica: «Costituire un Governo degli onesti e dei capaci».
Proviamo ad immaginare una possibile agenda delle scelte da fare. Il tempo è limitato. Poco più di un anno e mezzo. Le idee forza delle riforme sono due. Ridurre le diseguaglianze e ricostruire la coesione del Paese. Le diseguaglianze sono cresciute a dismisura nel Paese. Si sono affievoliti i diritti, si sono rafforzati gli interessi. Il Paese è diventato una giungla nella quale i più forti prevalgono. La politica economica e sociale ha colpito i giovani (non hanno futuro e non hanno diritti); gli anziani (il welfare non è in grado di assicurare una vecchiaia serena); le donne (esistono, resistono, persistono inaccettabili discriminazioni professionali); la famiglia (il trattamento fiscale è persecutorio); le imprese (il ricorso al credito diventa un ricatto con prestiti usurai).
Altre diseguaglianze insopportabili sono i costi della politica; l’oppressione della burocrazia; la lentocrazia delle procedure legislative e giudiziarie. La coesione è chiamata in causa dalla rottura della solidarietà. Tutti sono per sé. Tutti contro tutti. I sindacati sono divisi. Non c’è solo il disaccordo tra le grandi storiche Confederazioni. C’è la divisione dei lavoratori per età (i giovani contro gli anziani), per categorie produttive (gli operai dell’industria contro quelli del pubblico impiego), per professione (operai contro tecnici e contro impiegati), per area geografica (operai del Nord contro quelli del Sud). Non cambia lo scenario per le grandi associazioni imprenditoriali (l’uscita della FIAT dalla Confindustria è la punta di un «iceberg») o per le professioni.
Occorrono politiche che ricompongano un Paese che si sta spappolando. Cosa è necessario? Prima di tutto il recupero dell’autorevolezza da parte di chi governa. Sono necessari immediati, concreti, tangibili segni di diminuzione dei privilegi della politica nella sua articolazione nazionale e locale. Il taglio dei costi della politica deve essere accompagnato dalla riforma elettorale che ristabilisca il principio base della democrazia parlamentare secondo il quale non si è nominati ma si è eletti.
Non ci vuole molto tempo: i tagli ai costi della politica possono essere fatti immediatamente; la riforma elettorale ha tempi stretti in vista del referendum popolare che, al più tardi, dovrà essere effettuato entro giugno del prossimo anno. I tagli ai costi della politica renderanno possibile la necessaria politica di austerità che il Governo dovrà affrontare per rimettere in ordine i conti e per rimanere nell’area dell’euro.
Un altro segnale rilevante è quello di riportare il sistema creditizio a favore delle imprese. La «sbornia finanziaria» di alcune grandi banche va curata e superata. Il futuro del nostro Paese non è nella malafinanza ma nel sostegno dello sviluppo, della ricerca, della crescita professionale. Il Governo Monti, nel quale sono presenti molti autorevoli esponenti dell’economia e del credito, deve sgomberare il terreno da ogni possibile sospetto di conflitti di interesse. Non deve apparire come espressione del «salotto dei poteri forti». Deve essere intransigente nel pretendere la buona e prudente gestione del credito.
Sono da condividere alcune considerazioni della Barbara Spinelli: «La scommessa di Monti e Papademos ha senso se assumono in pieno il rischio della politica non solo in patria. Non è ammissibile che ad indicare la linea sia un leader nazionale (Angela Merkel, Nicolas Sarkozy) piuttosto che istituzioni comuni come Commissione, Parlamento europeo, BCE. Non è ammissibile che Berlino continui ad opporsi a un’Europa più solidale e a istituzioni o misure che accentuino l’unità: un Governo federale, una banca centrale prestatrice di ultima istanza, un fondo salva-Stati sovranazionale, un ricorso agli eurobond».
Sappiamo tutti che occorrerà agire in due direzioni. Sul fronte della spesa e su quello delle entrate. Occorrono provvedimenti strutturali. I tagli alla spesa non devono riguardare solo il «tendenziale». Bisogna agire sulla spesa previdenziale (regole e principi universali ed eguali per tutti); sulla Pubblica Amministrazione (la burocrazia va semplificata e resa competitiva); sulla liberalizzazione delle professioni; sulla restituzione dei diritti al lavoro ai giovani modernizzando le tutele legislative e rafforzando il decentramento delle politiche contrattuali; sul riordino delle incentivazioni (va superato il sistema delle erogazioni a pioggia).
La politica delle entrate va riequilibrata. Non ci sono, lo sappiamo, spazi per abbassare la pressione fiscale. C’è però la possibilità di ripartire in modo equo il carico fiscale. Non è pensabile che tutto gravi sull’Irpef e sulle piccole imprese. È necessario che venga uniformato il prelievo fiscale e che il principio costituzionale della progressività (paga di più chi ha di più) venga riaffermato e non aggirato o, peggio, sostituito con quello della proporzionalità. È necessario che una parte dei proventi della lotta all’evasione fiscale sia destinata allo sviluppo, al lavoro per i giovani, alla tutela dei redditi più bassi.
Insomma occorre un mix intelligente tra entrate e uscite, tra risanamento e sviluppo. Ci vuole una politica di rigore. Non il «rigor mortis» che, purtroppo, ha caratterizzato la politica economica di questi ultimi tre anni. Per farcela è importante aprirsi al confronto con il Paese, con le forze economiche e sociali. Non c’è bisogno di «salvatori della patria». C’è bisogno di avere una squadra di Governo autorevole che mobiliti energie, ravvivi gli ideali, indichi obiettivi. Si vince se si convince, se si avvince tutti in un credibile e realistico obiettivo di sviluppo.

Tags: Giorgio Benvenuto dicembre 2011

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