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QUATTRO MANOVRE IN POCHI MESI MA I DUBBI RESTANO E SE NE PROFILA UNA QUINTA

di GIORGIO BENVENUTO, presidente della fondazione Bruno Buozzi

In pochi mesi il Governo ha approvato quattro manovre per raddrizzare i conti pubblici. All’orizzonte se ne profila un’altra, la quinta. E non si sa se sarà l’ultima. È questo lo scenario nel quale si è sviluppata e si sviluppa la politica economica e sociale della maggioranza. Il Paese ha assistito attonito all’evolversi dei comportamenti politici e sociali del Governo. Si è passati da un ottimismo imprudente («I conti sono in ordine, l’Italia non ha bisogno di misure anticrisi») a una parziale ammissione delle difficoltà di bilancio («È il contagio della crisi che importiamo dall’Europa»).
Si sono così improvvisati provvedimenti che, maldestramente, rinviano le decisioni alla prossima legislatura. Dinanzi alle contestazioni dei mercati e dell’Europa si sono così dovuti anticipare con due successivi decreti già al 2011 gli effetti della manovra sulla stabilità dei conti pubblici. Ci si è mossi senza una strategia, con casualità, con contraddizioni. Si sono preannunciati provvedimenti che poi per la controspinta degli interessi corporativi sono stati modificati o addirittura ritirati. Il risultato è dinanzi agli occhi di tutti. È preannunciata una nuova manovra. Si dice: «È per la crescita». Ma i dubbi restano e si rafforzano.
Vediamo. Allo stato attuale la somma degli interventi previsti per raddrizzare i conti pubblici non consente all’Italia di ripartire. La sprofonda anzi nella recessione. Non ci sono, insomma, provvedimenti che possano favorire la crescita: se il prodotto interno aumenterà nei prossimi anni in misura millimetrica, non si produrrà ricchezza e si dovrà fronteggiare un mix preoccupante di disoccupazione ed inflazione. Secondo le previsioni più recenti della Confindustria, il prodotto interno lordo che era a più 1,3 per cento nel 2010, scenderà allo 0,7 in più nel 2011, e appena allo 0,2 in più nel 2012.
Le manovre hanno gelato la ripresa. In Spagna, Germania, Polonia, Francia e Olanda ci si attesterà a dei livelli di crescita dell’1,5-2,0 per cento. È l’effetto dell’aumento della pressione fiscale (42,6 per cento nel 2010; 42,8 nel 2011; 44,1 nel 2012) che colloca l’Italia al terzo posto per tasse pagate, dietro la Svezia ma davanti a tutti gli altri Paesi europei. Battiamo ogni record. Romano Prodi aveva portato la pressione fiscale nel 1997 al 43,7 per cento. Aveva però centrato l’obiettivo dell’ingresso in Europa.
L’aumento delle tasse così consistente (rappresenta più dei due terzi degli interventi prefigurati nelle quattro manovre), è particolarmente iniquo. Colpisce fortemente i redditi più bassi e la famiglia; rende impossibile alle imprese manifatturiere di ristrutturarsi, di impegnarsi nella ricerca, di mantenersi competitive con quelle dei Paesi concorrenti. Allarmante il quadro che si profila sul terreno occupazionale. Sarà un’impresa recuperare la lenta emorragia di posti di lavoro (la Confindustria prevede nei prossimi due anni 729 mila occupati in meno).
Particolarmente grave è la situazione per i giovani. Secondo le più recenti statistiche, la disoccupazione giovanile salirà dal 25,4 per cento del 2009 al 28,9 nel 2011: in particolare il 46,7 per cento (quasi uno su due) dei giovani tra i 15 e i 24 anni ha un impiego temporaneo. Nel 1994 erano appena il 16,7 per cento. Drammatica la situazione dell’occupazione femminile. Sono al lavoro il 46,3 per cento delle donne. Ad essere colpite per mancanza di impiego sono soprattutto le giovani tra i 15 e i 24 anni: il tasso di disoccupazione è del 29,4 per cento. Ed è tra le donne che si concentra la percentuale maggiore di lavoro a tempo parziale, cioè meno di 30 ore settimanali, pari al 76,9 per cento.
Ancora. Rispetto al resto dei Paesi europei gli italiani diventano più poveri. Ad esempio, in dieci anni, fatta 100 la media europea, l’Italia passa da 117 a 100, la Germania rimane a 118, la Francia scende da 115 a 107, la Spagna cresce da 97 a 101, il Regno Unito scende da 119 a 114. Sottolinea la Confindustria che il prodotto interno pro-capite sarà nel 2012 del 6,9 per cento inferiore a quello del 2007, cioè con una rincorsa all’indietro ai livelli del 1999.
Il benessere perduto riguarda soprattutto il mondo del lavoro dipendente. I salari e gli stipendi sono sempre più miseri. Il 2010 fotografa questa situazione calcolando i salari medi e le ore lavorate: Italia 32.657 dollari di guadagno medio per 1.778 ore lavorate; Germania 38.325 (1.419); Francia 38.124 (1.559); Regno Unito 44.008 (1.647); Stati Uniti 52.607 (1.778). I lavoratori italiani guadagnano poco ma lavorano tanto. L’Ocse ha commentato così queste statistiche: «Lo shock negativo sui redditi da lavoro subito da non pochi italiani durante la crisi si è probabilmente tradotto in una crescita del rischio di povertà e di difficoltà finanziarie, anche se l’aumento massiccio di risorse per la cassa integrazione guadagni ha contribuito significativamente a limitare il numero di lavoratori affetti da tali contraccolpi».
All’impoverimento degli italiani ha contribuito la corsa dei prezzi nel 2011. Dal 2,1 per cento di gennaio l’inflazione è salita al 2,8. È il livello più alto dall’ottobre 2008. Un gruppo di associazioni dei consumatori (Adoc, Unione Nazionale Consumatori, Codacons, Movimento difesa del cittadino) ha calcolato che dal 2001 al 2011 i rincari di prezzi e tariffe, insieme alla crisi e alle manovre per la correzione del deficit pubblico, hanno prodotto una perdita pari a 10.850 euro a famiglia. Per il prossimo anno l’effetto delle ultime manovre del Governo si tradurrà in una stangata di 1.500 euro in media per ogni famiglia.
L’ultima manovra del Governo aggrava la situazione del Paese. L’aumento dell’aliquota Iva al 21 per cento ha effetti inflattivi e recessivi; l’introduzione di una norma che rende possibili i licenziamenti è l’esatto contrario di un’azione necessaria per aumentare e qualificare l’occupazione; l’intervento sui redditi è praticamente simbolico e non si capisce perché è limitato ai pensionati e ai dipendenti pubblici; le misure contro l’evasione fiscale sono state in parte depotenziate.
I tagli ai costi della politica (riduzione dei componenti delle assemblee elettive; soppressione delle Province; diminuzione delle municipalizzate che sono diventate una specie di poltronificio; semplificazione ed efficienza della struttura dello Stato) sono modestissimi. Molti sono inesistenti, altri sono stati rinviati ad un futuro indefinibile e improbabile. Alcune misure fiscali sono addirittura beffarde. Le Province che dovrebbero essere soppresse, ad esempio, beneficeranno dell’aumento dell’addizionale sulla RCA dal 12,5 al 16 per cento, e di un incremento dell’IPT, l’imposta provinciale di trascrizione che diverrà proporzionale secondo la potenza delle automobili.
Rimangono sullo sfondo ulteriori inasprimenti fiscali. È il caso della riduzione dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale (le cosiddette tax expenditures) destinato a produrre i primi effetti già nel 2013. Si tratta di un contributo imponente. Almeno 20 miliardi a regime (nel 2014): il 42 per cento dell’intera manovra di correzione dei conti pubblici; il 70 per cento della componente relativa alle maggiori entrate. È ormai norma di legge l’attuazione di tagli lineari e automatici alle agevolazioni fiscali in misura pari al 5 per cento per il 2013 e al 20 per cento a decorrere dal 2014, se entro il 30 settembre 2013 non saranno adottati provvedimenti legislativi di riordino della spesa sociale e dei regimi di esenzione, esclusione e favore fiscale tali da determinare effetti positivi, ai fini dell’indebitamento netto, non inferiori a 4 miliardi di euro per il 2013 e a 20 miliardi a decorrere dal 2014.
È uno sbocco normativo che rappresenta un profondo cambiamento. Inizialmente l’operazione di ristrutturazione delle tax expenditures era finalizzata, assieme all’aumento dell’Iva, a lasciare spazio, con la legge di attuazione della delega fiscale, solo ad interventi di sostegno per la ricerca, per la natalità, per il lavoro. Come è già avvenuto per il federalismo fiscale, la revisione delle agevolazioni fiscali non concorre più al finanziamento della riforma fiscale, ma è finalizzata a contribuire in toto alla correzione dei conti pubblici.
Non ci sono state reazioni a questo brusco cambiamento. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti è abilissimo: indica obiettivi che poi nega, anzi rinnega, quando dalle parole passa ai fatti. È la stessa furbizia che ha già esercitato nell’attuazione del federalismo fiscale che doveva diminuire le tasse, colpire gli sprechi e far guadagnare a tutti, al Nord, al Centro e al Sud, e invece ha proceduto, con il meccanismo delle addizionali, a colpire i redditi più bassi, le famiglie, le piccole e medie aziende.
Tremonti sollecita nell’immaginario collettivo reazioni simili a quelle suscitate dall’evasione fiscale. Salvatore Tutino su Il Cerino ne sottolinea gli aspetti: «Un giudizio negativo che dipinge le agevolazioni come indebiti favori da ridimensionare, con significativi benefici per la finanza pubblica; con margini di incertezza che circondano l’entità e i destinatari dell’intervento».
Insomma tutti contenti e tutti canzonati. Le agevolazioni, le esenzioni e i regimi agevolati, se li si va ad analizzare, sono in prevalenza a favore delle persone fisiche (casa, famiglia; spese mediche, detrazioni per redditi da lavoro dipendente, autonomo e pensioni; previdenza, TFR tassato in maniera separata). Riguardano poco le imprese (si tratta del cuneo fiscale). Si riferiscono anche per 38 miliardi alle aliquote ridotte dell’Iva del 10 e del 4 per cento. Se, come è prevedibile, non si farà la riforma fiscale e non si determineranno risparmi, diverrà inevitabile nei prossimi due anni un intervento che graverà enormemente sui redditi dei pensionati, dei lavoratori dipendenti, delle imprese.
Insomma uno scenario preoccupante. Senza via di uscita. Confuso e contraddittorio. È il risultato di una politica economica che in tre anni non ha realizzato riforme. Non siamo dinanzi a una crisi congiunturale. Siamo in una nuova situazione. La crisi è strutturale. Comporta cambiamenti e riforme. Necessita di una forte coesione sociale. È stata abbandonata la politica di concertazione e si è contagiato il mondo economico trasferendovi la rottura e la rissa che porta all’impotenza. Occorre individuare una via di uscita.
Ci vuole competenza, determinazione, consenso. L’Italia è chiamata a una sfida per tornare a crescere. È il momento di uscire dalla rassegnazione e dalla paura. Ci vuole autorevolezza e credibilità. L’obiettivo della crescita qualitativa e quantitativa deve essere proposto e imposto al mondo politico e a quello sociale. I saggi appelli che a più riprese il Presidente della Repubblica indirizza al Paese devono trovare, oltre all’ascolto, anche la volontà di costruire le riforme. Il Paese va governato. È fondamentale riaprire un confronto unitario con le forze economiche e sociali. In altri momenti la coesione nazionale e l’indicazione di obiettivi per i quali si chiedevano sacrifici con equità hanno permesso all’Italia di farcela. Il Paese non può andare avanti in una situazione confusa, quasi torbida. «Il medico pietoso fa la piaga dolorosa», dice un vecchio proverbio.

Tags: confindustria giovani Giorgio Benvenuto disoccupazione tfr lavoratori fisco Novembre 2011

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