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TUTELA DEL LAVORO DELLE DONNE. L’ITALIA È ANCORA INDIETRO

di MAURIZIO DE TILLA presidente dell’AdEPP, Associazione degli enti previdenziali privati

«Tutela del lavoro delle donne» è il tema e il titolo del primo volume pubblicato dall’Associazione O.N.Da, presieduta da Francesca Merzagora, che contiene scritti di esperti e docenti universitari quali Giulio Prosperetti, Edoardo Ales, Maria Vittoria Ballestrero, Franca Borgogelli, Riccardo Del Punta e Gisella De Simone; scritti che pongono in evidenza i più spinosi problemi del mondo del lavoro delle donne. In cinque punti fondamentali.

DISCRIMINAZIONI

Sulla base del divieto di discriminazione vi è la legge 10 aprile 1991 n. 125, nata con lo scopo principale di realizzare una parità sostanziale tra uomini e donne. Partendo da alcune carenze della legge Anselmi, il legislatore ha stabilito che non era sufficiente garantire alle lavoratrici lo stesso trattamento dei colleghi uomini, trattamento già formalmente in essere, ma era necessario intraprendere iniziative concrete che colmassero il divario sostanziale tra i due sessi.
Per la legge n. 125 il concetto di discriminazione si concretizza quando il datore di lavoro pone in essere qualsiasi atto che produca un effetto pregiudizievole discriminando anche in via indiretta le lavoratrici o i lavoratori in ragione del loro sesso. Un caso tipico di discriminazione indiretta ai danni delle lavoratrici è quello della sopravvalutazione del carattere pesante della mansione tradizionalmente affidata a manodopera maschile, rispetto alla mansione di contenuto analogo affidata tradizionalmente a manodopera femminile.
Affrontando con dovizia di argomenti il tema delle discriminazioni, Giulio Prosperetti richiama opportunamente l’art. 141 del trattato della Comunità europea in base al quale, allo scopo di assicurare l’effettiva e completa parità fra uomini e donne nella vita lavorativa, il principio di parità di trattamento non osta a che uno Stato membro mantenga o adotti misure che prevedano vantaggi specifici diretti a facilitare l’esercizio di un’attività professionale da parte del sesso sottorappresentato, ovvero ad evitare o a compensare svantaggi nelle carriere professionali.
Viene così affermata la possibilità per gli Stati membri di compiere «azioni positive», inserendo di diritto tali strumenti fra quelli in dotazione agli Stati nella lotta alla discriminazione. In merito ad azioni positive la Corte di Giustizia ha avuto il modo in varie occasioni di definire i limiti e la portata di tali strumenti, e in particolare il principio per cui l’uguaglianza di opportunità alla quale mira l’attività promozionale delle azioni positive non deve tradursi in una uguaglianza di risultati, ma solo limitarsi a mettere i destinatari di dette azioni nelle condizioni di ottenere, attraverso i loro meriti e capacità, l’uguaglianza dei risultati.

TUTELA DELLA SALUTE DELLE LAVORATRICI

Nel nostro ordinamento la tutela della salute del lavoratore ha i fondamenti in alcune norme: l’art. 32 della Costituzione; l’art. 2087 del codice civile, che impone al datore di lavoro di adottare, nell’esercizio dell’impresa, le misure necessarie per tutelare l’integrità fisica dei prestatori di lavoro; l’art. 9 della legge 20 maggio 1970, n. 300, che sancisce il diritto dei lavoratori di controllare l’applicazione delle nome di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere l’attuazione delle misure idonee a tutelare la loro salute e integrità fisica.
Per l’attuazione di tali principi sono state emanate specifiche disposizioni regolamentari e tecniche per la prevenzione degli infortuni e per l’igiene del lavoro. Riccardo Del Punta osserva che la dottrina giuslavoristica si è dedicata al mobbing - costituito da comportamenti violenti, abusi psicologici, angherie, vessazioni, emarginazione, umiliazioni verso i dipendenti - in linea proporzionalmente inversa all’interesse popolare del fenomeno. All’origine di tale freddezza vi sono, forse, le medesime ragioni che hanno determinato il grande interesse mediatico dello stesso: i misteri semantici e le suggestioni esterofile della parola; l’attitudine del nuovo istituto a catalizzare un’indeterminata serie di situazioni di disagio lavorativo, dando così voce a un «sottosuolo» individuale talora rimosso dall’attenzione riservata ai problemi collettivi; gli impieghi strumentali cui il mobbing ha talora finito col prestarsi, andando così ad ingrossare il fiume, sempre più insofferente di argini, dei danni alla persona.
Il mobbing è un segno dei tempi la cui componente effimera non deve far dimenticare la serietà delle patologie organizzative cui esso rimanda. E se, in queste, il ruolo dell’aggressore finisce con l’essere distorto dalle rappresentazioni soggettive di una presunta vittima che proietta sull’azienda, sui capi o sui colleghi di lavoro, i propri e irrisolti problemi personali, nondimeno esistono molte situazioni nelle quali, davvero, le dinamiche - soprattutto verticali ma pure orizzontali - dei rapporti di potere in seno alle organizzazioni si fanno perverse e capaci di emarginare, e nei casi più gravi di annientare, gli anelli più deboli o quelli sui quali le stesse organizzazioni hanno scaricato, a loro volta, le proprie contraddizioni interne.
Su questa base sociologica, psicologica e medica del fenomeno - che avrebbe avuto maggiori difficoltà ad emergere nelle classiche organizzazioni fordiste, più che in quelle post-fordiste -, si è innestata la grande crescita di tensione, da parte della giurisprudenza civilistica e soltanto in un secondo tempo lavoristica, sui problemi del risarcimento dei danni alla persona.
La circostanza che del mobbing si siano occupati, per primi, i medici del lavoro non deve far scivolare verso un’integrale «medicalizzazione» del mobbing: esso costituisce una condotta illecita dalla quale può scaturire una pluralità di possibili e risarcibili pregiudizi: alla salute, alla sfera esistenziale ma anche, semplicemente, alla dignità morale della persona. È anzi nel dispregio della dignità della lavoratrice o del lavoratore in quanto persona che si deve ricercare il «grado zero» del mobbing.

MOLESTIE SESSUALI

L’obbligo di tutela posto a carico del datore di lavoro dall’art. 2087 del codice civile comprende anche l’ambito delle molestie sessuali - con le conseguenti responsabilità -, purché sia accertata l’esistenza di un nesso causale tra il relativo comportamento e il pregiudizio che ne deriva. Non vi è alcun dubbio che le molestie sessuali, poste in essere dal datore di lavoro o dai suoi stretti collaboratori nei confronti dei lavoratori soggetti al rispettivo potere gerarchico, costituiscono uno dei comportamenti più detestabili fra quelli che possono ledere la personalità morale e, come conseguenza, l’integrità psicofisica dei prestatori d’opera subordinati. L’obbligo previsto dalla disposizione contenuta nell’art. 2087 non è limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, ma implica anche il divieto di qualsiasi comportamento lesivo dell’integrità psicofisica dei dipendenti, qualunque ne siano la natura e l’oggetto e, quindi, anche nel caso in cui siano posti in essere atti integranti molestie sessuali nei confronti dei lavoratori.
Deve ritenersi legittimo il licenziamento irrogato a dipendente che abbia molestato sessualmente una collega sul luogo di lavoro. A nulla rileva la mancata previsione di questa ipotesi nel codice disciplinare. Né si può dedurre che il datore di lavoro è controparte di tutti i lavoratori, sia uomini che donne, per cui non può essere chiamato a svolgere un ruolo protettivo delle seconde nei confronti dei primi. Infatti per un verso le molestie sessuali possono avere come vittima entrambi i sessi, e per un altro verso il datore di lavoro ha in ogni caso l’obbligo di adottare i provvedimenti che risultino idonei a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, provvedimenti tra i quali può certamente ricomprendersi anche l’eventuale licenziamento dell’autore delle molestie sessuali.
Affrontando il complesso tema delle molestie sessuali, Gisella De Simone evidenzia il legame stretto tra tutela della salute e della sicurezza delle lavoratrici e protezione della dignità della persona, assicurata a lavoratori e lavoratrici con il divieto di molestie connesse a una serie chiusa, ma ampia, di fattori di identità personale. Se prima ci si preoccupava soltanto dell’incolumità fisica delle lavoratrici, oggi la preoccupazione concerne anche la «personalità morale» di lavoratrici e lavoratori, come peraltro prevede e prevedeva già nel 1942 l’art. 2087 del codice civile.
La molestia connessa al genere e la molestia a connotazione sessuale in particolare, lede la salute della lavoratrice oggetto di molestie, producendo danni psicofisici da tempo segnalati dalla scienza medica e dagli studi di psicologia. Ma la lesione della salute si accompagna alla lesione della persona causata dal fatto di prestare la propria attività lavorativa in un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante, offensivo.
Non solo. Le molestie, che colpiscono in particolar modo le donne per ragioni storiche e sociali, quali soggetti deboli nel mercato del lavoro, «sono contrarie al principio della parità di trattamento fra uomini e donne», come si legge nella direttiva europea 2002/73. Ed ecco dunque il legame tra molestie e discriminazione: le molestie sono oggi finalmente considerate come discriminazione perché violano il principio di parità di trattamento, principio fondamentale dell’Unione europea, e perché violano quel principio costituzionale di eguaglianza sostanziale che rappresenta una pietra angolare del nostro sistema di civiltà giuridica. La libertà dalle molestie, e dalle molestie sessuali in particolare, rappresenta un aspetto della libertà della donna, irrinunciabile precondizione per garantire sia il pieno sviluppo della sua persona, sia la sua effettiva e piena partecipazione al mondo del lavoro.
La protezione contro le molestie connesse al sesso o a connotazione sessuali così come la protezione contro ogni forma di discriminazione, non dovrebbero essere considerate una vera e propria protezione quanto un formidabile strumento di emancipazione delle donne e, più in generale, dei lavoratori. I divieti di discriminare e di molestare non rappresentano una limitazione imposta in modo miope alla presunta libertà delle persone (lavoratori e lavoratrici in particolare) di accettare condizioni di lavoro qualsivoglia, e ai soggetti più deboli di competere sul mercato mettendo sul piatto della bilancia la loro accettazione di deteriori condizioni di lavoro, ma garantiscono invece il rispetto della dignità della persona e della sua libertà di lavorare.
Se la tutela antidiscriminatoria è un lusso, essa è un lusso doveroso e irrinunciabile che dobbiamo poterci permettere nella costruzione di un diritto attento alle «diverse differenze» delle persone e al rispetto della loro dignità, nonché di una democrazia civile ed evoluta che si fondi sul rispetto del principio di eguaglianza.

 

LAVORO NOTTURNO

Il nostro ordinamento vieta il lavoro notturno soltanto per i fanciulli e gli adolescenti, per gli apprendisti, per le lavoratrici madri nel periodo che va dall’accertamento dello stato di gravidanza fino a un anno di età del bambino, e parzialmente per gli addetti alla «produzione del pane e delle pasticcerie». Il potere di attribuzione di un lavoro notturno al personale femminile è assegnato, sia pure con una serie di precauzioni, al datore di lavoro, nell’ambito del potere di organizzazione dell’impresa. Ampiamente consentito il lavoro notturno, esso è tuttavia oggetto di una disciplina assai articolata, volta a prevenire i disturbi che esso può provocare agli organismi che lo sopportano male: poiché è ormai acquisito che vi sono persone cui il lavorare di notte causa disturbi neurovegetativi anche gravi e persone che invece non ne soffrono, la legge mira a garantire che, nella misura del ragionevolmente possibile, al lavoro notturno siano adibite, ove necessario, soltanto queste ultime.
Maria Vittoria Ballestrero afferma che dalla nuova disciplina del lavoro notturno emerge il quadro, non certo rassicurante, di un notevole aumento della flessibilità dell’orario di lavoro a vantaggio del datore di lavoro, che può andare a scapito invece della salute e della sicurezza dei lavoratori, il cui livello di tutela subisce un non indifferente indebolimento. Si può dire allora, e in conclusione, che con la riforma della disciplina del lavoro notturno le donne abbiano guadagnato qualcosa? Senz’altro le donne hanno guadagnato la possibilità di lavorare di notte, che in passato era loro preclusa; ma se da questo sia derivato un guadagno quanto a miglioramento delle loro condizioni di lavoro resta dubbio: l’impossibilità di rifiutare il turno di notte in tutti i casi, e sono tanti, in cui la loro specifica situazione non è presa in considerazione dalla legge può nei fatti rendere molto amara la conquista del diritto alla parità di trattamento con gli uomini.

DIRITTO ALLA MATERNITÀ E DIRITTO AL LAVORO

I principi costituzionali assicurano una particolare tutela alla donna lavoratrice per l’adempimento della sua funzione familiare e, in particolare, per il suo ruolo di madre. Franca Borgogelli osserva che le lavoratrici madri sono protette da una delle migliori legislazioni europee, ma incontrano gravi difficoltà nel conciliare maternità e lavoro extradomestico.
In un’area problematica nella quale le tradizionali antitesi che caratterizzano il lavoro femminile - parità e tutela, eguaglianza e differenza, ragioni dell’economia e diritti della persona - perdono ogni connotato teorico e ideologico per calarsi in una realtà carica di difficoltà, la costruzione di una disciplina giuridica specifica si dimostra non del tutto adeguata a soddisfare le esigenze sia delle lavoratrici sia dell’apparato produttivo, e ad assicurare una corretta regolazione dei rapporti socio-economici. È necessario allora, nel dar conto della disciplina positiva, riflettere anche sulle contraddizioni che ancora affliggono la situazione italiana.
Nell’ambito del lavoro subordinato viene tutelata la salute della madre e del bambino, è garantita la sicurezza economica e del posto di lavoro, si consente ad entrambi i genitori di assentarsi per la cura dei figli, si estendono le protezioni alle fattispecie di adozione e affidamento, ci si preoccupa della professionalità delle lavoratrici e delle esigenze organizzative di datori di lavoro; un sostegno, seppur parziale, è offerto anche al di fuori dei confini del lavoro subordinato. Eppure i dati statistici segnalano che l’Italia, se confrontata con i Paesi europei, si caratterizza per il basso tasso di fecondità e per l’elevata età media delle madri alla prima nascita: peraltro in presenza di tassi di occupazione femminile significativamente inferiori.
Anche la disciplina giuridica antidiscriminatoria - nel cui ambito è espressamente ricondotta la discriminazione attuata con riferimento alla maternità - ha progressivamente raffinato e rafforzato, in coerenza con il quadro disegnato dalla normativa e dalla giurisprudenza comunitarie, i propri istituti. Ai comandi e ai divieti si sono da tempo affiancati - ora tutti compendiati nel codice delle pari opportunità - gli interventi di sostegno e le azioni positive rivolte anche a favorire, mediante una diversa organizzazione delle condizioni e del tempo di lavoro, l’equilibrio tra responsabilità familiari e professionali.
Ma l’effettività di tali normative risulta debole, dal momento che l’Italia continua a distinguersi in Europa per tassi di occupazione femminile bassi e per un’ancora limitata presenza delle donne nelle posizioni professionali di vertice. Un dato da porre in relazione anche alla maternità, una condizione che non costituisce solo un ostacolo all’assunzione: se per le lavoratrici con un rapporto di lavoro stabile in imprese medio-grandi e nelle pubbliche amministrazioni può rappresentare un freno alle opportunità di carriera, per le occupate nelle piccole imprese e nell’artigianato, ma soprattutto per le titolari di contratti di lavoro cosiddetti atipici o non standard, la maternità comporta sovente la rinuncia all’attività lavorativa o la permanenza nella condizione di precarietà.
Significativa anche la rappresentazione sociale: in un Paese che attribuisce (o dichiara di attribuire) rilievo centrale alla famiglia, al rapporto madre-figlio, al bambino come oggetto di cura e protezione, negli ambienti lavorativi la maternità è prospettata come il principale problema posto dall’occupazione femminile e di conseguenza percepita dalle donne come un ostacolo alla propria realizzazione professionale.
È evidente il danno sociale - in termini di progressivo invecchiamento della popolazione e di perdita di risorse lavorative - prodotto da una tale situazione, che mantiene il nostro Paese lontano dagli standard e dagli obiettivi indicati dall’Unione europea. Pertanto l’analisi di una normativa che tutela la maternità ma non garantisce adeguatamente la sua effettiva compatibilità con lo svolgimento di un’attività lavorativa va condotta al fine di verificare in che misura le difficoltà siano da imputare a limiti dell’apparato legislativo piuttosto che a pregiudizi che impediscono di utilizzare le opportunità da questo offerte; senza dimenticare il peso negativo di un inadeguato e insufficiente sistema di servizi all’infanzia, a partire dalla carenza e dall’eccessiva onerosità degli asili nido.
Si tratta di valutare l’adeguatezza del modello regolativo adottato per realizzare la protezione legale. Questo modello infatti, nonostante i contrappesi delle riforme più recenti, resta imperniato sulla polarizzazione tra il diritto all’assenza della lavoratrice, per tutelarne la salute e consentirle la cura del figlio, e un regime di divieti e correlate sanzioni per imporre ai datori di sopportarne i costi: dunque delinea una situazione di rigidità in un contesto economico e produttivo che ha fatto della flessibilità la parola d’ordine per rispondere alle sfide della globalizzazione, e in un quadro normativo generale che ha introdotto notevoli dosi di flessibilità nella disciplina dei rapporti di lavoro.
Edoardo Ales afferma che la direttiva individua nello stato di gravidanza e puerperio una condizione che assume peculiare rilievo nella prospettiva dell’igiene e sicurezza dei luoghi di lavoro e che rende le lavoratrici che vi si trovino soggetti bisognosi di tutela specifica e aggiuntiva rispetto a quella generalmente garantita ai lavoratori e alle lavoratrici in tale prospettiva. Il datore di lavoro è, dunque, tenuto a una valutazione ad hoc dei rischi specifici che possono derivare dall’organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento alla condizione di gravidanza o di puerperio e, qualora essi vengano riscontrati, è obbligato ad adottare le misure necessarie affinché l’esposizione della lavoratrice al rischio sia evitata modificando temporaneamente le condizioni di lavoro e il suo orario di lavoro.
Se ciò non è possibile, il datore di lavoro assegnerà la lavoratrice ad altre mansioni ovvero la dispenserà dal lavoro per tutto il periodo di durata della condizione protetta; comunque non potrà sospendere dal lavoro senza retribuzione una lavoratrice in gravidanza ma abile al lavoro, in considerazione del fatto che ella non è in condizione di prestare l’attività richiesta.
Il volume, curato da Giulio Prosperetti, contiene scritti di notevole pregio che, ciascuno di per sé, può formare (e forse formerà) oggetto di un’autonoma trattazione.

 

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