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GAS. L'ITALIA È VULNERABILE, ANCORA NO AL NUCLEARE?

gas

La casa al numero 302 bis di Bolšaja Sadovaja fino a poche settimane fa era una visita che i giornalisti moscoviti non mancavano di suggerire ai colleghi europei: ritenuta meta di satanisti segreti, Michail Bulgakov l’aveva indicata come il quartiere generale di Woland, protagonista del suo «Il maestro e Margherita»: in realtà vi abitava l’autore stesso. Dalla fine di dicembre tuttavia ai giornalisti occidentali in visita a Mosca viene più spesso proposta una gita di qualche chilometro per vedere un moderno grattacielo di vetro e cemento dalle linee snelle e armoniche che suggerisce un’immagine di ordinata potenza e viene considerato il reale centro di potere della Russia attuale, quasi un nuovo Cremlino: è la sede di Gazprom, società nata 12 anni fa per la commercializzazione del gas, la preziosa materia prima che come una valuta pregiata sostiene l’economia della Russia del presidente Vladimir Putin.

È da lì che il 13 dicembre scorso è stato emanato all’Ucraina dell’ostile Viktor Juščenko l’ordine inaspettato di rialzare il prezzo del gas dai 50 dollari per mille metri cubi ai 230 del prezzo di mercato, aprendo un immediato contenzioso tra i due Paesi culminato il 31 dicembre con la riduzione del 25 per cento delle forniture di gas alla stessa Europa. Uno tsunami energetico sul versante del gas, preferito nella produzione di energia come fonte pulita, meno inquinante del carbone, meno inquietante del nucleare ma, soprattutto, senza problemi di rifornimenti per la fitta rete di oltre 350 mila chilometri di gasdotti che lo trasporta dalle regioni più lontane della Siberia alla Gran Bretagna, ai Paesi Bassi, alla Francia, alla Germania, all’Italia.

Gazprom è il principale strumento del presidente Putin per la realizzazione di una precisa strategia politica nei confronti del mondo occidentale. L’ha detto esplicitamente il vicepresidente della società energetica russa Dmitrij Medvedev: «Negli ultimi due anni la nostra capitalizzazione di borsa è cresciuta quasi 4 volte, superando 115 miliardi di dollari. Tra qualche anno saremo nel club delle società che valgono 300 miliardi». Controllata dallo Stato e con due ministri nel consiglio di amministrazione presieduto dal vicepremier Medvedev, attualmente Gazprom dispone del 20 per cento del gas del pianeta e soddisfa il 30 per cento del fabbisogno europeo, che nel 2006 ammonterà a 151 miliardi di metri cubi, con un aumento del 4,1 per cento rispetto al 2005.

Dopo l’acquisto di Sibneft (Siberian Oil, cambierà nome in Gazpromneft) da parte di Roman Abramovič, la società è presente anche nel mercato del petrolio e si propone di coprire in breve tempo il 10 per cento di quello del gas negli Stati Uniti. Il primo assaggio di questo progetto da sviluppare entro il 2010 è rappresentato dall’attracco sulle coste americane di una nave che trasporta gas liquefatto del nuovo giacimento di Shtokman. È nel quadro di questa strategia globale che deve essere inquadrato il contenzioso con l’Ucraina: un momento tattico per garantirsi all’interno della CSI, Comunità degli Stati Indipendenti che componevano l’Urss, la tranquillità e la solidarietà necessarie per riacquistare nell’economia globale, attraverso il petrolio e il gas dei propri vasti giacimenti in buona parte ancora da sfruttare, la posizione di primo piano che l’Urss aveva in campo militare e politico, perduta con il crollo del muro di Berlino.

Il recente accordo stipulato, senza grande informazione esterna, tra la Cina e l’India in tema di petrolio ha dato un’accelerata all’attuazione della strategia di Putin. L’indiana ONGC, Oil and Natural Gas Corporation, e la cinese CNPC, China National Petroleum Corporation, si sono impegnate a scambiare preventivamente con i ministeri competenti tutte le informazioni utili per favorire la collaborazione in materia di acquisizioni di giacimenti, di ricerca, trasporto e distribuzione di energia.

È un accordo importante per i due Paesi in forte crescita economica, la Cina con un aumento annuo di oltre il 10 per cento del prodotto interno, l’India con un aumento del 7 per cento; ma per il mondo occidentale questo rappresenta la comparsa sul mercato energetico di un nuovo concorrente dalle impreviste potenzialità: i cinesi hanno un’esperienza petrolifera rilevante, coprono con la produzione interna metà del loro fabbisogno, mentre l’India dipende dall’estero ed è stata battuta dai cinesi in ogni gara per l’acquisizione di nuovi giacimenti. Tuttavia la sua partecipazione ha fatto alzare i prezzi, come è accaduto per i giacimenti in Angola, Nigeria, Equador, Kazakhstan.
La prima attuazione dell’accordo si è già avuta con l’acquisizione congiunta di un giacimento in Siria. Per l’Europa è stato un brusco risveglio dopo la notte di Capodanno, quando improvvisamente si è registrato un calo del 24 per cento dell’import di gas dalla Russia, leggere la mattina del 2 gennaio 2006 su un giornale poco incline al sensazionalismo come il francese Le Monde che era scoppiata la prima guerra del XXI secolo per il gas. Una guerra tra Russia e Ucraina, pochi l’hanno notato, dichiarata nel marzo 2005 quando l’Ucraina stessa propose alla Russia di rinunciare «al vecchio modello socialista» con prezzi e tariffe stabiliti con logiche politiche, e di passare nei loro rapporti commerciali nel campo del gas ai normali criteri di mercato.

Obiettivo di questa mossa era avviare trattative dirette con l’Europa, cliente per 24 miliardi di metri cubi all’anno della Gazprom che transita sul proprio territorio. L’8 giugno la replica Gazprom: fine dell’accordo di baratto, la compagnia ucraina Naftogaz paghi a livelli europei anche i 7,8 miliardi di metri cubi di gas stoccati nelle riserve sotterranee. Fino al 23 novembre schermaglie in crescendo da una parte e dall’altra con minacce di ridurre unilateralmente le consegne per recuperare le perdite del gas stoccato; proposta di Mosca per il pagamento in contanti del gas e per il transito; accuse all’Ucraina di pirateria sul transito e ultimatum di Mosca respinti duramente; Kiev chiede l’aumento del canone d’affitto della base navale di Sebastopoli in Crimea dove è all’ancora la flotta russa; Gazprom annuncia la chiusura del rubinetto per Kiev dal 1 gennaio, poi chiede un brusco rialzo del prezzo; Kiev propone la creazione di una società mista oppure un arbitrato internazionale, poi il 27 dicembre afferma il proprio diritto al 15 per cento del gas russo come diritto di transito.

Gli ultimi giorni di dicembre vedono l’intervento diretto di Putin che offre un prestito di 3,6 miliardi di dollari per facilitare il passaggio ai prezzi di mercato: Viktor Juščenko rifiuta. Il I gennaio la crisi. Gazprom interrompe l’invio del gas in Ucraina: la previsione di Andrej Kurkov, scrittore russo di 45 anni e ucraino di adozione raccontata nel romanzo «L’ultimo amore del presidente» e collocata nel 2013, si è avverata. Nel romanzo la crisi è provocata per indebolire Juščenko a vantaggio del candidato filorusso Viktor Janukovyč. Anche se nella realtà non c’è stato il bagno nella piscina aperta in pieno inverno nel quale un Putin molto attivo e gioviale invita i capi di Stato di mezzo mondo per dimostrare forma fisica e autocontrollo, l’analisi di Kurkov non è solo fantasia di romanziere: nel prossimo marzo in Ucraina vi saranno le elezioni politiche e con una Europa che si espande ad Est il presidente russo deve contenere le ambizioni nazionaliste all’interno della Comunità, in particolare di Paesi con le forze armate sempre alla ricerca di riscatto.

Poi l’accordo per cinque anni, affidato a una società, la RosUkrEnergo, in parte di proprietà di Gazprom e di cui si sa poco d’altro, alla vigilia della presidenza russa del G8, delle elezioni presidenziali con un Putin candidato per il terzo mandato, con un’economia rafforzata dai prezzi petroliferi e un’Europa impaurita dai rubinetti del gas improvvisamente chiusi. Non è assente l’Italia nei progetti di Gazprom, seconda dopo la Germania tra i 23 Paesi che usufruiscono del gas russo proveniente dai grandi giacimenti di Pečora, di Benezovo e di Urengoj, a 6 mila chilometri dall’imbocco del viadotto di Tarvisio. Il nostro consumo è in crescita abnorme in ogni settore, nel riscaldamento delle case, nelle industrie, nelle centrali elettriche: dal 2005 è passato da 54 miliardi di metri cubi l’anno agli 85 miliardi previsti per il 2006. L’autoproduzione ammonta a 13 miliardi, il resto sono importati - per il 30 per cento di provenienza russa -, da Paesi di relativa affidabilità come l’Algeria e la Libia oppure dall’Africa e dal Nord Europa.

In una notte, mentre il petrolio superava i 63 dollari al barile, il futuro del nostro approvvigionamento energetico è apparso nella sua nuda realtà: vulnerabile, aleatorio, squilibrato. E anziché avviare la programmazione di una seria possibilità di autoproduzione con l’unica fonte che potrebbe renderci autonomi con energia a basso costo, cioè il nucleare, si è ripetuto, come nei giorni del black-out del 2003, il folle diluvio di argomenti di esperti presunti, di disinformati faziosi, di smemorati consapevoli, di politici ambigui e pusillanimi che hanno voluto dire la loro invocando sole, vento, acqua per avere un’improbabile energia pulita in abbondanza, ma senza approfondire troppo un argomento complesso, in cui situazioni ambientali, motivazioni tecniche, valutazioni economiche, forti localismi, decisioni politiche, esigenze diplomatiche, condizioni di mercato, giocano un ruolo determinante.

Si invoca l’eolico dimenticando che ci mancano i venti di durata e di intensità sufficiente per una produzione superiore all’attuale 6 per cento del fabbisogno, per cui accanto ai pali ad elica bisognerebbe installare una centrale di produzione a gas o a carbone. Sempre che gli animalisti non protestino per la moria degli uccelli, come accade in Danimarca. A meno che non si realizzino centrali mosse dal vento catturato dagli aquiloni a 600-800 metri di altitudine, come quella progettata a Chieri da uno scienziato torinese.

Non manca chi propone centrali alimentate con gli steli legnosi del granturco o con le foglioline che ricoprono i chicchi di riso: a Pavia, Domodossola e Vercelli, zone di coltura, sono sorti i primi impianti. Oppure i noccioli delle olive impregnati di olio raccolti negli oleifici. Oppure i gusci di nocciola, raccogliendo gli scarti delle fabbriche di Nutella. Ottime idee, buone localmente, per una piccola fabbrica, per un’abitazione, come i pannelli solari, ma inadatte ad alimentare un grande stabilimento.

Nell’ultimo mese si è parlato di rigassificatori per riconvertire il gas liquefatto a circa 160 gradi sottozero e trasportato da navi metaniere criogeniche, per portarlo a meno 40 gradi in forma gassosa e immetterlo nelle condotte. Ma di gassificatori ne abbiamo solamente uno, al largo di Livorno, un secondo è in costruzione a Porto Viro nel delta del Po. Un terzo è in progetto a Brindisi da parte di British Gas, in un sito già destinato all’energia, tra la centrale Edipower e l’impianto petrolchimico.

«In due anni avrebbe potuto essere pronto–spiega Armando Henriques, amministratore di British Gas Italia–; l’iter delle pratiche di autorizzazione è concluso dal 2003 con un decreto ministeriale emesso in accordo con la Regione, dopo una conferenza dei servizi che ha coinvolto oltre 20 istituzioni locali e nazionali, per un rigassificatore da 8 miliardi di metri cubi l’anno, un decimo del fabbisogno italiano. Abbiamo avviato le gare d’appalto; a Idku sulla costa egiziana abbiamo costruito il terminale per la liquefazione. A Brindisi siamo fermi».

Non ci sono stati incidenti nei rigassificatori né in Egitto, né a Brindisi, né in qualsiasi altra parte del mondo; ma sostenuti da ricorsi al Tar e alla magistratura, da manifestazioni e da blocchi, i nuovi eletti al Comune, alla Provincia di Brindisi e alla Regione Puglia - Domenico Minnitti, Michele Errico e Nichi Vendola - vogliono cancellare tutto. British Gas adesso pensa a Barcellona dove, al centro del porto, un terminale accoglie 230 navi metaniere l’anno.

Anche se difficile da digerire, era l’energia nucleare la vera alternativa, in un Paese terzo nel mondo negli studi e nella capacità nucleare dopo Stati Uniti e Gran Bretagna, e davanti a Giappone, Francia, Germania, Corea e Russia; oggi l’Italia avrebbe potuto vendere energia elettrica in quantità e ridurre notevolmente le tariffe del consumo interno. Ma tale prospettiva è stata mandata all’aria con un referendum basato sulla disinformazione, sulla demagogia, su interessi particolaristici, sulla leva della paura collettiva dopo la sciagura di Chernobyl, rimasto unico incidente in una centrale nucleare sulle circa 500 oggi attive nel mondo, dovuto a errori di progettazione e incuria nella gestione e nella manutenzione.

«È stato un errore gravissimo uscire dal nucleare–spiega l’ingegner Paolo Fornaciari, ex vicedirettore centrale di Enel–, con un danno che allora calcolammo in 120 mila miliardi di lire. Soltanto che allora il petrolio costava 15 dollari al barile, mentre oggi ne costa 64, per cui il danno è quattro volte maggiore». All’epoca Fornaciari era responsabile della società nucleare dell’Enel, oggi Sogin-Società gestione impianti nucleari spa, ed ha progettato le centrali nucleari di Latina, Garigliano in provincia di Caserta, Trino Vercellese, Caorso in provincia di Piacenza e Montalto di Castro nel Viterbese.

Secondo l’ing. Fornaciari, la denuclearizzazione del Paese con lo smantellamento delle centrali è un’interpretazione politica del referendum del novembre 1987 che, nel quesito posto agli elettori, non riguardava assolutamente l’uscita dal nucleare ma solo la localizzazione delle centrali: il Governo di allora, un pentapartito presieduto da Giovanni Goria, ha portato, unico al mondo, alla chiusura delle centrali nucleari. Nessun Paese ha adottato una decisione del genere e in tempi rapidissimi. Si deve chiarire che il costo dello smantellamento è una piccola frazione del costo di impianto, tra il 5 e l’8 per cento, perché viene diluito in 50 o 60 anni, come fanno tutti compresa la Germania, dove il governo Schröder appena eletto l’ha annunciato ma ancora non l’ha fatto.

L’Inghilterra recentemente ha stabilito che queste operazioni, se necessarie, avverranno tra 100 anni. «Da noi a farlo in tempi rapidi l’ha deciso l’allora ministro dell’Industria Pier Luigi Bersani annunciandolo in una conferenza stampa–ricorda Fornaciari–, ed è costato agli utenti elettrici, industrie e famiglie, 7.500 miliardi di lire quando, con una cifra largamente inferiore, si potevano riavviare le centrali. Quindi un danno enorme, senza alcun atto del Parlamento». Il ministro inviò poi una lettera al Parlamento, che si rifiutò di esaminarla perché aveva deliberato una moratoria, cioè una sospensione delle nuove costruzioni per 5 anni. «Quando avvertii i miei dirigenti Enel che smantellando le centrali senza autorizzazione rischiavano una denuncia, mi risposero che la denuncia era già arrivata. L’8 maggio del 2001 c’è stato un decreto del ministro Enrico Letta, a demolizione avviata senza aver prima identificato il sito dove depositare i materiali. Confermo che non è corretto invocare il referendum quando viene proposto di ripartire con il nucleare. Non c’è bisogno di nessuna legge, basta una decisione politica. Né ci vogliono 15 o 20 anni. Chiariamo perché anche qui alcuni ministri dicono sciocchezze». E spiega che le centrali di Caorso e di Trino Vercellese potrebbero riavviarsi in un tempo compreso tra i 12 e i 15 mesi, al massimo in un paio di anni, con una spesa di circa 200 milioni di euro, pari al 5 per cento di quanto costerà lo smantellamento; potranno produrre energia elettrica a un centesimo di euro per chilowattora, mentre attualmente ci costa il doppio. Solo quelle di Latina e Garigliano non possono più essere utilizzate. «Ho accompagnato personalmente al ministero delle Attività produttive alcuni responsabili della Westinghouse, forse la maggiore società elettronucleare del mondo, che forniscono centrali nucleari largamente prefabbricate che possono entrare in attività in 3 anni. Il contratto che la Finlandia ha stipulato recentemente con i francesi per una centrale nucleare prevede un tempo di costruzione di 4 anni».

Non è difficile calcolare il danno per gli utenti e per l’economia del Paese, che si prolunga nel tempo con il prezzo del petrolio e del gas aumentato negli ultimi 5 anni del 600 per cento. A New York il light crude è passato da 10 a 63 dollari il barile mentre a Londra il brent è sui 62. Produrre un megawatt/ora di energia elettrica con il gas costa circa 60 euro rispetto agli 80 con l’olio combustibile derivato dal petrolio, ai 40 con il carbone e ai 25 con il nucleare.
Un MWh prodotto con un impianto idroelettrico costa 20 euro, ma noi siamo già allo sfruttamento integrale di queste capacità. Sul petrolio e sul gas grava l’incognita delle riserve che non sono illimitate. «Questo è ben noto alle amministrazioni dei Paesi produttori–spiega Fornaciari–, perché 50 anni fa un importante geologo americano aveva previsto il declino della produzione petrolifera del Paese». Nel 1991 il rapporto annuale del World Watch Institute diretto da Lester Brown calcolava l’esistenza di una riserva mondiale di petrolio di 1.011 miliardi di barili, l’unità di misura di 42 galloni pari a 157,97 litri nata 130 anni fa quando il trasporto avveniva in botti di legno a dorso di cavallo, su carri, poi su chiatte per arrivare al treno e alla nave.

Ai ritmi di produzione del 1989, le riserve accertate 15 anni fa sarebbero potute durare 44 anni. Oggi i ritmi di produzione e di consumo sono aumentati rispetto a 15 anni fa, ed è esploso anche un grave problema di sicurezza internazionale: i giacimenti maggiori sono in Medio Oriente con 660 miliardi di barili, e in America Latina con 125. «Adesso per l’Italia puntare tutto sul gas è un errore strategico enorme–conclude Fornaciari–. I nostri esperti o presunti tali si illudono che costruendo qualche rigassificatore si risolva il problema. Non è vero. Anzitutto per il prezzo, perché l’operazione costa vari miliardi di euro mentre il prezzo del petrolio e del gas continuerà a salire. Com’è una illusione parlare di produzione fotovoltaica, eolica, con fonti alternative. Va bene per gli scaldarelli».

Secondo Fornaciari bisogna tornare assolutamente al nucleare. Quelli degli oppositori sono interessi diversi, che poi diventano convergenti. In campo politico grandi gruppi economici hanno interesse ad andare avanti così, perché più caro è il petrolio maggiore è il loro guadagno. «Chi ci rimette sono le famiglie che non riescono ad arrivare alla fine del mese e le imprese che hanno difficoltà a competere sul mercato internazionale perché pagano l’energia più cara degli altri, come nei settori di vetro, ceramica, plastica, siderurgia, che vedono un prezzo maggiorato del 30 o 40 per l’energia. Gli ambientalisti, che si oppongono al nucleare per motivi che definiscono ideologici ma secondo me per carriera politica, insistono nel sogno delle fonti rinnovabili, che possono al massimo dare un contributo del 4 per cento. Quando i cinesi lasceranno la bicicletta per l’automobile ne vedremo delle belle, rimpiangeremo il prezzo del petrolio di oggi. Credo che non sia sbagliato prevederlo a 100 dollari. Continuando ad essere soddisfatti per aver rinunciato alla produzione nucleare».

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