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il rimedio islamico allo stallo della finanza

di ENRICO SANTORO  professore, avvocato

Sono molti i riflettori puntati sull’avvicendamento di poltrone che interessa la Penisola. Prima la competizione elettorale, poi il quasi contemporaneo cambio della guardia in Vaticano e al Quirinale, catalizzando l’attenzione di tutti gli osservatori sul palcoscenico politico-religioso, hanno lasciato in penombra l’evento più importante e drammatico capitato all’Italia negli ultimi sessant’anni: il tracollo dell’economia. Al sistema bancario, che ne è alla fonte, le prime pagine dei giornali non pensano quasi più. Aiutano a dimenticare, in questo modo, che la crisi è scaturita da una mala gestione degli asset da parte delle aziende di credito americane. E non sembrano avere spazio per sottolineare che, malgrado gli interventi delle banche centrali, l’intero meccanismo di circolazione del denaro e del credito è ormai in stato comatoso.
In Europa soprattutto e in Italia in particolare, dove banche e finanza vengono accusate ormai senza remore di bloccare la crescita. Qui l’interesse degli imprenditori torna ad accendersi non appena si parla di finanza alternativa per uscire dall’impasse in cui siamo sprofondati, con ulteriore calo del 2,4 per cento del prodotto interno: molto peggio di altri Paesi dell’area. Le riflessioni sulla modernità della finanza islamica l’hanno recentemente confermato.
Merita approfondirle, dopo aver letto i nuovi preoccupanti dati della Cgia-Confederazione generale dell’Artigianato di Mestre sulle imprese che non riescono più ad onorare i loro debiti. A fine 2012 l’insieme dei crediti insoluti a livello nazionale ha superato i 95 miliardi di euro, mentre le sofferenze bancarie hanno toccato addirittura il 165 per cento, superando i 120 miliardi. Il credito, ha sottolineato il presidente della Confindustria Giorgio Squinzi, è l’emergenza principale. L’Unioncamere ribadisce che chiudono mille aziende al giorno e nell’arco di un quinquennio è stato registrato un aumento medio del 12,8 per cento delle imprese protestate, con punte del 46,4 in Umbria, del 34 in Abruzzo e del 32,4 in Sardegna. Ma le imprese del Veneto, con un aumento del 26 per cento, o del Molise con il 24 o della Toscana con il 23, non stanno meglio. Se si escludono Liguria, Emilia e Lombardia, il quadro è drammatico.
Anche perché questa crisi di liquidità si riflette sui lavoratori che, in seguito a inevitabili licenziamenti e ritardata corresponsione o rateizzazione degli stipendi, non riescono più a far fronte ai mutui contratti per l’acquisto della casa, tanto che sono in crescita esponenziale sia i pignoramenti che il numero di immobili entrati in possesso delle banche creditrici, ormai scesi di valore e quindi di difficile o antieconomico realizzo. Per evitare questo avvitamento, con una contrazione del credito che in Italia dura da 14 mesi, la Banca Centrale Europea ha immaginato di esportare il metodo inglese del «funding for lending», ossia di erogare prestiti alle banche solo a patto che siano dirottati subito, senza le attuali difficoltà, a chi produce e dà lavoro. La Bce accetterebbe in garanzia da esse i crediti vantati verso le imprese minori di volta in volta affidate. Ma non sembra che questo meccanismo possa prefigurare un’alternativa strutturale al credit crunch. Alternativa vera potrebbe essere invece il sistema della finanza islamica, il quale incorpora strumenti che, adottati con la necessaria tempestività, rappresenterebbero la sterzata necessaria per non precipitare del tutto nel baratro.
La finanza islamica si fonda sui principi della legge cranica: trasparenza, responsabilità sociale e contenimento della speculazione. Si lega strettamente all’economia reale e nelle banche le finalità della raccolta coincidono con quelle degli impieghi. Non finanzia attività economiche proibite dal Corano, legate al tabacco, ad alcool, armi, pornografia, gioco d’azzardo, carne suina. Esclude soprattutto le transazioni basate su elementi figurativi del credito. Bandisce le scommesse implicite nei famigerati derivati. Vieta la speculazione e la stipula di contratti caratterizzati da irragionevole incertezza o ambiguità, nonché il pagamento di interessi frutto di una rendita non correlata a un’attività reale che comporta rischio e merita remunerazione.
La finanza islamica sta esprimendo le massime potenzialità di crescita e redditività nei sistemi bancari misti, come quello della Malesia, rivela uno studio della Deloitte che segnala come l’aprire la cultura finanziaria a questo modello non solo consentirebbe alle nostre banche di uscire dalla situazione di asfissia in cui versano, ma anche di accompagnare le nostre imprese nell’area del Golfo e del Sahel. Oggi nel mondo ci sono 350 Islamic financial institutions sparse in oltre 50 Paesi, che dopo un decennio di sviluppo a ritmi del 10 per cento, da cinque anni progrediscono a tassi del 30 per cento. Dai mille miliardi di dollari di asset stimati nel 2010 si profilano progressioni quintuplicate. L’area di proiezione è nel Nord Africa, negli Usa, in Australia e Canada. In Europa molti Paesi stanno adeguando le norme a questo modello.
E l’Italia? L’Unioncamere ha diffuso a fine febbraio dati, secondo cui le aziende guidate da stranieri sono 477.519, il 7,8 per cento del totale. Di queste, 24.329 sono state avviate nel solo 2012, aumentando lo stock del 5,8 per cento, mentre le imprese aperte da cittadini italiani nello stesso periodo sono state meno di 19 mila. Buona parte di questa vitalità trova sostegno negli avamposti italiani della finanza islamica.
 Sono pochi, ma devono poter crescere, così come è avvenuto nel Regno Unito dove la popolazione di religione musulmana è stimata in 2,9 milioni di abitanti e dove le 5 banche islamiche presenti, una retail e 4 wholesale, che operano con la stessa licenza delle banche convenzionali in base al Financial service and market act del 2000, mirano a rendere le loro offerte finanziarie più attrattive per i capitali del Medio Oriente.
In Francia gli immigrati musulmani sono 3,6 milioni e il Governo di Parigi intende gareggiare con quello di Londra per favorire la finanza islamica, tanto che ha introdotto nel 2009 adeguamenti normativi di natura prevalentemente fiscale e l’anno successivo ha sottoscritto protocolli per favorire l’accesso al mercato creditizio locale di operatori creditizi di origine islamica che offrono prodotti «Shari’ah compliance».
Germania, Lussemburgo, Irlanda, Spagna, Svizzera hanno stabilito regole di apertura e di accoglienza del modello creditizio islamico, in particolare per il comparto dei fondi di investimento. Malta è invece considerata centro ideale per lo sviluppo della finanza islamica anche in virtù dell’appartenenza a un network Double Tax Treaty che mitiga gli effetti fiscali della doppia imposizione sulle transazioni finanziarie islamiche. In Italia vivono 1,3 milioni di musulmani e si prevede che entro metà secolo raddoppino. La presenza di istituti islamici è insufficiente a coprire la domanda potenziale di prodotti e servizi. Sul piano normativo e strategico siamo in ritardo. Uno studio recente, ha spiegato la Deloitte, stima che la raccolta potenziale da clientela islamica possa raggiungere i 4,5 miliardi di euro entro il 2015 con ricavi potenziali per 170 milioni di euro.
Se poi a questi clienti «captive» si aggiungessero quelli «autoctoni», ossia le imprese e i cittadini italiani affamati dalle banche occidentali, le previsioni potrebbero ulteriormente lievitare. Ma ciò che più interessa è che la Penisola potrebbe uscire dallo stato comatoso in cui versa. E le banche occidentali stesse riceverebbero una sferzata di competitività capace di rimetterle sul mercato dopo opportuni aggiustamenti strutturali.
A differenza del conto corrente e del deposito a risparmio, le banche islamiche offrono «non profit account» e «profit sharing investment account». Sui primi affluiscono piccole somme che si possono prelevare senza preavviso, il cui capitale è garantito e sui quali non è prevista alcuna forma di remunerazione né pagamento di interessi. Sui secondi il depositante non gode della protezione del valore nominale e non ha una remunerazione fissa o legata a un tasso, ma simile a una partecipazione agli utili o alle perdite della banca, secondo una percentuale fissata dal contratto. Il titolare di tali conti più che depositante è simile a un investitore di fondi comuni o a un azionista della banca senza diritto di voto.
Sul fronte degli impieghi ci sono due grandi raggruppamenti, le tecniche di finanziamento Profit loss sharing e Non profit loss sharing, che si differenziano per il livello di partecipazione al rischio tra finanziatore e finanziato. Nel primo caso la banca e il prenditore di fondi condividono il rischio di investimento e non è contemplato l’uso di garanzie per la banca, mentre è previsto come deterrente per comportamenti opportunistici del prenditore.
Il Mudaraba è un contratto di partnership tra il soggetto che apporta il capitale e il soggetto che gestisce il progetto concordato e approvato. I profitti sono ripartiti in base a uno specifico contratto, le perdite sono a carico di chi apporta il capitale. Il Musharaka è un contratto finalizzato a realizzare un’attività: il capitale è apportato sia dalla banca che dal gestore, il prenditore lo gestisce, ma le perdite sono ripartite in proporzione all’apporto iniziale. I contratti di questo tipo non si basano sulla condivisione di utili e perdite. Le tecniche non Profit loss sharing si avvalgono di contratti che garantiscono una remunerazione chiara e definita per l’intermediario e si distinguono in contratti di scambio come il Murabaha, di agenzia come il Wakala e di trasferimento dell’usufrutto come il Ljara e il Ljara wa iqtina, questi ultimi assimilabili al leasing, rispettivamente operativo e finanziario.
Nel Ljara il finanziatore non presta denaro applicando gli interessi, ma ottiene una remunerazione addebitando al cliente canoni periodici per l’asset concesso in locazione. Il totale dei canoni comprende un mark up, rispetto al costo d’acquisto, dovuto al rischio assunto dal locatore con l’acquisto del bene. Il Ljara wa iqtina combina una forma di leasing con un’opzione di acquisto finale del bene. C’è poi l’Istisna, contratto d’acquisto di beni su specifico mandato, in cui la banca riceve il rimborso da parte del cliente in modo progressivo secondo l’avanzamento di una certa attività. Il prezzo di vendita è costituito dal costo d’acquisto o produzione più un mark up per il rischio corso dal venditore quando, ad esempio, si compra un immobile in costruzione e si paga a stadi di avanzamento dei lavori.
Il Murabaha è un contratto di compravendita con cui la banca acquista il bene su richiesta del cliente che, ad esempio vuole comprare casa, e glielo rivende al costo d’acquisto maggiorato ma con pagamento differito. La casa è riscattata dal cliente che a fine pagamento ne diviene proprietario. Da noi si diviene proprietari subito ma fittiziamente: se si smette di pagare il mutuo la casa è pignorata. Ci sono poi altri contratti come il Qard al hasanah che è un prestito benevolo dato in caso di eccezionali condizioni di bisogno senza alcuna garanzia e senza alcuna remunerazione; il Salam, un contratto di vendita a termine di beni e merci tangibili, salvo oro e argento, dettagliatamente descritti e in cui il pagamento viene regolato alla stipula e la consegna è effettuata in data futura, purché predefinita.
Il Tawarruk è un contratto usato nei finanziamenti personali dove il cliente acquista un bene dalla banca con pagamento differito e lo rivende a un terzo con pagamento immediato, ottenendo così contante senza prestiti onerosi. Il Wakala è un contratto di agenzia in cui un soggetto, il wakeel, agisce in nome e per conto di un altro dietro pagamento di una commissione. L’elenco potrebbe continuare, preme però lanciare un sasso nello stagno del sistema bancario occidentale che, in mancanza di agende su cui si ipotizzi una sua riforma, sta bloccando la crescita, incapace di favorire un’emancipazione delle imprese che le conduca ad approvvigionarsi in Borsa, rendendole adulte; incapace di rendere redditizie reti di sportelli che definire sproporzionate è poco. Per rientrare di spese pazze, le banche occidentali penalizzano il rapporto quotidiano con il risparmiatore, aspettano passivamente i fondi statali, li destinano a coprire le crescenti passività, perdono ulteriori quote di mercato, per poi difendersi alzando ancora i prezzi dei servizi. In una spirale che le rende davvero fragili di fronte a soluzioni che si candidano ad acquisire un ruolo centrale nella finanza di domani.

Tags: Aprile 2013 finanza Islam Enrico Santoro

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