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TASSE, TARIFFE, RINCARI, SACRIFICI. CHE OFFRE IN CAMBIO LA CLASSE POLITICA?

Giorgio Benvenuto fondazione Buozzi

di GIORGIO BENVENUTO, presidente della fondazione Bruno Buozzi

La manovra economica del Governo è stata approvata in pochi giorni, senza un dibattito in Parlamento, senza il coinvolgimento delle parti sociali, senza un’analisi attenta delle misure per risanare i conti pubblici. È stata una scelta obbligata. Eravamo con le spalle al muro. Il nostro destino appariva segnato: stavamo per finire in compagnia della Grecia, del Portogallo, dell’Irlanda. Bene ha fatto il presidente della Repubblica a richiamare tutti a uno sforzo di consapevole responsabilità per approvare, comunque, la manovra e per arrestare, da subito, la speculazione finanziaria. Ora, rebus sic stantibus, si possono e si devono svolgere alcune considerazioni.

La manovra economica è tardiva, sbagliata, iniqua. Vediamo. Tardiva perché si sono persi tre anni. Il Paese è stato fermo. Si è teorizzato che i conti dell’Italia erano migliori degli altri, che bisognava aspettare i venti favorevoli della ripresa a livello europeo, che ci si sarebbe potuti agganciare alla Germania quando avrebbe ripreso la crescita. Sappiamo come è finita. La locomotiva tedesca è ripartita (eccome!) e noi siamo rimasti sul binario morto. Se si fosse prestato ascolto ai suggerimenti delle parti sociali, alle proposte politiche, alle spinte delle istituzioni, avremmo potuto cogliere il momento favorevole già negli anni passati realizzando investimenti selettivi ed approfittando del basso costo dell’indebitamento. Così non è stato e la crisi è esplosa repentina. Ha compromesso la competitività e la tenuta del sistema Paese.

La manovra è anche sbagliata. È contro la crescita. L’entità delle misure economiche è assicurata per il 40 per cento da tagli della spesa e per il 60 per cento da nuove tasse. L’affermazione «Non metteremo le mani nelle tasche degli italiani» è stata clamorosamente smentita. Altro che sgravi, fioccano vecchie e nuove imposte. Il federalismo fiscale sta diventando un meccanismo infernale di moltiplicazione delle tasse. Il ridimensionamento dei trasferimenti agli enti locali è accompagnato da un generale incremento delle addizionali all’Irpef, all’Irap, alla Rca, alle tariffe dell’energia, ai prodotti petroliferi. L’addizionale, non va dimenticato, è un’imposta iniqua. È proporzionale, non è progressiva. Incide di più sui redditi medi e su quelli bassi.

Le nuove tasse non si fermano qui. C’è l’aumento sul risparmio (aumento del bollo per i depositi conto titoli); c’è l’eliminazione del «forfettone» per 500 mila soggetti (prima pagavano un’unica imposta del 20 per cento se avevano un volume di affari fino a 30 mila euro); ci sono nuovi incredibili balzelli (la tassa sui divorzi, quella sulle separazioni, quella sulle controversie di lavoro); c’è la riduzione della rivalutazione delle pensioni; c’è la revisione peggiorativa delle pensioni di reversibilità. C’è ancora in prospettiva la diminuzione lineare di 20 miliardi - entro due anni del 5 per cento e del 20 per cento - di tutte le agevolazioni fiscali, le deduzioni e le detrazioni particolarmente favorevoli per i redditi medio bassi, che oggi sono previste per i redditi sulla famiglia, sulla casa, sul risparmio, sulla produzione e lavoro, sulla salute e così via. Ritorna dopo 11 anni persino l’Irpef sulla prima casa.

La manovra è infine iniqua perché non incide sulla spesa pubblica - gli unici tagli riguardano le pensioni, la sanità con la reintroduzione del ticket e i pubblici dipendenti - e grava completamente sui «soliti noti». È stato calcolato che la manovra mette pesantemente le mani nelle tasche delle famiglie. Pesa sui redditi bassi il triplo rispetto a quelli ricchi: gli aggravi per i ceti meno abbienti sono del 12-13 per cento, quelli degli altri intorno al 5 per cento. Le associazioni dei consumatori hanno calcolato che a regime vi saranno aggravi per ogni famiglia di 1.700 euro in più, da sommare ai quasi 1.500 euro per gli aumenti di prezzi e tariffe. Si tratta di un salasso di 320 euro a persona che comporta una drastica riduzione del potere di acquisto e una contrazione dei consumi tra il 7 e l’8 per cento. Uno studio elaborato dalla UIL sul fisco e sulla giungla dei rincari previsti dalla manovra calcola 647 euro in più a testa in cinque anni.

Sul fronte della riduzione della spesa pubblica, con particolare riferimento ai costi della politica, vi sono indicazioni generiche, per lo più rinviate a futura memoria alla prossima legislatura; l’unico taglio previsto è di 17 milioni di euro. Sin qui le considerazioni «destruens». Vediamo ora invece la parte «construens». Il debito pubblico è decuplicato in 30 anni. È pari a 2 mila miliardi di euro. Pensare che lo si possa abbattere senza crescita, azzerando il deficit, è un’ipotesi velleitaria. Occorre invece realizzare un vero e proprio piano per la rinascita del Paese. È necessario che si riapra in tempi brevi un confronto rapido, propositivo e conclusivo tra le istituzioni, le parti sociali, il Parlamento.

Viviamo una fase delicata, simile a quella della seconda metà degli anni 70, quella del Governo di solidarietà nazionale e della politica dei redditi sostanziatasi con la svolta dei sindacati all’Eur; e a quella dell’inizio degli anni 90, e della politica dei redditi con l’allora presidente del Consiglio Carlo A. Ciampi, della riforma delle pensioni con il presidente Lamberto Dini, dell’ingresso in Europa con il presidente Romano Prodi. Il Paese deve essere coinvolto in un progetto di risanamento e di sviluppo. Per vincere la sfida della globalizzazione occorre convincere ed avvincere gli italiani con un radicale cambiamento della politica capace di rimettere in campo i valori e gli ideali.

La ritrovata unità tra CGIL, CISL e UIL, la tenuta della Confindustria, le spinte di partecipazione che vengono in maniera confusa e contraddittoria dalla società vanno canalizzate e indirizzate verso obiettivi selezionati di crescita che abbiano al primo posto il futuro dei giovani. Bisogna, è vero, ridurre il debito pubblico. Lo scenario che si profila è preoccupante. Andiamo incontro a un inevitabile aumento dei tassi di interesse in una situazione nella quale il debito pubblico è coperto in prevalenza, a differenza dal passato, da investitori internazionali. Va semplificato il sistema Paese: troppi centri di decisione - Circoscrizioni, Comuni, Città metropolitane, Comunità montane, Province, Regioni -, troppe Authority, troppa burocrazia, poca giustizia civile e amministrativa.

Come si può pensare di attrarre investimenti stranieri nel nostro Paese quando da tempo assistiamo a una lenta emorragia di aziende e di giovani che vanno all’estero per trovare condizioni favorevoli di competitività e per avere riconosciuta la propria professionalità? Il fardello degli adempimenti della burocrazia, delle tasse, dei costi dell’energia, dell’inefficienza della giustizia civile sono tra le cause del ristagno, dell’immobilismo, del declino del nostro Paese. Particolarmente agghiacciante è la questione fiscale. Quando la casa brucia, l’acqua si prende dove è più facile trovarla. È vero. Ma si è esagerato. E poi è stato inutile: la casa continua a bruciare. Occorre convincersi che la pressione fiscale nel nostro Paese è insostenibile, il total tax-rate è al 68,6 per cento: per le imposte l’Italia è al vertice della classifica mondiale.

Dal 2006 al 2009 si sono ripetute in maniera stucchevole le promesse di riduzione del prelievo fiscale. Non è stato così, ed oggi siamo a un mix intollerabile e iniquo che miscela gli aumenti di imposta con incredibili balzelli e con frequenti tasse occulte. E poi c’è una sorta di rassegnazione. Ogni volta che si deve affrontare il problema del debito pubblico, a destra, al centro, a sinistra si finisce per rinunciare a tagliare la spesa - emblematica la vicenda della mancata eliminazione delle Province - e si imbocca la strada dell’incremento fiscale. Sembra che funzioni una sorta di richiamo della foresta: prevale l’istinto per tutti di vestire i panni del gabelliere. Ognuno si esercita nel proporre nuove tasse: il governante di turno le recepisce e le aggiunge alle vecchie. Insomma, come tutti i salmi finiscono in gloria, così tutte le riforme finiscono in nuove tasse.

Non esistono oggi le condizioni per ridurre le imposte. Ma è puro autolesionismo aumentarle. Si può e si deve ridistribuire il carico fiscale. Meno tasse sul lavoro, sulle famiglie, sui soggetti Irpef. Più imposte sulla finanza. Più attenzione ad un neocapitalismo che non ha fabbriche e lavoratori perché investe nella speculazione finanziaria e nelle bolle immobiliari. E non mollare sull’azione di contrasto all’elusione e all’evasione fiscale. La crescita può esserci solo se il fisco sarà intelligente; se sarà semplice; se sarà capace di intervenire selettivamente con agevolazioni indirizzate all’occupazione e alla formazione dei giovani. Ci vuole, insomma, una svolta culturale. Il terreno da esplorare per trovare nuove risorse è quello della riduzione della spesa pubblica.

Nel Paese si va diffondendo una vera e propria ribellione di fronte a un sistema (la UIL ha stimato che vivono e prosperano di politica 1,3 milioni di persone) che sembra caratterizzarsi solo per i suoi privilegi. È evidente che non si può generalizzare. È certo il rischio di scadere nella demagogia e nell’antiparlamentarismo, anticamere di svolte liberticide. È sbagliato sognare un Paese che si liberi in blocco dell’intero ceto politico, rifiutando la politica e i partiti in quanto tali. Ma di fronte al crescere della protesta non si può nascondere, come fanno gli struzzi, la testa sotto la sabbia. La dimensione che certi privilegi hanno assunto e il rifiuto di ridurli possono confermare la convinzione che la «casta» sia un nuovo ordine privilegiato.

Qualche commentatore ha paragonato la situazione di oggi a quella che causò la rivoluzione francese; Sieyès paragonò gli aristocratici e il clero a una zavorra dalla quale la Francia si doveva liberare. Ecco perché la politica deve capire l’indignazione che sta dilagando nel Paese; deve anche fare, e non solo chiedere sacrifici per gli altri. La credibilità delle istituzioni verrebbe così assicurata e avrebbe un ulteriore giovamento se si mettesse mano a una riforma elettorale che consenta di ridare agli elettori la possibilità di scegliere i propri rappresentanti. Per un piano di rinascita e per la ripresa dello sviluppo occorrono risorse, ma è necessaria l’autorevolezza di chi ci governa. È tempo che si ripropongano i valori degli ideali e della solidarietà. Ci attende un futuro difficile; i problemi da risolvere sono ardui; la solidarietà e la coesione sono necessarie. Il Paese è vivo e vivace, non è rassegnato, vuole la svolta e il cambiamento. La politica deve rinnovarsi per chiamare tutti a uno sforzo corale capace di realizzare un vero e proprio piano di rinascita economica e sociale dell’Italia.

Tags: Giorgio Benvenuto politica Settembre 2011

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