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TELEVISIONE. IL RUOLO (E LA COLPA) CHE HA LA TV DELLA CRISI SOCIALE E CULTURALE DEL PAESE

di LUCA BORGOMEO

presidente AIART, Associazione Spettatori onlus

 

È sempre più grave e preoccupante la crisi del nostro Paese. La situazione economica giorno dopo giorno peggiora e mette in evidenza i dati negativi, strutturali del nostro sistema economico; la voragine del debito pubblico, la disoccupazione, il calo delle attività produttive, la gracilità del nostro settore industriale, il crescente divario Nord-Sud, l’inadeguatezza delle infrastrutture, la grave dipendenza energetica, l’infiltrazione della criminalità organizzata in tanti importanti settori della nostra economia.
Questa difficile situazione si sta ulteriormente aggravando sotto i colpi di una crisi internazionale che sta coinvolgendo l’intera economia mondiale e in particolare quella degli Stati Uniti e dei Paesi europei. È del tutto evidente che il sistema Italia, proprio per la sua difficile situazione economica, risente, più di tanti altri Paesi dell’area europea, della crisi e ha pertanto un compito più arduo e più difficile nel contrastarla e superarla. Dal quadro istituzionale e politico non sono giunti, finora, segnali incoraggianti ma il solito e sconcertante scenario.
Il Governo e i partiti della maggioranza tendono a minimizzare la gravità della crisi, a spargere a piene mani ottimismo, ad adottare decisioni volte più ad acquisire effimeri consensi che a risolvere i problemi; l’opposizione - divisa nel proprio interno, indebolita dalla mancanza di un progetto politico, logorata dalla contestazione dell’estrema sinistra peraltro non presente in Parlamento - non riesce a fare proposte concrete e di ampio respiro, limitandosi ad una sterile contrapposizione a quasi tutte le scelte del Governo.
E intanto la crisi morde e, giorno dopo giorno, diventa più difficile la vita per milioni di famiglie alle prese con grandi difficoltà economiche, con la precarietà o la mancanza di lavoro, specialmente per i giovani e nel Mezzogiorno. Il dato più allarmante è la crescita continua del divario tra chi «sta bene» e chi è ormai povero. La crescita delle disuguaglianze sociali è, purtroppo, un dato oggettivo ed è destinata, per effetto della crisi economica, ad accentuarsi, sanzionando in tal modo il fallimento della politica. Quella con la «P» maiuscola.
Ma la crisi economica ha aspetti meno gravi della crisi sociale, culturale ed etica del nostro Paese. Forse quella economica è più avvertita, perché condiziona quotidianamente la vita delle persone, ma quella sociale è di gran lunga più grave e pericolosa, perché destinata a condizionare il futuro dell’Italia. È difficile tracciarne un quadro compiuto e non farsi emotivamente influenzare da drammatici fatti di cronaca, impastati da droga, violenza, razzismo, delinquenza giovanile, disprezzo della vita. Ma basta una riflessione sullo stato della scuola, dell’Università, della ricerca; delle strutture sanitarie e assistenziali, della giustizia, della crisi dei partiti (sempre meno canali di partecipazione democratica dei cittadini), dell’illegalità diffusa, del dilagare della corruzione, del venir meno dei fondamenti di quel «patto sociale» che è, o meglio, dovrebbe essere, alla base della convivenza civile.
Si ha la sensazione che il Paese sia «rassegnato» a subire una sorta di decadenza sociale e culturale, a vivere una stagione di regresso, a perdere sul piano internazionale quell’autorevolezza e quel prestigio acquisiti con una straordinaria storia di cultura, arte, scienza, di conquiste sociali, di tradizioni etiche e democratiche. Al fondo ci sono, forse, la mancanza di una sorta di identità nazionale, l’affievolirsi di un senso di appartenenza, il venir meno di una coscienza comunitaria, lo sgretolarsi di molti valori fondanti del «patto sociale» che lega un popolo e che, pur se solennemente sanciti nella Costituzione, sembrano poco avvertiti e condivisi, soprattutto dalle nuove generazioni.
Questa riflessione richiama alla mente il monito di Aldo Moro: «Questo Paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non crescerà un nuovo senso del dovere». A trent’anni dalla sua scomparsa, queste parole conservano, purtroppo, una grande valenza etica e politica. Hanno un senso profetico. Quali le cause di questa crisi sociale, culturale ed etica? Sono molteplici e vengono spesso indicate, analizzate, spiegate nell’intento di favorire la definizione di proposte capaci di affrontare, contrastare e superare la grave situazione.
Ma, spesso, fra le tante cause della crisi non viene indicata quella che è tra le più rilevanti: l’influenza negativa dei mass-media e in particolare della televisione, presente in tutte le case, e per molti cittadini unico mezzo di informazione e, spesso, di intrattenimento. Il «boom» di ascolti (Ma saranno veri i dati di ascolto? Ne dubitiamo) di trasmissioni-spazzatura come il Grande Fratello dà un senso di disagio, indigna, avvilisce, preoccupa.
L’influenza della tv sulla vita di tutti gli italiani non è contestata da nessuno, anche se di diverso tenore sono i giudizi. Non mancano quelli «positivi»: la tv favorisce lo sviluppo sociale, contribuisce alla crescita culturale, ha un ruolo «unificante» delle realtà territoriali e sociali del Paese, svolge un fondamentale ruolo in una società democratica. Non è da escludere che anche la nostra tv, quella pubblica e quella privata (cioè Rai e Mediaset) contribuisca, seppur in minima parte, a raggiungere questi obiettivi. Ma un esame attento e oggettivo del nostro sistema televisivo e dei programmi (informazione, cultura, spettacolo e intrattenimento) smentisce quanti per motivi economici, politici, pseudo-culturali e per interessi di parte, sostengono che la tv «fa bene al Paese».
La nostra tv soffre di un male incurabile. È l’unica tv dei Paesi democratici che opera in regime di sostanziale monopolio. Non c’è concorrenza. La prova evidente di questa affermazione è sotto gli occhi di tutti; basta accendere la tv e, dopo aver fatto inutilmente zapping, rendersi conto che non c’è differenza alcuna tra la tv pubblica (la Rai) e quella privata (sostanzialmente Mediaset).
Stessi programmi, stessi messaggi, stesso affannoso ricorso all’audience (anche nei telegiornali) con il sensazionalismo, la morbosità, la durezza delle immagini e delle parole, la violenza, la trasgressività, la volgarità, l’insipienza e l’ossessiva esaltazione del successo, della bellezza (a volte senza veli), del danaro, del potere, del sesso, del gioco, dell’effimero, delle apparenze. L’importante è far crescere gli ascolti e, quindi, la pubblicità, anch’essa omologata, in generale, ai predetti «canoni» televisivi.
Che questo modo di fare televisione sia negativo, soprattutto per i bambini e i giovani, non interessa né alla Rai né, tanto meno, alla tv privata. E, a sentir loro, non è affatto vero che la tv sia causa del degrado del Paese. Con sprezzo del buon senso e di ogni ragionamento logico, osano sostenere che «questa è la tv che vogliono gli italiani» e che «la tv è lo specchio della realtà italiana»; quest’ultima «tesi» solleva inquietanti dubbi sull’onestà mentale di chi la sostiene senza guardare la realtà quotidiana.
Il sistema politico e istituzionale registra passivamente questa nefasta influenza della tv sulla comunità e - presidiando peraltro legittimamente un sistema radiotelevisivo che, oggettivamente, non è degno di un Paese evoluto, civile e democratico - contrasta ogni tendenza a superare il monopolio Rai-Mediaset, a ristabilire quindi la concorrenza tra le reti, a recuperare il ruolo di servizio pubblico della Rai, a sottrarre la tv alla dittatura dell’Auditel, a svincolarla dalla morsa opprimente dei partiti politici.
Del degrado della tv italiana sono convinti tutti i telespettatori, confortati purtroppo da dati incontestabili. Nella classifica sulla libertà di stampa nel mondo, compilata da Reporters Sans Frontieres, l’Italia è al trentacinquesimo posto dietro quasi tutti i Paesi europei e dietro a Tobago, Costarica, Giamaica, Trinidad, Namibia, Taiwan. E nella classifica del Global Free Freedom l’Italia è collocata al sessantunesimo posto. Dati molto preoccupanti e sconcertanti, soprattutto se si pensa che il nostro Paese è il quinto mercato nel mondo per fatturato pro-capite di audiovisivi.
Ad un sistema televisivo così degradato, segnato dalla mancanza di una vera concorrenza, dalla commistione pubblico-privato, dal prevalere di logiche economiche-mercantili su quelle socio-culturali, è difficile, oltre che inutile, chiedere che assolva a funzioni «positive» affermando valori di giustizia, di tolleranza, di rispetto delle diversità, di solidarietà, di democrazia, di consolidamento del patto sociale che lega i cittadini alle istituzioni e li fa sentire partecipi della vita di una comunità. Una tv, cioè, che educhi al vero, al giusto, al bello. No, al nostro sistema televisivo, per come è ridotto, non ha senso fare richieste così impegnative. Ripieghiamo, pertanto, su una linea difensiva e chiediamo con forza - sarebbe più giusto dire, pretendiamo - che la tv non faccia male al Paese, agli italiani, ai giovani e ai minori in particolare.
È una linea difensiva che tende a denunciare i pericoli e i danni e a limitarne gli effetti e, nel contempo, a far crescere nei telespettatori la consapevolezza dei danni che la tv può arrecare, soprattutto ai minori, e la conseguente responsabilizzazione nell’uso vigile, critico, parsimonioso della tv. Ma senza un ruolo attivo degli utenti e senza una corale presa di coscienza che il declino socioculturale dell’Italia è anche causato dalla tv, è difficile sperare che questa cambi e possa diventare un formidabile strumento al servizio di una società libera e democratica

Tags: televisione Marzo 2009 Luca Borgomeo

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